Il libro

Una rete d’ombra si stringe sempre di più intorno agli Shadowhunters dell’Istituto di Londra. Mortmain progetta di usare un esercito di automi spietati per distruggere una volta per tutte i Cacciatori. Gli manca un solo elemento per completare l’opera: Tessa Gray. Intanto, Charlotte Branwell, capo dell’Istituto, cerca disperatamente di trovarlo per impedirgli di scatenare l’attacco. E quando Mortmain rapisce Tessa, Will e Jem, i ragazzi che ambiscono alla conquista del suo cuore, fanno di tutto per salvarla. Perché anche se Tessa e Jem sono fidanzati ufficialmente, Will è ancora innamorato di lei, ora più che mai. Tuttavia, mentre chi le vuole bene unisce le forze per strapparla alla perfidia di Mortmain, Tessa si rende conto che l’unica persona in grado di salvarla dal male è lei stessa. Ma come può una sola ragazza, per quanto capace di comandare il potere degli angeli, affrontare un intero esercito? Pericoli e tradimenti, segreti e magia, oltre ai fili sempre più ingarbugliati dell’amore e dell’abbandono si legano e si confondono mentre gli Shadowhunters vengono spinti sull’orlo del precipizio, in un finale che lascia con il fiato mozzo.

L’autore

Cassandra Clare è nata a Teheran e ha vissuto i primi anni della sua vita in giro per il mondo con la famiglia. Dopo aver lavorato come giornalista tra Los Angeles e New York, ora si è fermata a Brooklyn, dove scrive i suoi libri nei caffè e nei ristoranti, perché a casa si distrae. Per Mondadori ha già pubblicato Shadowhunters (Città di Ossa, Città di Cenere, Città di Vetro, Città degli angeli caduti, Città delle anime perdute) e Shadowhunters. Le origini (L’angelo, Il principe) che hanno appassionato tutti gli amanti dell’urban fantasy.

Cassandra Clare

S HADOWHUNTERS LA PRINCIPESSA traduzione di Raffaella Belletti

Per la famiglia Lewis: Melanie, Jonathan e Helen

Ero persuaso, come colui che canta Al suono di un’arpa chiara in vari accenti, Che l’uomo possa levarsi a più alte cose Sulle pietre da guado dei suoi morti. Alfred, Lord Tennyson, In Memoriam A.H.H.

PROLOGO YORK, 1847



Ho paura — disse la bambina seduta sul letto. — Nonno, puoi restare con me?

Aloysius Starkweather avvicinò una sedia al letto e si sedette, emettendo un verso gutturale che sarebbe dovuto sembrare di insofferenza. Ma lo era solo in parte. Al vecchio faceva piacere che la nipote nutrisse tanta fiducia in lui, che spesso era il solo in grado di tranquillizzarla. Nonostante la sua natura delicata, la bambina non era mai turbata dal burbero modo di fare del nonno. — Non c’è niente di cui avere paura, Adele. Vedrai. La piccola lo guardò con occhi sgranati. Normalmente la cerimonia delle prime rune avrebbe avuto luogo in uno degli spazi più maestosi dell’Istituto di York, ma a causa dei nervi deboli e della salute cagionevole di Adele si era convenuto di organizzarla al riparo della sua stanza. La bambina era seduta sull’orlo del letto, con la schiena ben ritta. Indossava un vestito da cerimonia rosso, e un nastro dello stesso colore le fermava i fini capelli biondi. Gli occhi erano enormi nel viso magro, le braccia esili. Tutto in lei era fragile come una tazza di porcellana. — I Fratelli Silenti… che cosa mi faranno? — Dammi il braccio — le disse il nonno. Adele allungò il braccio destro, con aria fiduciosa. Nel girarlo, Aloysius notò la nervatura azzurrina delle vene sotto la pelle. — Useranno i loro stili – sai già cos’è uno stilo – per applicarti un marchio. Di solito tracciano per prima la runa della Veggenza, che avrai modo di studiare, ma nel tuo caso cominceranno con quella della Forza. — Perché non sono molto forte. — Per irrobustirti. — Come il brodo di manzo — disse Adele, arricciando il naso. Il vecchio sorrise. — Speriamo che non sia altrettanto sgradevole. Sentirai una leggera puntura; dovrai essere coraggiosa e non gridare, perché i Cacciatori non gridano di dolore. Poi la puntura sparirà e ti sentirai molto meglio, più forte. Con questo la cerimonia avrà fine, e andremo di sotto a festeggiare. Ci saranno torte glassate. Adele fece un salto di gioia. — E una festa! — Sì, una festa. E regali. — Il nonno si diede dei colpetti sulla tasca, dov’era nascosta una piccola scatola avvolta in una bella carta azzurra, contenente un anello di famiglia ancora più piccolo. — Ne ho uno proprio qui. Lo riceverai subito dopo la cerimonia dei marchi. — Non avevo mai avuto una festa tutta per me. — È perché stai per diventare una Cacciatrice — disse Aloysius. — Sai perché è tanto importante, non è vero? I tuoi primi marchi significano che sei una Nephilim, come me, come tua madre e tuo padre. Significano che fai parte dell’Enclave, della nostra famiglia di guerrieri. Che sei

diversa e migliore di chiunque altro. — Migliore di chiunque altro — ripeté la bambina mentre la porta si apriva e due Fratelli Silenti entravano nella stanza. Aloysius scorse il guizzo di paura negli occhi della nipote, che tirò via il braccio. Lui aggrottò la fronte: non gli piaceva vedere i propri discendenti in preda alla paura, sebbene non potesse negare che i Fratelli fossero inquietanti, con il loro silenzio e i loro strani movimenti fluidi. Mentre i due si avvicinavano al lato del letto su cui era seduta Adele, la porta si aprì nuovamente e i genitori della bambina entrarono nella stanza: il padre, figlio di Aloysius Starkweather, indossava una tenuta da combattimento scarlatta; la madre vestiva un abito rosso, largo in vita, e una collana d’oro a cui era appesa una runa enkeli. Sorrisero alla figlia, che restituì loro un sorriso tremebondo mentre i Fratelli Silenti si disponevano ai suoi fianchi. Adele Lucinda Starkweather. Era la voce del primo Fratello, Cimon. Ormai hai l’età giusta. È giunto il momento che ti venga conferito il primo marchio dell’Angelo. Sei consapevole dell’onore che ti viene accordato e farai tutto quanto in tuo potere per esserne degna? Adele annuì con fare rispettoso. — Sì. E accetti questi marchi dell’Angelo, che saranno per sempre sul tuo corpo, a memento di tutto ciò che devi all’Angelo e del tuo sacro dovere nei confronti del mondo? La bambina annuì di nuovo. — Sì, li accetto. Il cuore di Aloysius si gonfiò di orgoglio. Allora iniziamo. Uno stilo comparve nella lunga mano bianca del Fratello Silente. Cimon afferrò il braccio tremante di Adele, vi appoggiò sopra la punta dello strumento e cominciò a disegnare. Dalla punta dello stilo fuoriuscirono spirali nere, e la bambina fissò meravigliata il simbolo della Forza prendere forma sulla pelle chiara della parte interna del braccio: un delicato motivo di linee che si intersecavano, attraversando le vene e avvolgendosi intorno al braccio. Adele aveva il corpo rigido, i piccoli denti affondati nel labbro superiore. I suoi occhi balenarono in alto verso il nonno, che sussultò alla vista di quanto vi scorse. Era normale sentire un po’ di dolore nel ricevere un marchio, ma ciò che il vecchio vide negli occhi della nipote era una sofferenza inaudita. Si alzò di scatto, facendo cadere la sedia. — Basta! — gridò, ma troppo tardi. La runa era ormai completa. Il Fratello Silente si ritrasse, spalancando gli occhi. Lo stilo era insanguinato. Adele gemeva, memore della raccomandazione del nonno di non gridare, ma all’improvviso la sua pelle straziata e coperta di sangue cominciò a staccarsi dalle ossa, annerendosi e bruciando sotto la runa, come se questa fosse di fuoco. La bambina non poté fare a meno di rovesciare la testa all’indietro e urlare a squarciagola…

PROLOGO LONDRA, 1873



Will? — Charlotte Fairchild aprì con cautela la porta della sala delle esercitazioni. — Sei qui?

Per tutta risposta, le giunse un grugnito soffocato. La porta si spalancò, rivelando un sala ampia dall’alto soffitto. Anche Charlotte era cresciuta addestrandosi lì, e conosceva ogni dislivello delle assi di legno del pavimento, il vecchio bersaglio dipinto sulla parete nord, le finestre a riquadri, così antiche da avere i vetri più spessi alla base che in alto. Al centro della stanza c’era Will Herondale, con un coltello nella mano destra. Girò la testa per guardare Charlotte, e lei pensò di nuovo a che strano bambino fosse, anche se a dodici anni era difficile considerarlo ancora tale. Era un ragazzino molto bello, con folti capelli neri leggermente ondulati nel punto in cui toccavano il colletto, in quel momento bagnati di sudore e incollati alla fronte. Quando era arrivato all’Istituto, la sua pelle era abbronzata dall’aria di campagna, ma sei mesi di vita in città ne avevano fatto defluire il colore e messo in risalto il rossore sulle guance. Gli occhi erano di un azzurro straordinariamente luminoso. Un giorno sarebbe diventato un bell’uomo, sempre che avesse eliminato l’espressione accigliata che ne alterava perennemente i lineamenti. — Che c’è, Charlotte? — domandò, brusco, asciugandosi la fronte con la manica. Parlava ancora con un lieve accento gallese, arrotando le vocali in un modo che sarebbe stato adorabile, se il tono non fosse stato tanto scontroso. Charlotte varcò la porta. — Sono ore che ti cerco — disse con una certa asprezza, benché sapesse che quel tono aveva ben poco effetto su Will. Non erano molte le cose che avevano effetto su di lui quando era di malumore, e lo era quasi sempre. — Non ricordi cosa ti ho detto ieri, che oggi avremmo accolto un nuovo ospite dell’Istituto? — Non l’ho dimenticato. — Will lanciò il coltello, che si conficcò appena fuori del cerchio del bersaglio rendendo la sua espressione ancora più cupa. — Ma non m’importa. Il ragazzino alle spalle di Charlotte emise un verso soffocato. Una risata, avrebbe detto lei, ma non stava certo ridendo, no? Pur essendo stata avvertita che il nuovo venuto proveniente da Shanghai aveva dei problemi di salute, Charlotte era trasalita nel vederlo scendere dalla carrozza, pallido e ondeggiante come una canna al vento, i capelli scuri solcati da striature argentee, quasi fosse un uomo che aveva passato l’ottantina e non un dodicenne. Aveva grandi occhi neri, stranamente belli ma inquietanti in un viso tanto delicato. — Will, ora farai la persona educata — disse Charlotte, e tirò via il ragazzino da dietro di sé, spingendolo nella sala mentre gli diceva: — Non fare caso a lui, è solo di malumore. Will Herondale, ti presento James Carstairs, dell’Istituto di Shanghai. — Jem. Tutti mi chiamano Jem — disse il nuovo arrivato, e fece un altro passo nella sala,

osservando Will con uno sguardo pieno di cordiale curiosità. Parlava senza traccia di accento, con stupore di Charlotte, ma in fondo suo padre era – o, meglio, era stato – inglese. — Puoi farlo anche tu. — Be’, se tutti ti chiamano così, non è poi questo gran favore, no? — Il tono di Will era scorbutico. Per essere così giovane aveva un’incredibile capacità di rendersi sgradevole. — Penso che scoprirai, James Carstairs, che, se ti farai i fatti tuoi e mi lascerai in pace, sarà la cosa migliore per tutti e due. Charlotte sospirò. Aveva tanto sperato che quel ragazzino, coetaneo di Will, si rivelasse uno strumento in grado di spogliarlo della rabbia e della cattiveria, ma pareva proprio che Will fosse stato sincero quando le aveva detto che non gli importava se all’Istituto stava arrivando un altro giovane Cacciatore: non voleva amici, non ne sentiva la mancanza. Charlotte lanciò un’occhiata a Jem, aspettandosi di vederlo sbattere gli occhi per la sorpresa o l’offesa. Ma quello si limitò a fare un lieve sorriso, come se Will fosse un gattino che avesse provato a morderlo. — Non mi alleno da quando ho lasciato Shanghai — disse. — Potrebbe farmi comodo un partner… qualcuno con cui esercitarmi. — Anche a me — replicò Will. — Ma mi serve qualcuno che sia alla mia altezza, non una creatura malaticcia che sembra avere un piede nella fossa. Tuttavia suppongo che potresti tornare utile per il tiro al bersaglio. Charlotte, sapendo ciò che sapeva su James Carstairs – e che non aveva confidato a Will – si sentì invadere da un orrore doloroso. Vacillare verso la tomba, oh, Signore . Cosa le aveva detto, il padre? Che la vita di Jem dipendeva da una droga, una specie di medicina che gli avrebbe allungato, ma non salvato, la vita. Oh, Will…Fece per mettersi tra i due, quasi per proteggere Jem dalla crudeltà di Will, che in quel caso aveva colto nel segno più di quanto potesse immaginare… ma si fermò. Jem non aveva neppure cambiato espressione. — Se con “avere un piede nella fossa” intendi morire, sì, è così — dichiarò. — Mi restano circa due anni di vita, tre se sarò fortunato, o almeno così mi dicono. Neppure Will poté nascondere la sorpresa. Arrossì violentemente. — Io non… Ma Jem si era diretto verso il bersaglio dipinto sulla parete. Quando lo raggiunse, tirò via il coltello dal legno; poi si girò e andò dritto verso Will. Pur essendo tanto delicato, era alto quanto lui, e solo pochi centimetri separavano i loro occhi quando si incrociarono e si fissarono a vicenda. — Serviti pure di me per allenarti al tiro al bersaglio, se lo desideri — disse Jem in maniera disinvolta come se parlasse del tempo. — Non credo che avrei molto da temere, visto che non sei un tiratore provetto. — Si girò, prese la mira e lanciò il coltello, che si conficcò dritto nel centro del bersaglio vibrando leggermente. — Oppure potresti permettere a me di insegnare a te. Perché sono un tiratore davvero bravo. Charlotte sgranò gli occhi. Nel corso di quei sei mesi aveva guardato Will allontanare chiunque provasse ad avvicinarlo – istitutori, Henry, i due fratelli Lightwood – con una precisa combinazione di antipatia e crudeltà. Se non fosse stata l’unica persona ad averlo mai visto piangere, avrebbe abbandonato anche lei da un pezzo la speranza che potesse mai farsi benvolere da qualcuno. Eppure, mentre guardava Jem Carstairs, un ragazzino dall’aria talmente fragile da sembrare fatto di vetro, la durezza dell’espressione di Will si andò lentamente dissolvendo in un’incertezza piena di esitazione. — Stai davvero morendo? — chiese in uno strano tono di voce. Jem annuì. — Così mi dicono.

— Mi dispiace. — No, non essere così banale. — Jem aprì la giacca e sfilò un coltello dalla cintura. — Non dire che ti dispiace. Di’ che ti allenerai con me. — E gli porse il coltello dalla parte dell’impugnatura. Charlotte trattenne il fiato, timorosa di muoversi. Aveva l’impressione di assistere a qualcosa di molto importante, anche se non avrebbe saputo dire esattamente a cosa. Will prese il coltello, senza staccare gli occhi da quelli di Jem. Nel prendere l’arma, le sue dita sfiorarono quelle dell’altro ragazzo. — Mi allenerò con te. Era la prima volta, si disse Charlotte, che lo aveva visto toccare spontaneamente un’altra persona.

1 UN VERO DIAVOLO A QUATTRO

Il lunedì ci si sposa per salute e bellezza, Il martedì per avere ricchezza, Il mercoledì è il giorno migliore, Il giovedì porta solo dolore, Il venerdì privazioni e rimpianto, Il sabato sfortuna soltanto. Poesia popolare

D

— icembre è un mese propizio alle nozze — disse la sarta, parlando con la bocca piena di spilli con la disinvoltura maturata in anni di pratica. — Come si dice: “Se l’amore vuoi far durare, a dicembre con la neve ti devi sposare”. — Infilò l’ultimo spillo nell’abito da sposa e fece un passo indietro. — Ecco fatto. Che ne pensate? È ispirato a un modello di Charles Frederick Worth *. Tessa guardò il proprio riflesso nella specchiera della stanza. L’abito di seta era di un colore dorato cupo, com’era consuetudine dei Cacciatori, che ritenevano il bianco il colore del lutto e non ci si sarebbero mai sposati (nonostante l’esempio della stessa Regina Vittoria, che aveva lanciato quella moda). Merletti duchesse orlavano il corpetto aderente e ricadevano dalle maniche. — È un amore! — Charlotte batté le mani e si sporse in avanti, con gli occhi scintillanti di contentezza. — Tessa, questo colore ti dona molto. La ragazza si rigirò davanti allo specchio. La tinta dorata dava alle sue guance un po’ del colore necessario; il corsetto a clessidra la modellava e metteva in evidenza le curve giuste. L’angelo meccanico intorno al collo la confortava con il suo ticchettio; sotto di esso era appeso il ciondolo di giada regalatole da Jem. Tessa aveva allungato la catenella in modo da poterli portare insieme, non volendo separarsi da nessuno dei due. — Non credi che il merletto sia un po’ troppo ricco? — Niente affatto! — Charlotte si appoggiò allo schienale della sedia, portando inconsapevolmente una mano alla pancia con fare protettivo. Era sempre stata troppo magra – pelle e ossa, a dire la verità – per avere davvero bisogno di un corsetto, e da quando era incinta aveva cominciato a indossare abiti informali, che la facevano sembrare un uccellino. — È il giorno del tuo matrimonio. Se mai c’è un’occasione per un abito un po’ troppo ricco, è questa. Non credi? Tessa aveva passato molte notti cercando di fare proprio quello. Non era ancora sicura di dove lei e Jem si sarebbero sposati, perché il Consiglio stava ancora considerando la loro situazione. Ma, quando immaginava il matrimonio, era sempre in una chiesa, con lei che avanzava lungo il corridoio centrale, forse al braccio di Henry, e non guardava né a destra né a sinistra, ma dritta davanti a sé, al

suo promesso, come ogni sposa che si rispetti. Jem avrebbe indossato una tenuta, non da combattimento ma disegnata appositamente per l’occasione, nella foggia di un’uniforme militare: nera con bande dorate ai polsi e rune dorate cucite lungo il colletto. Avrebbe avuto un’aria davvero giovane. Erano entrambi giovani. Tessa sapeva che era inconsueto sposarsi a diciassette e diciotto anni, ma la loro era una corsa contro il tempo. Il tempo della vita di Jem, prima che si esaurisse. Si portò la mano al collo e sentì la familiare vibrazione dell’angelo meccanico, le ali che le sfioravano il palmo. La sarta alzò lo sguardo su di lei. Era una mondana, non una Nephilim, ma aveva la Vista, come tutti quelli che erano al servizio dei Cacciatori. — Volete che tolga il merletto, signorina? Prima che la ragazza potesse rispondere, si sentì bussare alla porta e risuonò una voce familiare: — Sono Jem. Tessa, sei lì? Charlotte fece un salto. — Non deve vederti con l’abito da sposa! Tessa era confusa. — E perché mai? — È un’usanza dei Cacciatori… porta sfortuna! — Charlotte si alzò. — Svelta, nasconditi dietro l’armadio! — L’armadio? Ma… — Tessa fu afferrata per la vita da Charlotte e spinta dietro l’armadio, tenuta con le braccia dietro la schiena, come fanno i poliziotti con i criminali che oppongono una particolare resistenza. Una volta libera, si spolverò il vestito e fece una smorfia, quindi si sporse da dietro il mobile mentre la sarta apriva la porta. La testa argentea di Jem fece capolino nell’apertura. Sembrava un po’ scarmigliato, con la giacca storta. Si guardò intorno imbarazzato prima di scorgere Charlotte e Tessa, seminascoste dall’armadio. — Grazie al cielo — disse. — Non avevo idea di dove foste finite. Gabriel Lightwood è di sotto, e sta facendo il diavolo a quattro. — Scrivigli, Will — disse Cecily Herondale. — Ti prego. Solo una lettera. Will gettò indietro i capelli, zuppi di sudore, e la fulminò con lo sguardo. — Metti i piedi in posizione — fu tutto ciò che disse, indicando con la punta del pugnale il pavimento. — Là, e là. Cecily sospirò e spostò i piedi. Sapeva di non essere in posizione; lo aveva fatto apposta, per provocarlo. Era facile provocare suo fratello. Era ciò che ricordava di lui da quando aveva dodici anni. Anche allora sfidarlo a fare qualcosa, come arrampicarsi sul tetto ripido del loro maniero, sortiva lo stesso effetto: una fiamma azzurra d’ira negli occhi, la mascella contratta e alla fine, a volte, Will con una gamba o un braccio rotti. Naturalmente questo fratello, questo Will quasi adulto, non era quello che rammentava dall’infanzia. Era diventato più impetuoso, ma anche più introverso. Aveva tutta la bellezza della madre e tutta la cocciutaggine del padre… e, temeva Cecily, l’inclinazione di quest’ultimo ai vizi, sebbene lo avesse supposto soltanto dai bisbigli orecchiati tra gli ospiti dell’Istituto. — Alza la lama — disse Will. La sua voce era fredda e professionale, come quella dell’istitutrice di Cecily. La ragazza obbedì. Aveva impiegato un po’ ad abituarsi al tocco della tenuta da combattimento sulla pelle: la tunica larga e i pantaloni, la cintura intorno alla vita. Ormai vi si muoveva con lo stesso agio della sua più ampia camicia da notte. — Non capisco perché non prendi in considerazione l’idea di scrivere una

lettera. — E io non capisco perché non prendi in considerazione l’idea di andare a casa — ribatté Will. — Se acconsentissi a tornartene nello Yorkshire, potresti smetterla di preoccuparti per i nostri genitori e io potrei dedicarmi… Cecily, che si era sorbita quel discorso almeno mille volte, lo interruppe. — E una scommessa la prenderesti in considerazione? — Fu compiaciuta, ma anche un po’ delusa, nel vedere gli occhi di Will brillare, proprio come accadeva sempre al padre ogniqualvolta veniva proposta una scommessa tra gentiluomini. Gli uomini, così prevedibili… — Che genere di scommessa? — Will fece un passo avanti. Era anche lui in tenuta da combattimento. Cecily scorgeva i marchi tracciati intorno ai polsi, la runa mnemosyne sulla gola. Le ci era voluto un po’ per non vedere in quei marchi solo degli sfregi, ma ormai vi si era abituata, così come si era abituata alle grandi sale echeggianti dell’Istituto e ai suoi strani ospiti. Indicò la parete di fronte a loro. Vi era dipinto un vecchio bersaglio nero: un centro racchiuso in un cerchio. — Se farò centro tre volte di seguito, dovrai scrivere una lettera a mamma e papà per dare tue notizie. Dovrai raccontare della maledizione e del perché te ne sei andato. Il viso di Will si chiuse come una porta, nel modo che gli era abituale quando lei gli faceva quella richiesta. — Non lo colpirai mai tre volte senza mancarlo, Cecy. — Be’, in tal caso non dovresti avere alcun problema ad accettare la scommessa, William. — Cecily usò di proposito il nome intero. Sapeva che Will si irritava quando era lei a usarlo, mentre quando lo faceva Jem, il suo miglior amico – anzi, il suo parabatai; da quando era arrivata all’Istituto aveva imparato che erano due cose completamente diverse – Will sembrava considerarlo un termine affettuoso. Forse perché si ricordava ancora di quando lei gli trotterellava dietro sulle gambette paffute chiamandolo “Will! Will!” e urlando ansimante in gallese. Non lo aveva mai chiamato “William”, solo e sempre “Will” o nella versione gallese del nome, Gwilym. Gli occhi del ragazzo si socchiusero. Quando la madre diceva con tenerezza che da grande il figlio avrebbe fatto strage di cuori, Cecily la guardava sempre con aria dubbiosa. A quel tempo il fratello era tutto braccia e gambe, magro come un chiodo, arruffato e perennemente sporco. Ormai, però, si rendeva conto che la madre aveva visto giusto; anzi, se n’era resa conto non appena aveva messo piede nella sala da pranzo dell’Istituto e lui era saltato su sbalordito. Si era detta: Non può essere Will! Aveva spostato quegli occhi su di lei, gli occhi di sua madre, e Cecily vi aveva scorto l’ira. Non era stato contento di vederla, per niente. E se nei suoi ricordi c’era stato un ragazzino magro come un chiodo, con una zazzera di capelli neri arruffati come quelli di uno zingaro, e i vestiti pieni di foglie, adesso c’era invece un giovane uomo che incuteva timore. Le parole che si era proposta di dire le si erano dissolte sulla lingua, e lo aveva ripagato di eguale moneta, rivolgendogli a sua volta uno sguardo truce. E così era stato da allora, con Will che sopportava appena la sua presenza, quasi fosse un sassolino nella scarpa, un fastidio costante ma di scarsa entità. Cecily fece un respiro profondo, sollevò il mento e si preparò al primo lancio. Will non sapeva, non avrebbe mai saputo delle ore che aveva trascorso in quella stanza, da sola, ad allenarsi, a imparare a bilanciare il peso del coltello nella mano, a scoprire che un buon lancio cominciava già dietro il corpo. Tenne le braccia abbassate e poi spinse il braccio destro indietro, oltre la testa, prima di spostarlo in avanti con tutto il peso del corpo: la punta del coltello era in linea con il

bersaglio. Lanciò l’arma e ritrasse la mano di scatto, trattenendo il respiro. Il coltello si conficcò nella parete, esattamente nel centro del bersaglio. — E uno — disse la ragazza, rivolgendo un sorriso di superiorità al fratello. Will la guardò impassibile, sfilò il coltello dalla parete e glielo porse di nuovo. Cecily lo lanciò. Anche questa volta, come la prima, l’arma filò direttamente verso il bersaglio e vi si conficcò, ondeggiando come un dito beffardo. — E due — disse Cecily, in tono sepolcrale. La mascella di Will si irrigidì mentre lui riprendeva il coltello e glielo porgeva. La sicurezza in se stessa affluiva nelle vene di Cecily come sangue nuovo. Sapeva di potercela fare. Era sempre stata capace di arrampicarsi in alto quanto Will, di correre altrettanto veloce, di trattenere il fiato altrettanto a lungo… Lanciò il coltello. Quando quello colpì il bersaglio, nell’euforia della vittoria Cecily saltò in aria battendo le mani e, per un attimo, perse il controllo. I capelli si sfilarono dalle forcine e le ricaddero sul viso; li spinse indietro e fece un largo sorriso a Will. — Devi scrivere quella lettera. Hai accettato la scommessa! Con sua sorpresa, il fratello le restituì il sorriso. — Oh, la scriverò. La scriverò… e poi la getterò nel fuoco — disse, alzando una mano per contenere il suo scoppio di indignazione. — Ho detto che l’avrei scritta. Non ho mai detto che l’avrei spedita. Cecily rimase senza fiato. — Come osi giocarmi un tiro del genere! — Te l’avevo detto che non avevi la stoffa della Cacciatrice, altrimenti non ti saresti fatta imbrogliare tanto facilmente. Non scriverò nessuna lettera, Cecy. È contro la Legge, facciamola finita. — Come se a te importasse della Legge! — Cecily pestò i piedi a terra, e subito si irritò per quel gesto: non aveva mai potuto soffrire le ragazze che pestavano i piedi a terra. Will socchiuse gli occhi. — E a te non importa di essere una Cacciatrice. Come la mettiamo? Scriverò una lettera e te la darò, se prometterai di consegnarla personalmente… e di non tornare. Cecily indietreggiò. Aveva molti ricordi di discussioni furibonde con Will, delle bambole di porcellana che le aveva rotto gettandole dalla finestra della soffitta, ma nei suoi ricordi c’erano anche atti di gentilezza: lui che le bendava un ginocchio ferito, o le legava i nastri dei capelli che si erano sciolti. Quella gentilezza era assente nel giovane uomo che le stava di fronte. Per un anno o due, dopo che Will se n’era andato, la madre aveva pianto in continuazione; diceva, stringendo a sé Cecily, che i Cacciatori gli avrebbero “tolto tutto l’amore”. Era gente fredda, diceva, gente che aveva proibito a suo marito di sposarla. Cosa poteva avere a che fare con loro il suo piccolo Will? — Non me andrò — ribatté Cecily, fissando intensamente il fratello. — E se insisti a dire che devo farlo, io… io… La porta della soffitta si aprì senza rumore, e la sagoma di Jem si stagliò sull’uscio. — Ah, vi state minacciando a vicenda, a quanto pare. Va avanti da tutto il pomeriggio, o avete appena cominciato? — È stato lui a cominciare. — Cecily indicò Will, pur sapendo che era inutile. Jem la trattava con la gentilezza cortese e distratta riservata alle sorelle minori degli amici, ma prendeva sempre le parti di Will. Gentilmente, ma con fermezza, metteva Will al di sopra di qualsiasi altra cosa al mondo. O quasi. Al suo arrivo all’Istituto, Cecily era stata molto colpita da Jem, ragazzo dalla bellezza inquietante,

insolita, con i capelli e gli occhi argentei e i lineamenti delicati. Sembrava il principe di un libro di fiabe, e lei avrebbe anche potuto prendere in considerazione l’idea di sviluppare un affetto nei suoi confronti, se non fosse stato chiaro come il sole che era pazzamente innamorato di Tessa Gray. I suoi occhi la seguivano ovunque andasse, la sua voce cambiava quando le parlava. Una volta Cecily aveva sentito sua madre dire, divertita, che uno dei figli dei vicini guardava una ragazza come se fosse “l’unica stella in cielo”, ed era così che Jem guardava Tessa. Cecily non se l’era presa: Tessa era simpatica e la trattava con gentilezza, sebbene fosse un po’ timida e avesse il viso costantemente affondato in un libro, come Will. Se era quello il tipo di ragazza che Jem voleva, allora loro due non sarebbero mai stati una coppia bene assortita, si era detta Cecily… inoltre, più a lungo restava all’Istituto, più si rendeva conto di come una storia tra lei e Jem avrebbe reso le cose difficili con Will. Lui era ferocemente protettivo nei confronti del parabatai, e non le avrebbe tolto gli occhi di dosso, per controllare che non lo angustiasse o ferisse in qualche modo. No… molto meglio tenersi alla larga da tutto ciò. — Stavo giusto pensando di legare Cecily e darla in pasto alle anatre di Hyde Park — disse Will, elargendo a Jem uno dei suoi rari sorrisi. — Potrei avere bisogno del tuo aiuto. — Sfortunatamente dovrai rimandare i tuoi propositi di sororicidio. Gabriel Lightwood è di sotto, e io ho due parole da dirti. Due delle tue parole preferite, perlomeno una volta che le metti insieme. — Perfetto babbeo? — chiese Will. — Insulso parvenu? Jem fece un sorrisetto. — Sifilide demoniaca. Sophie tenne in equilibrio il vassoio su una mano, grazie alla destrezza derivante dalla lunga pratica, mentre con l’altra bussava alla porta di Gideon Lightwood. Sentì un rumore di veloci passi strascicati, quindi la porta si spalancò. Gideon le comparve davanti in pantaloni, bretelle e una camicia bianca rimboccata fino ai gomiti. Aveva le mani bagnate, come se si fosse appena passato velocemente le dita tra i capelli, anch’essi bagnati. Il cuore le balzò leggermente in petto, prima di calmarsi. Sophie si costrinse a guardarlo con espressione arcigna. — Signor Lightwood, ho portato gli scones che avevate chiesto, e Bridget vi ha preparato anche un piatto di sandwich. Gideon arretrò di un passo per farla entrare. La sua era come tutte le altre stanze dell’Istituto: massicci mobili scuri, un ampio letto a baldacchino, un grande caminetto e alte finestre, che in quel caso davano sul cortile sottostante. Sophie sentì il suo sguardo su di sé mentre attraversava lentamente la stanza per posare il vassoio sul tavolo davanti al fuoco. Si raddrizzò e si girò verso di lui, con le mani giunte davanti al grembiule. — Sophie… — Signor Lightwood — lo interruppe lei. — Avete bisogno di altro? Lui la guardò con un’aria tra l’adirato e il triste. — Vorrei che mi chiamaste Gideon. — Vi ho già detto che non posso chiamarvi con il vostro nome di battesimo. — Sono un Cacciatore; non ho nome di battesimo. Sophie, vi prego. — Gideon fece un passo verso di lei. — Prima di trasferirmi all’Istituto credevo che fossimo ormai amici. E invece dal giorno del mio arrivo mi trattate freddamente. Sophie portò senza volere la mano al viso. Ricordò il signorino Teddy, il figlio della sua vecchia

padrona, e il modo orribile in cui era solito afferrarla negli angoli bui e spingerla contro la parete, con le mani che si insinuavano sotto il corpetto, mormorandole all’orecchio che avrebbe fatto meglio a essere più carina con lui. Il pensiero la riempiva ancora di disgusto. — Sophie… — Gli occhi di Gideon si incresparono agli angoli, preoccupati. — Che c’è? Se vi ho fatto un torto, o vi ho mancato di riguardo, vi prego di dirmi di che si tratta, in modo che possa porvi rimedio… — Nessun torto, nessuna mancanza di riguardo. Voi siete un gentiluomo e io una cameriera; qualsiasi altro tipo di rapporto significherebbe una familiarità eccessiva. Vi prego di non mettermi in imbarazzo, signor Lightwood. Gideon, che aveva sollevato la mano a mezz’aria, la lasciò ricadere lungo il fianco. Aveva un’aria talmente sconsolata che il cuore di Sophie si addolcì. Io ho tutto da perdere e lui niente, ricordò in quel momento a se stessa. Era la frase che si ripeteva a tarda notte, stesa nel suo lettuccio, mentre nella mente le indugiava il ricordo di un paio di occhi dello stesso colore del mare in tempesta. — Pensavo che fossimo amici — disse Gideon. — Non posso essere vostra amica. Il Cacciatore fece un passo avanti. — E se vi chiedessi…? — Gideon! — Henry era apparso sulla soglia, con uno dei suoi terribili panciotti a righe verdi e arancione. — Tuo fratello è qui, di sotto. Gideon sbarrò gli occhi. — Gabriel è qui? — Sì. Urla non so cosa a proposito di vostro padre, ma giura che non ci dirà nulla di più, a meno che tu non sia presente. Vieni. Gideon esitò, spostando gli occhi da Henry a Sophie, che faceva di tutto per sembrare invisibile. — Ora non… — Vieni subito, Gideon. — Henry parlava di rado in tono brusco, ma quando lo faceva l’effetto era inquietante. — È coperto di sangue. Gideon impallidì e allungò la mano verso la spada appesa all’attaccapanni. — Eccomi. Gabriel Lightwood era appoggiato alla parete accanto alla porta dell’Istituto, senza giacca, con la camicia e i pantaloni zuppi di sangue scarlatto. Fuori, attraverso la porta aperta, Tessa vide la carrozza dei Lightwood, con lo stemma raffigurante una fiamma, ferma ai piedi dei gradini d’ingresso. Il ragazzo doveva averla guidata fin lì da solo. — Gabriel… — disse Charlotte in tono tranquillizzante, come se cercasse di domare un cavallo selvaggio. — Dicci cos’è successo, ti prego. Gabriel – alto e snello, i capelli castani appiccicosi di sangue – si strofinò il viso, con sguardo folle. Aveva anche le mani insanguinate. — Dov’è mio fratello? Devo parlare con Gideon. — Sta scendendo. Ho mandato Henry a chiamarlo, e Cyril a preparare la carrozza dell’Istituto. Gabriel, sei ferito? Hai bisogno di un iratze? — Charlotte aveva un tono materno, come se quel ragazzo non l’avesse mai guardata con aria sprezzante da dietro la sedia di Benedict Lightwood, come se non avesse mai cospirato con suo padre per portarla via l’Istituto. — Sei zuppo di sangue — disse Tessa, facendosi avanti. — Non è tutto tuo, vero? Gabriel la guardò. — No… È loro… Era la prima volta che lo vedeva comportarsi senza assumere pose, pensò Tessa. Nei suoi occhi

c’era solo paura, stupore, e… confusione. — Loro? Loro chi? — Era stato Gideon a parlare, precipitandosi giù dalle scale con la spada nella destra. Con lui c’erano Henry e Jem, seguiti da Will e Cecily. Jem si fermò sulle scale interdetto, e Tessa si rese conto che l’aveva scorta con l’abito da sposa. Sgranò gli occhi, ma gli altri lo stavano già spingendo, trascinandolo giù dalle scale come una foglia al vento. — Nostro padre è ferito? — continuò preoccupato Gideon, fermandosi davanti a Gabriel. — E tu? — Alzò una mano e gli prese il viso, afferrandogli il mento e girandolo verso di sé. Sebbene Gabriel fosse più alto, aveva chiaramente l’espressione tipica del fratello minore: sollievo che il fratello fosse lì e un guizzo di risentimento per il suo tono perentorio. — Nostro padre… è un verme. Will si lasciò scappare una risatina. Indossava la tenuta, come se fosse appena uscito dalla sala delle esercitazioni, e i capelli gli si arricciavano umidi contro le tempie. Non guardava Tessa, ma lei ci si era abituata. Will non la guardava quasi mai, a meno che non fosse costretto. — È bello constatare che hai abbracciato il nostro punto di vista, Gabriel, ma è un modo piuttosto insolito di annunciarlo. Gideon gli lanciò uno sguardo di rimprovero, prima di tornare a girarsi verso il fratello. — Che vuoi dire, Gabriel? Cos’ha fatto? Gabriel scosse la testa. — È un verme — ripeté in tono piatto. — Lo so. Ha infangato il nome dei Lightwood e mentito a entrambi. Ha disonorato e distrutto nostra madre. Ma noi non dobbiamo essere necessariamente come lui. Gabriel si strappò dalla presa del fratello. D’un tratto i denti gli balenarono nel viso irato. — Non mi stai ascoltando — ribatté. — È un verme. Un verme. Un grosso affare sanguinolento simile a un serpente. Da quando Mortmain ha sospeso l’invio della medicina, nostro padre è peggiorato. È cambiato. Quelle piaghe sulle braccia hanno cominciato a diffondersi. Le mani, il collo, il viso… — Gli occhi verdi di Gabriel cercarono Will. — È stata la sifilide, non è vero? Tu sai tutto in proposito, non sei una specie di esperto? — Be’, non è che l’abbia inventata io — replicò Will. — Ce ne sono resoconti… vecchie storie in biblioteca… — Sifilide demoniaca? — chiese Cecily, con il viso contratto in una smorfia confusa. — Ma che cos’è? Will aprì la bocca, mentre un lieve rossore gli copriva gli zigomi. Tessa nascose un sorriso. Erano passate settimane dall’arrivo di Cecily all’Istituto, e la sua presenza continuava a irritare Will e a turbarlo. Sembrava non sapere come comportarsi con la sorella minore, che non era più la bambina che ricordava e la cui presenza lui insisteva a definire importuna. Eppure, Tessa lo aveva visto seguire con lo sguardo Cecily in giro per una stanza, con negli occhi lo stesso amore protettivo che a volte riservava a Jem. Sicuramente l’esistenza della sifilide demoniaca, e come se ne veniva contagiati, era l’ultima cosa che avrebbe voluto spiegarle. — Niente che possa interessarti — bofonchiò Will. Gli occhi di Gabriel si spostarono su Cecily, e le sue labbra si schiusero per la sorpresa. Tessa vide che la stava esaminando. I genitori di Will dovevano essere stati entrambi molto belli, pensò, perché Cecily era graziosa quanto il fratello era attraente, con gli stessi capelli neri splendenti

e gli sbalorditivi occhi di un azzurro scuro. Cecily gli restituì audacemente lo sguardo, con espressione curiosa. Si stava chiedendo chi fosse quel ragazzo che sembrava nutrire tanta antipatia per Will. — Nostro padre è morto? — chiese Gideon, alzando la voce. — La sifilide demoniaca l’ha ucciso? — Non ucciso. Trasformato — rispose Gabriel. — Alcune settimane fa ha voluto che ci trasferissimo a Chiswick, senza dire perché. Qualche giorno fa si è chiuso nel suo studio, da cui non è più uscito neppure per mangiare. Questa mattina volevo provare a stanarlo. La porta dello studio era divelta dai cardini. C’era la… la traccia di una sostanza viscida che conduceva nell’atrio. L’ho seguita al piano di sotto e nei giardini. — Gabriel scosse il capo. — È diventato un verme. Letteralmente. — Credi che sarebbe possibile… ehm, calpestarlo per sbaglio? — chiese Henry. Il ragazzo lo ignorò, con una smorfia sprezzante. — Ho cercato nei giardini. Ho trovato alcuni servitori. E quando dico che li ho “trovati”, intendo alla lettera. Erano stati fatti a pezzi. — Gabriel deglutì e abbassò lo sguardo sugli abiti insanguinati. — Ho sentito un rumore… una specie di acuto ululato. Mi sono girato e l’ho visto venire verso di me. Un grande verme cieco, come un drago uscito da una leggenda; aveva la bocca spalancata, orlata di denti simili a pugnali. Mi sono girato e mi sono messo a correre verso le scuderie. Mi ha inseguito strisciando, ma io sono balzato sulla carrozza e l’ho guidata fuori del cancello. Quella creatura disgustosa – nostro padre – non mi è venuta dietro. Credo che tema di farsi vedere dalla gente comune. — Ah… dunque è troppo grosso perché possa essere calpestato — fece Henry. — Non sarei dovuto scappare — continuò Gabriel. — Sarei dovuto rimanere e affrontare la creatura. Forse si può farla ragionare. Forse nostro padre è da qualche parte lì dentro, Gideon. — E forse ti avrebbe tagliato a metà con un morso — disse Will. — Ciò che stai descrivendo, la trasformazione in demone, è l’ultimo stadio della sifilide. — Will! — esclamò Charlotte, alzando le braccia al cielo. — Ma perché non l’hai detto prima? — I libri sulla sifilide demoniaca sono in biblioteca. Non ho impedito a nessuno di leggerli. — Sì, ma se sapevi che Benedict stava per tramutarsi in un viscido serpente, avresti potuto almeno accennarne — replicò Charlotte. — È una questione di interesse generale. — Primo, non sapevo che si sarebbe tramutato in un verme gigante. Lo stadio finale della sifilide demoniaca consiste nella trasformazione in un demone. Un demone di qualsiasi tipo — spiegò Will. — Secondo, ci vogliono settimane perché il processo della trasformazione abbia luogo. Credevo che perfino un idiota patentato come il nostro Gabriel, qui presente, se ne sarebbe accorto e ne avrebbe parlato a qualcuno. — A chi? — domandò Jem. Si era avvicinato a Tessa, e i dorsi delle loro mani si sfioravano. — All’Enclave. Al postino. A noi. A chiunque — rispose Will lanciando uno sguardo irritato a Gabriel, che stava cominciando a riprendere colore e sembrava furioso. — Io non sono un idiota patentato… — La mancanza di un attestato non è certo una prova di intelligenza — borbottò Will. — E poi, come vi ho detto, mio padre si è chiuso a chiave nel suo studio la scorsa settimana… — E non hai ritenuto opportuno di dare un particolare peso alla cosa? — Tu non conosci nostro padre — ribatté Gideon nel tono di voce piatto che usava a volte, quando era inevitabile che la conversazione toccasse la famiglia. Tornò a girarsi verso il fratello e

gli mise le mani sulle spalle, parlando con voce calma e sommessa per non farsi sentire dagli altri. Jem agganciò con il mignolo quello di lei. Era un gesto affettuoso abituale, a cui la ragazza si era abituata nel corso dei mesi precedenti, tanto che a volte allungava la mano senza pensarci quando lui le era accanto. — È il tuo vestito da sposa? — le chiese sottovoce. A Tessa fu impedito di rispondere dall’arrivo di Bridget, che aveva portato alcune tenute da combattimento, e da Gideon, che si rivolse ai presenti dicendo: — Io e Gabriel dobbiamo andare subito a Chiswick. — Da soli? — fece Tessa. — Perché non vuoi che qualcuno vi accompagni? — Non vuole che l’Enclave sappia di suo padre — disse Will, con uno sguardo penetrante negli occhi azzurri. — Tu lo vorresti? — ribatté Gabriel. — Se si trattasse della tua famiglia? — Le sue labbra si incresparono. — Ma lasciamo stare. Come se tu conoscessi il significato della parola lealtà… — Gabriel… — La voce di Gideon aveva un tono di rimprovero. — Non parlare in questo modo a Will. Gabriel apparve sorpreso, e Tessa non poté certo biasimarlo. Gideon, come tutto l’Istituto, sapeva della maledizione di cui Will era stato convinto per anni di essere vittima, e che ne aveva provocato l’ostilità e i modi bruschi, ma era una storia riservata, di cui non era stato messo a conoscenza nessun esterno. — Verremo con voi — dichiarò Jem, lasciando la mano di Tessa e facendo un passo avanti. — Gideon ci ha reso un favore. Non l’abbiamo dimenticato, vero, Charlotte? — Certo che no — rispose Charlotte, girandosi. — Bridget, le tenute… — Fortunatamente io indosso già la mia — disse Will mentre Henry si toglieva la giacca e la sostituiva vestendo la giubba di una tenuta da combattimento e una cintura per le armi. Jem lo imitò. Charlotte parlava con voce calma e distesa a Henry, la mano sospesa sopra la pancia. Tessa distolse lo sguardo da quel momento intimo e vide due teste, una scura e una bionda, chine l’una accanto all’altra. Jem aveva sfoderato lo stilo e tracciava una runa sul lato del collo di Will. Cecily guardò il fratello e aggrottò le ciglia. — Fortunatamente, anch’io indosso già la tenuta. Will alzò la testa di scatto, strappando a Jem un verso di protesta irritata. — Non se ne parla proprio. — Non hai alcun diritto di dirmi ciò che devo o non devo fare. — Gli occhi di Cecily lampeggiarono. — Vengo con voi. Will girò bruscamente la testa verso Henry. L’uomo fece spallucce, con aria di scusa. — Ne ha tutto il diritto. Si è allenata per quasi due mesi… — È una bambina! — Tu a quindici anni facevi lo stesso — disse Jem con calma, e Will si girò di nuovo verso di lui. Per un momento tutti sembrarono trattenere il fiato, perfino Gabriel. Jem sostenne lo sguardo di Will con fermezza e, non per la prima volta, Tessa ebbe la sensazione che tra i due avvenisse uno scambio di parole non dette. Will sospirò e socchiuse gli occhi. — Ora vorrà venire anche Tessa. — Certo che vengo — disse lei. — Non sarò una Cacciatrice, ma mi sono allenata anch’io. Jem

non andrà senza di me. — Ma sei in abito da sposa — replicò Will. — Be’, ora che tutti l’avete visto, non mi ci potrò certo sposare — dichiarò Tessa. — Porta sfortuna. Will bofonchiò qualcosa in gallese, qualcosa di incomprensibile, ma chiaramente nel tono di chi ha avuto la peggio. Dall’altra parte della stanza, Jem porse a Tessa un lieve sorriso. Poi la porta dell’Istituto si spalancò, inondando l’ingresso di luce autunnale. Sulla soglia stava Cyril, trafelato. — La seconda carrozza è pronta. Chi viene? Al Console Josiah Wayland Dal Consiglio Caro signore, come certamente saprete, la durata della vostra carica di Console, dopo dieci anni, sta volgendo al termine. È giunto il momento di nominare un successore. Da parte nostra, stiamo prendendo seriamente in considerazione la nomina di Charlotte Branwell, nata Fairchild. Ha fatto un buon lavoro a capo dell’Istituto di Londra, e crediamo che goda della vostra approvazione, essendo stato voi a proporla per quella carica alla morte del padre. Dal momento che la vostra opinione e la vostra stima sono per noi della massima importanza, ci sarebbe molto gradito conoscere la vostra opinione al riguardo. Con i migliori ossequi, il vostro Victor Whitelaw, Inquisitore, a nome del Consiglio

*

Charles Frederick Worth (1825-1895), stilista inglese.

2 IL VERME CONQUISTATORE

È molta Follia, e ancor più Peccato E Orrore ad animare la vicenda. Edgar Allan Poe, Il verme conquistatore

Quando la carrozza dell’Istituto varcò il cancello di Casa Lightwood a Chiswick, Tessa poté apprezzare il luogo come non le era stato possibile fare la prima volta che c’era stata, in piena notte. Un lungo viale coperto di ghiaia e fiancheggiato da alberi conduceva a una rotonda antistante un enorme edificio. Con le sue linee forti e simmetriche e le colonne lisce, la casa aveva una forte somiglianza con i disegni dei templi greci e romani che Tessa aveva avuto modo di vedere. Sentieri di ghiaia si stendevano attraverso una rete di giardini. Bellissimi giardini. Perfino in ottobre erano un tripudio di fiori: rose rosse dalla fioritura tarda e crisantemi di colore arancione bronzato, giallo e dorato orlavano i sentieri ordinati che serpeggiavano tra gli alberi. Quando Henry fermò la carrozza, Tessa ne discese aiutata da Jem e sentì il rumore dell’acqua: un ruscello, immaginò, deviato per scorrere attraverso i giardini. Era un luogo talmente bello che nella sua mente non riusciva quasi ad associarlo a quello in cui Benedict aveva dato il suo ballo demoniaco, sebbene vedesse il sentiero che aveva percorso quella notte e che girava intorno alla casa. Conduceva a un’ala dell’edificio che sembrava essere stata aggiunta di recente… La carrozza dei Lightwood, guidata da Gideon, si fermò dietro di loro. Ne discesero Gabriel, Will e Cecily. I fratelli Herondale stavano ancora discutendo. Will illustrava le sue ragioni con decisi movimenti delle braccia. Cecily lo guardava torva, e l’espressione furiosa del suo viso la faceva assomigliare talmente al fratello che, in altre circostanze, la cosa sarebbe stata addirittura divertente. Gideon, perfino più pallido di prima, si girò impugnando la spada sguainata. — La carrozza di Tatiana — disse mentre Jem e Tessa lo raggiungevano, indicando il veicolo parcheggiato davanti ai gradini d’ingresso con entrambi gli sportelli aperti. — Deve aver deciso di fare una capatina. — Di tutti i momenti… — Gabriel sembrava furioso, ma i suoi occhi verdi erano stravolti dalla paura. Tatiana era la sorella dei due ragazzi, e si era sposata da poco. Lo stemma sulla carrozza, una corona di spine, doveva essere il simbolo della famiglia del marito, pensò Tessa. Gabriel si avvio verso il veicolo, sfilando una lunga sciabola dalla cintura. Si affacciò all’interno e imprecò ad alta voce. Si tirò indietro, incrociando lo sguardo di Gideon. — C’è del sangue sui sedili. E… questa roba. — Accostò la punta della sciabola a una ruota: quando la ritrasse, ne penzolava un lungo filo di una sostanza viscida e maleodorante.

Will sfilò una lama angelica dalla giacca e gridò: — Eremiel! — Quando la spada cominciò a sfavillare, pallida stella bianca nella luce autunnale, il Nephilim indicò prima a nord, poi a sud. — I giardini corrono tutt’intorno alla casa, giù fino al fiume; ci ho passato un’intera notte a inseguire in lungo e in largo il demone Marbas. Ovunque sia Benedict, dubito che lascerà questi terreni. Sarebbe troppo grande il rischio di essere visto. — Noi prendiamo il lato ovest della casa. Voi prenderete quello est — disse Gabriel. — Se vedete qualcosa gridate, e arriveremo. Gabriel pulì la lama sulla ghiaia del viale d’accesso, si rialzò e seguì il fratello intorno al lato dell’edificio. Will si avviò nella direzione opposta seguito da Jem, con Cecily e Tessa alle loro calcagna. Si fermò all’angolo della casa, ispezionando i giardini con lo sguardo, attento a ogni particolare o rumore insoliti. Un attimo dopo fece segno agli altri di andargli appresso. Mentre avanzavano, il tacco della scarpa di Tessa si impigliò tra la ghiaia sparpagliata sotto le siepi. La ragazza inciampò e si raddrizzò subito, ma Will si volse indietro e aggrottò la fronte. — Tessa… — C’era stato un tempo in cui l’aveva chiamata “Tess”, ma ormai non lo faceva più. — Non dovresti stare con noi. Non sei preparata. Aspetta in carrozza. — No — ribatté lei, in tono ribelle. Will si girò verso Jem, che sembrava nascondere un sorriso. — È la tua fidanzata. Falla ragionare. Jem, impugnando il bastone-spada, si voltò verso la ragazza. — Tessa, consideralo come un favore personale, vuoi? — Non mi credi in grado di combattere, soltanto perché sono una ragazza. — Tessa si ritrasse, sostenendo il suo sguardo argenteo. — Non ti credo in grado di combattere perché indossi un abito da sposa — replicò Jem. — E, per quanto possa valere, credo che neppure Will sarebbe in grado di combattere con quell’abito indosso. — Forse no — disse il parabatai, che aveva un udito da pipistrello. — Però sarei una sposa radiosa. Cecily alzò la mano per indicare in lontananza. — Cos’è quello? Videro una sagoma correre nella loro direzione. Avevano il sole in faccia, e per un istante, mentre gli occhi si abituavano alla luce, Tessa scorse solo una macchia indistinta. La macchia si trasformò rapidamente nella figura di una ragazza in corsa. Aveva perso il cappello: i capelli castano chiari si agitavano al vento. Era alta e magra, vestita con un abito di un rosa sgargiante tutto lacero e macchiato di sangue. Continuò a gridare correndo a perdifiato verso di loro e si gettò tra le braccia di Will. Il Cacciatore indietreggiò barcollando, facendo quasi cadere la sua Eremiel. — Tatiana… Tessa non avrebbe saputo dire se fosse stato lui a spingerla via o lei a ritrarsi, in ogni caso Tatiana si allontanò di qualche centimetro da Will, e Tessa poté scorgerne per la prima volta il viso. Sembrava denutrita. Aveva i capelli color sabbia di Gideon, gli occhi verdi di Gabriel, e avrebbe potuto anche essere graziosa, se non avesse avuto i lineamenti pallidi e stravolti. Sebbene avesse le guance rigate di lacrime e fosse senza fiato, c’era qualcosa di teatrale nel suo atteggiamento, come se si rendesse conto di avere tutti gli occhi puntati addosso… soprattutto quelli di Will. — Un grosso mostro — piagnucolò. — Una creatura… ha tirato giù il caro Rupert dalla carrozza ed è scappata via con lui!

Will la spinse un po’ più in là. — Dov’è andata? Tatiana tese il braccio. — Laggiù — disse con un singhiozzo. — Lo ha trascinato verso i giardini all’italiana. All’inizio Rupert è riuscito a evitare le fauci, ma poi il mostro lo ha dilaniato allontanandosi lungo i sentieri. Per quanto gridassi, non ha voluto saperne di metterlo giù! — Fu assalita da un nuovo moto di pianto. — Hai gridato… — mormorò Will. — È tutto quello che hai fatto? — Ho gridato tantissimo — replicò Tatiana, con aria offesa. Si scostò da Will e lo fissò con uno sguardo furioso. — Vedo che sei meschino come sempre. — Poi si girò a guardare Tessa, Cecily e Jem. — Signor Carstairs — salutò in tono affettato, quasi fossero a un garden-party. Nel posarsi su Cecily, i suoi occhi si socchiusero. — E voi… — Oh, in nome dell’Angelo! — Will si allontanò spingendola via. Jem, sorridendo a Tessa, lo seguì. — Voi non potete essere altri che la sorella di Will — disse Tatiana a Cecily mentre i ragazzi sparivano in lontananza. Ignorò volutamente Tessa. — Lo sono, ma non riesco a immaginare che importanza abbia — replicò Cecily, incredula. — Tessa… vieni? — Sì. — Anche se Will e Jem non la volevano, non poteva starli a guardare mentre andavano ad affrontare il pericolo. Dopo un istante sentì alle spalle i passi riluttanti di Tatiana sulla ghiaia. Si stavano allontanando dalla casa, verso i giardini all’italiana seminascosti da alte siepi. La luce del sole si rifletteva su una serra in legno e vetro con una cupola sul tetto. Era una bella giornata autunnale: c’era un vento pungente, l’odore delle foglie riempiva l’aria. Tessa sentì un fruscio e gettò un’occhiata all’edificio dietro di lei. La liscia facciata bianca si levava alta, interrotta solo dagli archi dei balconi. — Will — sussurrò mentre lui sollevava le braccia e le toglieva le mani dal collo. Le sfilò i guanti, che raggiunsero la maschera e le forcine sul pavimento di pietra. Quindi si tolse anche la propria maschera e la gettò via, passandosi le mani sui capelli bagnati e scostandoli dalla fronte. Il bordo inferiore della maschera gli aveva lasciato dei segni sugli zigomi, come leggere cicatrici, ma quando Tessa fece per toccarle, lui le prese dolcemente le mani e le spinse giù. — No — fece. — Lascia che sia prima io a toccarti. Lo desidero da… Arrossendo violentemente, Tessa distolse lo sguardo dalla casa e dai ricordi che conteneva. Il gruppo aveva raggiunto un’apertura tra le siepi, attraverso cui si vedeva quello che era chiaramente un giardino all’italiana, delimitato da un anello di fogliame. Era fiancheggiato da sculture raffiguranti eroi classici e figure mitologiche. Venere versava acqua da un’urna in una fontana centrale, mentre statue di grandi personaggi dell’antichità – Cesare, Erodoto, Tucidide – si guardavano l’un l’altra con occhi vacui attraverso i vialetti che si dipartivano dal punto centrale. Tessa passò di corsa davanti ad Aristotele, Ovidio, Omero – che aveva gli occhi coperti da una maschera a indicarne la cecità –, Virgilio e Sofocle, prima che un grido assordante lacerasse l’aria. Ruotò su se stessa. Qualche metro più in là Tatiana stava immobile, con gli occhi fuori dalle orbite. Tessa si precipitò verso di lei, seguita dagli altri; la raggiunse per prima. La ragazza le si aggrappò ciecamente, come dimenticando chi fosse. — Rupert… — gemette, con lo sguardo fisso davanti a sé. Tessa vide uno stivale da uomo che sporgeva da una siepe. Per un attimo pensò che il proprietario dovesse essere steso a terra, svenuto, con il resto del corpo nascosto dalle foglie, ma nel chinarsi in

avanti si rese conto che lo stivale – e gli svariati centimetri di carne rosicchiata e insanguinata che ne spuntavano – era tutto quello che c’era da vedere. — Un verme lungo più di dieci metri? — fece Will, mentre avanzavano nel giardino all’italiana senza che gli stivali – grazie a un paio di rune della Furtività – provocassero scalpiccii sulla ghiaia. — Pensa alle dimensioni del pesce che potremmo prendere. Le labbra di Jem si contrassero. — Non è divertente. — Un pochino lo è. — Non puoi ridurre questa faccenda a una barzelletta sui vermi, Will. È del padre di Gabriel e Gideon che stiamo parlando. — Non ne stiamo solo parlando: gli stiamo dando la caccia in un giardino ornamentale con tanto di statue. Si è trasformato in un verme. — Un verme demoniaco — precisò Jem, fermandosi per fare cautamente capolino da una siepe. — Un grande serpente. Questo potrebbe essere d’aiuto al tuo umorismo fuori luogo? — C’era un tempo in cui il mio umorismo fuori luogo ti procurava un certo divertimento. — Will sospirò. — Ma ormai deve aver fatto i vermi. All’improvviso ci fu un urlo assordante. I due ragazzi si girarono, in tempo per vedere Tatiana Blackthorn indietreggiare barcollando tra le braccia di Tessa. Questa l’afferrò e la sorresse, mentre Cecily si dirigeva verso una breccia nelle siepi, sfilando una lama angelica dalla cintura con la destrezza di una Cacciatrice esperta. Will non la sentì parlare, ma la lama le si materializzò davanti, illuminandole il viso e facendo divampare un’amara ondata di terrore nello stomaco del fratello. Will si mise a correre con Jem alle calcagna. Tatiana si era afflosciata inerte tra le braccia di Tessa, con il viso completamente stravolto dal pianto. — Rupert! Tessa si sforzava di sostenere il peso dell’altra ragazza, e Will avrebbe voluto fermarsi per aiutarla, ma Jem lo precedette mettendole una mano sul braccio, com’era giusto. In quanto suo fidanzato, quel ruolo spettava a lui. Will distolse la propria attenzione, seccato, rivolgendola di nuovo alla sorella, che stava attraversando la breccia tra le siepi con la spada alzata mentre aggirava i poveri resti di Rupert Blackthorn. — Cecily! — gridò. Lei fece per girarsi... E il mondo esplose. Una fontana di terra e fango schizzò davanti ai quattro, sollevandosi verso il cielo; zolle di terreno ricaddero rumorosamente su di loro come grandine. Al centro di quel singolare geyser c’era un enorme serpente cieco, di un pallido colore grigiastro. Il colore della carne morta, pensò Will. Ne proveniva un tanfo come di tomba. Tatiana emise un lamento e svenne, trascinando Tessa a terra con sé. Il verme cominciò a dibattersi con violenza, cercando di sfilarsi dal terreno. Le fauci si spalancarono: più che una bocca, era un enorme squarcio orlato di denti da squalo, che gli divideva in due la testa. Dalla gola usciva un sonoro sibilo lamentoso. — Fermo! — gridò Cecily. Teneva la lama angelica sfavillante davanti a sé; non sembrava avere la minima paura. — Indietro, dannata creatura! Il verme si abbatté su di lei. Cecily rimase ferma, con la spada in pugno, mentre le grandi mandibole si abbassavano… ma poi Will le piombò addosso, trascinandola via. Rotolarono tutti e due dentro una siepe, e la testa del

verme urtò il terreno nel punto in cui era stata la ragazza, lasciandovi un notevole avvallamento. — Will! — Cecily si divincolò dal fratello, ma non abbastanza in fretta. Gli colpì l’avambraccio con la lama angelica, lasciandovi una bruciatura rossa. Gli occhi della ragazza erano due fiamme azzurre. — Non ce n’era bisogno! — Non sei allenata! — ribatté Will, quasi fuori di sé per la furia e il terrore. — Ti farai ammazzare! Rimani dove sei! — Allungò la mano verso la spada di Cecily, ma la sorella sgusciò via e si rimise in piedi. Un attimo dopo, il verme stava di nuovo abbassandosi con le fauci spalancate. Quando si era tuffato verso la sorella, Will aveva lasciato cadere la propria spada, che ora si trovava a parecchi metri di distanza. Balzò su un fianco, evitando di pochi centimetri le mandibole della creatura, e poi arrivò Jem, brandendo il bastone-spada. Ne cacciò con forza la lama nel fianco del verme, che lanciò un grido infernale e si gettò all’indietro tra schizzi di sangue nero sparendo con un sibilo dietro una siepe. Will ruotò su se stesso; vedeva a malapena Cecily. Jem si era lanciato tra lei e Benedict, il verme, ed era inzaccherato di sangue nero e fango. Tessa si era tirata Tatiana in grembo; le gonne dei loro vestiti si allargavano a campana, il rosa sgargiante si mescolava all’oro ormai rovinato dell’abito da sposa. Tessa si era piegata sull’altra come per proteggerla dalla vista del padre, e una gran quantità di sangue demoniaco le era schizzato sui capelli e sul vestito. Quando sollevò il viso pallido, i suoi occhi incontrarono quelli di Will. Per un momento il giardino, il rumore, la puzza di sangue e di demone si dissolsero, e Will si ritrovò in un luogo ovattato con Tessa. Solo loro due. Avrebbe voluto correre da lei, prenderla tra le braccia. Proteggerla. Ma spettava a Jem fare certe cose, non a lui. Non a lui. Il momento passò, e Tessa ormai era in piedi che tirava su Tatiana, mettendosi sulle spalle un braccio della ragazza, ciondolante e semisvenuta. — Devi portarla via di qui, o finirà uccisa — disse Will, facendo scivolare lo sguardo sul giardino. — Non ha il minimo addestramento. La bocca di Tessa assunse la consueta piega risoluta. — Non voglio lasciarvi. — Pensi davvero che quel mostro possa farle del male? — chiese Cecily al fratello. Sembrava inorridita. — È sua figlia. Se ha ancora un briciolo di sentimento familiare… — Ha divorato il genero, Cecy — tagliò corto Will. — Tessa, vai con Tatiana, se vuoi salvarle la vita. E stai con lei vicino alla casa. Sarebbe un disastro se corresse di nuovo qui. — Grazie, Will — mormorò Jem mentre Tessa portava via Tatiana. Will percepì quelle parole come punture d’ago nel cuore. Ogni volta che faceva qualcosa per proteggere Tessa, Jem pensava che lo facesse per lui, non per se stesso. E ogni volta Will desiderava che Jem potesse avere visto giusto. Ogni puntura d’ago aveva un nome. Colpa. Vergogna. Amore. Cecily gridò. Un’ombra oscurò il sole, e la siepe davanti a Will si aprì di colpo. Il Nephilim si ritrovò a fissare la gola dell’enorme verme, dai cui grossi denti penzolavano fili di bava. Will fece per afferrare la spada alla cintura, ma il mostro stava già arretrando con un pugnale conficcato nel collo. Will riconobbe l’arma: era di Jem. Sentì il parabatai gridare un avvertimento, e poi vide il verme gettarglisi di nuovo addosso; spinse la spada verso l’alto, trafiggendogli la parte inferiore della mascella. Il sangue zampillò tra i denti della creatura. Poi qualcosa colpì Will dietro le ginocchia e

lui, colto alla sprovvista, stramazzò pesantemente al suolo, sbattendo le spalle sul tappeto erboso. Il colpo lo fece rimanere senza fiato. La sottile coda a segmenti anulari era avvolta intorno alle sue ginocchia. Will scalciò vedendo le stelle, il volto preoccupato di Jem, il cielo azzurro sopra di lui… Tunf! Una freccia si conficcò nella coda del mostro, proprio sotto il ginocchio di Will. La stretta di Benedict si allentò, il Cacciatore rotolò via e si mise a fatica in ginocchio, giusto in tempo per vedere i fratelli Lightwood accorrere lungo il sentiero di terra. Gabriel aveva in mano un arco; mentre correva stava incoccando un’altra freccia, e Will si rese conto con distratto stupore che Gabriel Lightwood gli aveva appena salvato la vita ferendo il padre. Il verme arretrò, e sotto le braccia di Will comparvero due mani che lo issarono in piedi. Quando Jem lo lasciò, Will vide che il parabatai aveva già sguainato il bastone-spada e lanciava sguardi truci al mostro. Il verme demoniaco sembrava contorcersi dal dolore, scuoteva la grande testa e ondeggiava, sradicando gli arbusti a forza di colpi. L’aria turbinava di foglie, e il gruppetto di Cacciatori soffocava per la polvere. Will sentì Cecily tossire e gli venne una gran voglia di dirle di correre verso la casa, ma sapeva che lei non l’avrebbe fatto. In qualche modo il verme, ferendosi le mandibole, si era sfilato la spada dal corpo; l’arma cadde a terra tra i cespugli di rose, sporca di sangue nero. La creatura cominciò a scivolare all’indietro, lasciando una traccia di bava e sangue. Gideon fece una smorfia e si lanciò in avanti per afferrare la spada. D’un tratto Benedict si impennò come un cobra, con le mandibole lacere e gocciolanti. Gideon sollevò la spada appena raccolta, apparendo incredibilmente piccolo di fronte all’enorme mole della creatura. — Gideon! — Gabriel, bianco come un cencio, sollevò l’arco. Will scartò mentre una freccia lo sfiorava e si conficcava nel corpo del verme. Il mostro strillò e roteò su se stesso, trascinandosi lontano dai Cacciatori a una velocità incredibile. Mentre scivolava via, colpì violentemente con la coda una statua, frantumandola. — Per l’Angelo, ha appena distrutto Sofocle! — esclamò Will mentre il verme spariva dietro una grande costruzione a forma di tempio greco. — Nessuno ha rispetto per i classici, al giorno d’oggi? Gabriel, respirando affannosamente, abbassò l’arco. — Stupido — disse in tono furioso al fratello. — Cosa pensavi di fare, andando sotto di lui a quel modo? Gideon si girò, puntandogli contro la spada insanguinata. — Non è più nostro padre, Gabriel. Se non riesci ad accettare questo fatto… — Gli ho tirato una freccia! Cos’altro vuoi da me? Gideon scosse la testa come disgustato dal fratello; perfino Will, a cui Gabriel non andava a genio, provò un guizzo di solidarietà per lui. — Dobbiamo inseguirlo — disse. — È andato dietro al capriccio… — Dietro cosa? — chiese Will. — Un capriccio è una costruzione decorativa — spiegò Jem. — Presumo che non abbia un vero interno. Gideon scosse la testa. — È solo gesso. Se noi due l’aggirassimo da un lato, e tu e James dall’altro… — Cecily, cosa stai facendo? — chiese Will, interrompendo Gideon; sapeva di dare

l’impressione del genitore assillante, ma non gliene importava. Cecily si era infilata la lama nella cintura e stava cercando di salire su uno dei piccoli tassi all’interno della prima fila di siepi. — Non è il momento di arrampicarsi sugli alberi! Cecily lo guardò furiosa, mentre i capelli neri le sventolavano davanti al viso. Aprì la bocca per replicare ma, prima che potesse parlare, echeggiò un fragore di terremoto e il capriccio esplose in una miriade di schegge di gesso. Il verme si lanciò in avanti, gettandosi sui ragazzi con la spaventosa velocità di un treno fuori controllo. Nel frattempo Tessa, collo e schiena doloranti, aveva raggiunto il cortile principale di Casa Lightwood. Era strizzata nel corsetto sotto il pesante abito da sposa, e il peso di Tatiana, sempre singhiozzante, le schiacciava dolorosamente la spalla sinistra. Fu sollevata nel vedere apparire le carrozze, sollevata e turbata. La scena nel cortile era tranquilla: i veicoli erano dove li avevano lasciati, i cavalli brucavano l’erba, la facciata della casa era intatta. Dopo avere per metà portato, per metà trascinato Tatiana alla prima carrozza, Tessa spalancò con violenza lo sportello e l’aiutò a salirvi, sussultando nel sentirsi conficcare unghie aguzze quando l’altra issò se stessa e le sue gonne nell’abitacolo. — Oddio — gemette Tatiana. — Che vergogna, che terribile vergogna, se l’Enclave verrà a conoscenza di quanto è accaduto a mio padre! Per l’amor del cielo, possibile che non abbia pensato a me, neppure per un istante? Tessa sbatté le palpebre, sconcertata. — Quella cosa… Non credo che fosse capace di pensare a chicchessia, signora Blackthorn. Tatiana la guardò confusa e, per un attimo, Tessa si vergognò del rancore che aveva provato nei confronti dell’altra ragazza. Le era dispiaciuto essere mandata via dai giardini, dove forse avrebbe potuto essere d’aiuto, ma Tatiana aveva appena visto con i suoi occhi il proprio marito fatto a pezzi dal proprio padre: meritava più simpatia di quanta Tessa non ne provasse. — So che avete avuto un brutto shock — disse Tessa, in un tono più gentile. — Se voleste stendervi… — Siete davvero alta — osservò Tatiana. — I gentiluomini se ne lamentano? Tessa sgranò gli occhi. — E siete vestita da sposa. Non sarebbe stata più adatta una tenuta da combattimento? Capisco che non dona e che la si indossa solo per necessità, ma… All’improvviso ci fu un gran fracasso. Tessa si scostò dalla carrozza e si guardò intorno; il rumore proveniva dall’interno della casa. Henry, pensò. Henry era entrato lì dentro da solo. Certo, la creatura era nei giardini, ma quella era pur sempre la casa di Benedict. Tessa ripensò alla sala da ballo piena di demoni, e sollevò le gonne con entrambe le mani. — Rimanete qui, signora Blackthorn. Devo scoprire la causa di quel rumore. — No, non mi lasciate! — Mi dispiace. — Tessa indietreggiò, scuotendo la testa. — Devo andare. Vi prego, rimanete dentro la carrozza! Tatiana le gridò appresso qualcosa, ma Tessa si era già girata per precipitarsi sui gradini d’ingresso. Si fece strada attraverso il portone e si ritrovò in una grande entrata pavimentata con lastre di marmo quadrate bianche e nere alternate, come una scacchiera. Dal soffitto pendeva un massiccio lampadario, ma tutte le candele erano spente; l’unica luce era quella del giorno, che si

riversava dalle alte finestre. Un imponente scalone curvo saliva a spirale verso il piano di sopra. — Henry! — gridò Tessa. — Henry, dove sei? Da sopra giunsero un grido di risposta e dell’altro fracasso. Tessa schizzò su per i gradini, inciampando nell’orlo del vestito e strappando una cucitura. Scostò impaziente la gonna e continuò a correre per un lungo corridoio alle cui pareti erano appese decine di stampe in cornici dorate, attraversò un paio di porte e si ritrovò in una stanza. Era senza dubbio la stanza di un uomo, una biblioteca o un ufficio: lo suggerivano le tende di una pesante stoffa scura, i dipinti a olio di grandi navi da guerra appesi alle pareti rivestite di una ricca carta da parati verde, che sembrava macchiata di strane chiazze scure. C’era uno strano odore nel locale, un odore che ricordava quello delle rive del Tamigi, dove strane cose imputridivano alla fievole luce del giorno; al di sopra di esso si librava l’odore metallico del sangue. Una libreria si era rovesciata, in un caos di vetri infranti e legno spezzato, e sul tappeto persiano lì accanto c’era Henry, avvinghiato in un corpo a corpo con una cosa dalla pelle grigia e un numero inquietante di braccia. Henry urlava e scalciava mentre la cosa – un demone, senza dubbio – con gli artigli gli lacerava la tenuta, cercando altresì di azzannargli il viso. Tessa si guardò freneticamente intorno, afferrò l’attizzatoio gettato accanto al caminetto spento e attaccò. Cercò di ricordare l’addestramento – tutte quelle ore in cui Gideon le aveva parlato minuziosamente di calibratura, velocità e presa – ma alla fine sembrò che fosse unicamente l’istinto a guidare l’asta di ferro nel tronco della creatura, laddove, se si fosse trattato di un animale vero, avrebbe dovuto esserci una gabbia toracica. Quando l’arma penetrò, si sentì scricchiolare qualcosa. Il demone lanciò un urlo simile all’abbaiare di un cane e lasciò la presa su Henry; dalla ferita zampillò una nera sostanza purulenta, che riempì la stanza di puzza di fumo e marciume. Il tacco di Tessa si impigliò nell’orlo strappato del vestito, facendola inciampare all’indietro. La ragazza cadde sul pavimento proprio mentre Henry si rialzava e, borbottando un’imprecazione, tagliava la gola al demone con la lama di un pugnale scintillante di rune. Il mostro emise un grido gorgogliante e si accartocciò come carta. Henry aveva i capelli sporchi di sangue e pus, la tenuta strappata all’altezza di una spalla, da cui colava altro sangue. — Tessa! — esclamò, quindi le si avvicinò e l’aiutò ad alzarsi. — Per l’Angelo, che coppia facciamo! — disse nel suo tipico tono contrito, osservandola preoccupato. — Non sei ferita, vero? Lei si guardò: aveva il vestito zuppo di materia purulenta e un brutto taglio sull’avambraccio, nel punto in cui era caduta sul vetro in frantumi. Non le faceva molto male, ma c’era del sangue. — Sto benissimo — rispose. — Cos’è successo, Henry? Cos’era quella cosa e perché era qui dentro? — Un demone guardiano. Stavo frugando nella scrivania di Benedict, e devo aver mosso o toccato qualcosa che lo ha risvegliato. Dal cassetto è uscito del fumo nero e si è trasformato in quello. Mi si è scagliato contro… — E ti ha ferito con gli artigli — disse Tessa, preoccupata. — Sanguini… — No, quella è opera mia. Sono caduto sul pugnale — spiegò Henry, imbarazzato, estraendo uno stilo dalla cintura. — Acqua in bocca con Charlotte. Tessa sorrise; poi si lanciò attraverso la stanza e aprì le tende di una delle alte finestre. Il suo sguardo spaziò sui giardini, ma non su quello all’italiana; non erano nell’ala giusta della casa. Davanti ai suoi occhi si stendevano verdi siepi di bosso, che cominciavano a tingersi di marrone con l’avanzare dell’inverno. — Ora devo andare. Will, Jem e Cecily stavano lottando con la creatura che

ha ucciso il marito di Tatiana Blackthorn. Mi è toccato accompagnarla alla carrozza, visto che stava quasi svenendo. — Tessa… — disse Henry, in una strano tono di voce. Quando si girò, lei lo vide bloccato nell’atto di applicarsi un iratze nella parte interna del braccio. Stava fissando la parete di fronte a lui, quella che poco prima era parsa a Tessa stranamente chiazzata e coperta di macchie. Sulla carta da parati si allungavano lettere alte trenta centimetri, scritte in quello che sembrava sangue secco. I CONGEGNI INFERNALI NON HANNO PIETÀ. I CONGEGNI INFERNALI NON HANNO RIMORSO. I CONGEGNI INFERNALI NON HANNO FINE. I CONGEGNI INFERNALI TORNERANNO SEMPRE. E un’ultima frase appena leggibile, come se chiunque l’avesse scritta stesse perdendo l’uso delle mani. Tessa immaginò Benedict Lightwood che, chiuso a chiave in quella stanza, impazziva a poco a poco mentre subiva la trasformazione e tracciava le parole sulla parete con il proprio sangue pieno di materia purulenta. DIO ABBIA PIETÀ DELLE NOSTRE ANIME. Il verme attaccò. Will si tuffò in avanti con una capriola, evitandone di poco le mandibole che si aprivano e si chiudevano. Si accovacciò, quindi scattò in piedi e corse lungo il corpo della creatura, fino alla coda che si dimenava. Roteò su se stesso e vide il demone incombere come un cobra su Gideon e Gabriel: sembrava essersi bloccato in quella posizione, lanciando sibili, ma senza attaccare. Aveva riconosciuto i figli? Sentiva qualcosa per loro? Impossibile a dirsi. Cecily era a metà dell’albero di tasso, aggrappata a un ramo. Sperando che intuisse le sue intenzioni e rimanesse dov’era, Will si girò verso Jem e sollevò una mano per farsi vedere dal parabatai. Avevano elaborato da tempo tutta una serie di gesti per comunicare tra loro nel mezzo di un combattimento. Gli occhi di Jem ebbero un guizzo di comprensione, e il ragazzo gettò il bastone all’amico. Will lo afferrò e ne fece scattare l’impugnatura; quando la lama schizzò fuori, la calò svelto e con forza, trafiggendo la spessa pelle della creatura. Il verme balzò indietro mentre Will colpiva di nuovo, staccandogli la coda dal corpo. Il pus sgorgò in un fiotto appiccicoso inondando il Nephilim, che si scansò gridando con la pelle in fiamme. — Will! — Jem si lanciò verso di lui. Gideon e Gabriel colpivano la testa del verme, facendo del loro meglio per attirare la sua attenzione su di loro. Mentre il fratello si strofinava via il pus irritante dagli occhi con la mano libera, Cecily si lasciò cadere dall’albero di tasso, atterrando dritta sul dorso del verme. Will mollò il bastone-spada, in preda allo shock. Non l’aveva mai fatto prima, non aveva mai lasciato cadere un’arma durante una battaglia, ma lì c’era la sua sorellina, aggrappata con seria determinazione al dorso di un enorme verme demoniaco, come una piccola pulce sul pelo di un cane. Cecily estrasse un pugnale dalla cintura e lo conficcò con ferocia nella carne del demone. Cosa pensa di fare? Come se quel minuscolo pugnale potesse uccidere un affare di quella stazza! pensò Will, inorridito.

La testa del verme si girò verso Cecily, a fauci aperte, irte di denti. La ragazza lasciò andare il pugnale e rotolò di lato, lontano dal mostro, le cui mandibole la mancarono di un soffio e si richiusero violentemente sul proprio stesso corpo. Ne zampillò del pus nero e il verme ritrasse la testa, mentre dalla gola gli usciva un urlo simile al lamento di uno spirito annunciatore di morte. Sul fianco si apriva un grosso squarcio, e brandelli della propria stessa carne gli spenzolavano dalle mandibole. Gabriel sollevò l’arco e scoccò una freccia, che sibilò verso il bersaglio. La creatura indietreggiò, quindi si accasciò, ripiegandosi su se stessa e poi sparendo, così come facevano i demoni quando la vita li abbandonava. L’arco di Gabriel cadde a terra. Il terreno era zuppo del sangue sgorgato dal corpo dilaniato del verme. Nel bel mezzo di quella baraonda, Cecily si stava rialzando a fatica, sussultando, con il polso destro piegato in uno strano angolo. Will non si accorse neppure di essersi messo a correre verso di lei. Se ne rese conto solo quando fu fermato dalla mano di Jem. Si girò violentemente verso il parabatai. — Mia sorella… — Il tuo viso… — ribatté Jem, con una calma sorprendente considerata la situazione. — Sei coperto di sangue demoniaco, William, e ti sta bruciando. Devo farti un iratze prima che il danno diventi irreparabile. — Lasciami andare! — Will cercò di divincolarsi, ma la mano fredda del parabatai lo tenne per la nuca. Poi ci fu la bruciatura di uno stilo sul polso, e il dolore che il ragazzo non si era nemmeno reso conto di sentire cominciò ad attenuarsi. Jem lo lasciò andare con un lieve sibilo di dolore; un po’ di pus era finito anche sulle sue dita. Will si fermò, irresoluto… ma Jem lo allontanò con un gesto, applicandosi poi lo stilo sulla mano. Era stato solo l’indugio di un attimo, ma, prima che Will potesse raggiungere sua sorella, Gabriel le era già accanto. Le teneva una mano sotto il mento, osservandola con espressione preoccupata. Will lo spinse via. — Stai alla larga da mia sorella! — disse, rabbioso. Gabriel indietreggiò. Gideon gli fu subito accanto, e i due si misero intorno a Cecily, mentre Will la teneva stretta con una mano, tirando fuori lo stilo con l’altra. Lei lo osservò con i suoi occhi azzurri sfavillanti mentre le tracciava un iratze nero su un lato della gola e un mendelin sull’altro. I capelli neri le erano sfuggiti dalla treccia, e sembrava la ragazzina selvaggia che ricordava, fiera e senza paura. — Sei ferita, cariad? — La parola gli era sfuggita prima che potesse trattenerla: un’espressione affettuosa infantile che aveva quasi dimenticato. — Cariad? — ripeté lei, con gli occhi che balenavano increduli. — Sono quasi illesa. — Non proprio. — Will indicò il polso contuso e i tagli sul viso e sulle mani, che avevano cominciato a rimarginarsi mentre l’iratze faceva effetto. Fu invaso dall’ira, tanto che non sentì i colpi di tosse di Jem alle sue spalle, un suono che di solito lo avrebbe fatto reagire con la fulmineità di una scintilla finita su un’esca asciutta. — Cecily, cosa avresti mai potuto…? — È stata una delle cose più coraggiose che abbia mai visto fare a un Cacciatore — lo interruppe Gabriel. Non guardava Will, ma Cecily, con un’espressione in cui si mescolavano stupore e qualcos’altro. Aveva i capelli sporchi di fango e sangue, come tutti loro, ma i suoi occhi verdi brillavano vividi. Cecily avvampò. — È stato soltanto… — Ma si interruppe, guardando oltre Will con gli occhi sgranati.

Jem tossì di nuovo, e questa volta Will lo sentì: si girò giusto in tempo per vedere il parabatai afflosciarsi sulle ginocchia.

3 FINO ALL’ULTIMA ORA

No, Disperazione, conforto della carogna, non banchetterò con te; Né scioglierò – per molli che siano – queste ultime fibre d’uomo In me, e neppure, esausto, griderò Più non posso. Posso; Qualcosa posso, sperare, desiderare che venga il giorno, e non scegliere di non essere. Gerard Manley Hopkins, Conforto della carogna

Jem era appoggiato alla fiancata della carrozza dell’Istituto, con gli occhi chiusi, il viso pallido come un cencio. E Will era accanto a lui, con la mano serrata sulla sua spalla. Mentre correva verso di loro, Tessa capì che non si trattava solo di un gesto fraterno: quella stretta doveva essere quasi l’unica cosa che teneva in piedi Jem. Lei e Henry avevano sentito il grido di morte del verme. Gabriel li aveva trovati, qualche secondo dopo, o così le sembrava, mentre scendevano di corsa i gradini d’ingresso. Aveva raccontato loro ansimando della morte della creatura, e poi cos’era successo a Jem, e Tessa aveva visto tutto bianco, come se d’un tratto l’avessero colpita violentemente al viso. Erano parole che non sentiva da un pezzo, ma che in fondo si aspettava sempre di sentire; a volte rispondevano a incubi che la facevano drizzare di scatto sul letto respirando a fatica: “Jem”, “collasso”, “respiro”, “sangue”, “Will”, “Will è con lui”. Naturalmente, Will era con lui. Gli altri si affollavano intorno, i fratelli Lightwood con la sorella, e perfino Tatiana taceva, o forse Tessa non poteva semplicemente sentire i suoi sfoghi isterici. Si rendeva conto che pure Cecily era lì, e della presenza di Henry accanto a lei, quasi volesse confortarla ma non sapesse da che parte cominciare. Gli occhi di Will incontrarono quelli di Tessa mentre lei si avvicinava, quasi inciampando di nuovo nell’abito lacerato. Per un istante furono in perfetta sintonia: Jem era ciò su cui potevano ancora guardarsi dritti negli occhi. Riguardo a Jem erano entrambi fieri e inflessibili. La mano di Will si serrò sulla manica del parabatai. — Eccola. Gli occhi di Jem si aprirono lentamente. Tessa si sforzò di non assumere un’espressione scioccata: le pupille erano spente, le iridi ridotte a un sottile anello argenteo intorno al nero. — Ni shou shang le ma, quin ai de? — sussurrò Jem.

Tessa aveva insistito affinché lui cominciasse a insegnarle il mandarino. Se non il resto, capì almeno “quin ai de”: mia cara, mio tesoro. Gli prese la mano, la strinse. — Jem… — Sei ferita, amore mio? — tradusse Will. La sua voce era inespressiva come i suoi occhi e, per un istante, il sangue affluì alle guance di Tessa, che abbassò lo sguardo sulla propria mano, stretta intorno a quella di Jem; le sue dita erano più pallide di quelle di lei, come le mani di una bambola, fatte di porcellana fine. Come aveva fatto a non accorgersi che era così malato? — Grazie per la traduzione, Will — disse senza distogliere lo sguardo dal fidanzato. Jem e Will erano entrambi sporchi di pus nero, ma il mento e la gola del primo erano anche coperti di macchioline di sangue rosso. Del proprio sangue. — Non sono ferita — sussurro Tessa, e poi si disse: No, così non va, per niente. Devi essere forte per lui. Raddrizzò le spalle, mantenendo la presa sulla mano di Jem. — Dov’è la sua medicina? — chiese a Will. — Non l’ha presa prima che lasciassimo l’Istituto? — Non parlate di me come se non ci fossi — disse Jem, ma senza rabbia. Girò la testa di lato e sussurrò qualcosa a Will, che annuì e gli lasciò la spalla. Tessa avvertì la tensione nell’atteggiamento di Will: era pronto, come un gatto, ad afferrare di nuovo l’amico se fosse scivolato o caduto, ma Jem rimase in piedi. — Sono più forte quando c’è Tessa, vedi. Te l’avevo detto — mormorò Jem. — Lo vedo. — Will abbassò la testa in modo che la ragazza non scorgesse i suoi occhi. — Tessa, qui non abbiamo la sua medicina. Credo che abbia lasciato l’Istituto senza prenderne a sufficienza, anche se non l’ammetterà mai. Tornate insieme all’Istituto in carrozza, e veglia su di lui. Qualcuno deve farlo. Jem fece un respiro rotto. — Gli altri… — Io guiderò la vostra carrozza. Non ci saranno problemi: Balios e Xanthos conoscono la strada. E Henry può portare i Lightwood. — Will era rapido ed efficiente, troppo rapido ed efficiente perché fosse il caso di ringraziarlo; non sembrava tenerci. Aiutò Tessa a far salire Jem in carrozza, facendo molta attenzione a non sfiorarle la spalla o a toccarle la mano. Poi andò a dire agli altri cosa stava succedendo. Tessa sentì Henry spiegare che doveva prelevare i diari di Benedict, quindi allungò la mano verso lo sportello, chiudendo se stessa e Jem in un gradito silenzio. — Cosa c’era dentro la casa? — chiese Jem mentre varcavano rumorosamente il cancello che delimitava la proprietà dei Lightwood. Aveva ancora un aspetto spettrale, la testa riversa sui cuscini della carrozza, gli occhi a mezz’asta, gli zigomi lucidi per la febbre. — Ho sentito Henry parlare dello studio di Benedict… — Era impazzito là dentro — disse Tessa, sfregandogli le mani fredde tra le proprie. — Nei giorni prima della trasformazione, quando Gabriel ha detto che non voleva lasciare la stanza, la sua mente deve essere completamente andata. Aveva scarabocchiato sul muro, con quello che mi è sembrato sangue, frasi sui “congegni infernali”. Che non avevano pietà, che sarebbero sempre tornati… — Doveva riferirsi all’esercito di automi. — Sì. — Tessa rabbrividì leggermente e si avvicinò a Jem. — Suppongo che sia stato sciocco da parte mia… ma i due mesi scorsi sono stati così tranquilli… — Avevi dimenticato Mortmain?

— No. Non l’ho dimenticato. — Tessa lanciò un’occhiata verso il finestrino, anche se non poteva vedere fuori: aveva tirato le tendine quando le era parso che la luce ferisse gli occhi di Jem. — Forse speravo che potesse avere rivolto la sua mente altrove. — Non possiamo saperlo. — Le dita di Jem circondarono quelle di Tessa. — Forse la morte di Benedict è una tragedia, ma quegli ingranaggi sono stati messi in moto tanto tempo fa. Questo non ha niente a che vedere con te. — C’erano altre cose nella biblioteca: appunti e libri di Benedict, diari. Henry li sta portando all’Istituto per studiarli. — Tessa si arrestò; come poteva seccare Jem con certe cose, quando stava così male? Quasi le avesse letto nel pensiero, il ragazzo mosse le dita sul suo polso, posandole lievemente nel punto in cui pulsavano le vene. — Tessa, è solo un attacco passeggero. Non durerà. Preferirei che mi dicessi la verità, tutta la verità, per quanto amara o spaventosa, in modo da poterla condividere con te. Non lascerei mai che ti accadesse qualcosa di brutto, e lo stesso vale per tutti i membri dell’Istituto. — Sorrise. — Il tuo polso sta accelerando. La verità, per quanto amara o spaventosa. — Ti amo — disse Tessa. Jem la guardò con il viso sottile soffuso di una luce che lo rendeva più bello. — Wo xi wang ni ming tian ke ji jia gei wo. — Tu… — Tessa aggrottò le sopracciglia. — Vuoi sposarti? Ma siamo già fidanzati. Non credo che ci si possa fidanzare due volte. Jem rise, ma il riso si trasformò in tosse; tutto il corpo di Tessa si irrigidì, ma era una tosse leggera e senza traccia di sangue. — Ho detto che ti sposerei domani, se potessi. Tessa scosse scherzosamente la testa. — Domani non mi è comodo, signore. — Ma indossi già il vestito adatto — replicò Jem, con un sorriso. Tessa abbassò lo sguardo sull’oro ormai rovinato dell’abito da sposa. — Sarebbe adatto, se dovessi sposarmi in un mattatoio. Comunque non mi piaceva granché. È decisamente troppo vistoso. — A me sembravi bellissima. — La voce di Jem era dolce. Tessa gli appoggiò la testa sulla spalla. — Verrà un altro momento. Un altro giorno, un altro abito. Un momento in cui starai bene e sarà tutto perfetto. La voce di Jem era ancora gentile, ma conteneva una terribile stanchezza. — Non esistono cose perfette, Tessa. Sophie era alla finestra della propria stanzetta, con la tenda aperta, gli occhi fissi sul cortile. Erano passate ore da quando le carrozze si erano allontanate rumorosamente, e lei avrebbe dovuto pulire i focolari, ma la spazzola e il secchio giacevano immobili ai suoi piedi. Sentiva la voce di Bridget salire dalla cucina al piano di sotto: Il conte Richard aveva una figlia, una ragazza davvero graziosa. Lei donò il suo amore al dolce William, Pur non essendo della sua condizione. A volte, quando Bridget era in una particolare vena melodica, Sophie pensava di scendere di sotto e ficcarla nel forno come la strega di Hansel e Gretel; ma sapeva che Charlotte non avrebbe approvato. E Bridget stava cantando di un amore proibito tra classi sociali proprio nel momento in

cui Sophie si malediceva perché stringeva convulsamente la tenda pensando a un paio di occhi verdi, e intanto si faceva mille domande e si preoccupava… Gideon ne sarebbe uscito sano e salvo? Era ferito? Avrebbe combattuto contro suo padre? E che orrore se avesse dovuto… Il cancello dell’Istituto si aprì cigolando e una carrozza entrò rumorosamente, guidata da Will. Sophie lo riconobbe, senza cappello, con i capelli neri agitati dal vento. Il Cacciatore saltò giù da cassetta e fece il giro della carrozza per aiutare a scendere Tessa – anche a quella distanza Sophie poté vedere in che stato pietoso fosse ridotto l’abito dorato – e poi Jem, che si appoggiava pesantemente alla spalla del parabatai. Sophie trattenne il fiato. Sebbene non si ritenesse più innamorata di Jem, gli voleva ancora molto bene. Era difficile non farlo, considerate la sua generosità, la sua dolcezza e la sua bontà; con lei non era mai stato meno che squisitamente gentile. Nei mesi precedenti, Sophie era stata felice che non avesse più avuto uno dei suoi “brutti periodi”, come li chiamava Charlotte, e che, sebbene la felicità non lo avesse guarito, fosse sembrato più forte, più in forma… I tre erano spariti all’interno dell’Istituto. Cyril era arrivato dalle stalle e si stava occupando di Balios e Xanthos. Sophie fece un profondo sospiro e lasciò ricadere la tenda. Charlotte poteva avere bisogno di lei, volere il suo aiuto nel prendersi cura di Jem. Se c’era qualcosa che poteva fare… Si staccò dalla finestra, quindi corse nel corridoio, poi giù dalla stretta scala della servitù. Nel corridoio di sotto incontrò Tessa, terrea e con l’espressione tirata, in nervosa attesa fuori della stanza di Jem. Attraverso la porta socchiusa, Sophie scorse Charlotte china su Jem, seduto sul letto; Will era appoggiato accanto al caminetto, con le braccia conserte, la tensione evidente in ogni linea del corpo. Nel vedere la cameriera, Tessa alzò il capo, e un po’ di colore le affluì nuovamente alle guance. — Sophie, Jem non sta bene. Ha avuto un altro… attacco del suo male. — Si riprenderà, signorina Tessa. L’ho già visto molto malato, e ne è sempre uscito in perfetta forma. Tessa chiuse gli occhi, circondati da ombre grigie. Non aveva bisogno di dire cosa stavano pensando entrambe: prima o poi sarebbe venuto il momento in cui Jem avrebbe avuto un attacco e non ne sarebbe uscito. — Dovrei andare a prendere dell’acqua calda — aggiunse Sophie. — E dei vestiti… — Sono io che dovrei andarli a prendere — replicò allora Tessa. — E lo farei, ma Charlotte dice che devo togliermi questo abito: il sangue demoniaco può essere pericoloso, se tocca un’area troppo estesa di pelle. Ha mandato Bridget a prendere vestiti e impiastri, e Fratello Enoch arriverà a momenti. Jem non vorrà sentire altrimenti, ma… — Basta così — disse Sophie, in tono fermo. — Non gli sarete di alcun aiuto se vi ammalerete anche voi. Vi darò una mano con il vestito. Venite, togliamocelo, e alla svelta. Tessa sbatté le palpebre. — Cara, giudiziosa Sophie. Naturalmente hai ragione. — Fece per attraversare il corridoio, diretta alla propria stanza. Davanti alla porta si fermò e si girò a guardare l’altra ragazza. I suoi grandi occhi grigi esaminarono il viso di Sophie, poi Tessa sembrò annuire tra sé, come se una sua supposizione si fosse rivelata giusta. — Lui sta bene. È perfettamente illeso. — Il signorino Jem? Tessa scosse la testa. — Gideon Lightwood. Sophie arrossì.

Gabriel non era ben sicuro del perché si trovasse nel soggiorno dell’Istituto, se non perché suo fratello gli aveva detto di andarci e di aspettare; perfino dopo tutto quello che era successo, era ancora abituato a fare ciò che Gideon diceva. Rimase sorpreso della semplicità della stanza: niente a che vedere con il sontuoso soggiorno di entrambe le case dei Lightwood, quella di Pimlico e quella di Chiswick. Le pareti erano rivestite di una carta da parati sbiadita con un motivo di rose centifoglie, il piano della scrivania era sporco di inchiostro e graffiato da tagliacarte e pennini, il focolare era coperto di fuliggine. Sopra il caminetto era appeso uno specchio macchiato, in una cornice dorata. Gabriel lanciò un’occhiata al proprio riflesso. Aveva la tenuta da combattimento strappata al collo e un segno rosso sulla mascella, dove un lungo graffio si stava rimarginando. La tenuta era completamente coperta di sangue. Il tuo, o quello di tuo padre? Scacciò alla svelta quel pensiero. Era strano, pensò, che dei due fratelli fosse lui quello che somigliasse maggiormente alla madre, Barbara. Era stata alta e tendente alla magrezza, con ricci capelli castani e occhi del verde più puro, come l’erba che digradava verso il fiume dietro la casa. Gideon, invece, assomigliava al padre: robusto e tarchiato, con occhi più grigi che verdi. Una vera ironia della sorte, perché era Gabriel ad aver ereditato il temperamento paterno: ostinato e facile all’ira, lento a perdonare. Gideon e Barbara erano più pacifici, tranquilli e costanti, fedeli nelle loro convinzioni. Assomigliavano molto di più a… Charlotte Branwell entrò dalla porta aperta del soggiorno con un abito ampio, gli occhi brillanti come quelli di un uccellino. Ogni volta che la vedeva, Gabriel era colpito da quanto fosse piccola, da come torreggiasse su di lei. Come era venuto in mente al console Wayland di dare a quella minuscola creatura il potere sull’Istituto e su tutti i Cacciatori di Londra? — Gabriel, tuo fratello dice che non sei rimasto ferito — esordì Charlotte, piegando la testa. — Sto benissimo — disse Gabriel seccamente, e capì subito di essere stato villano. Non era stata sua intenzione, ma Benedict gli aveva instillato per anni l’idea che Charlotte fosse sciocca, inutile e facilmente influenzabile; sebbene lui sapesse che Gideon non era d’accordo – tanto da andare a stare lì e lasciare la propria famiglia – era una lezione difficile da dimenticare. — Pensavo che foste con Carstairs. — È arrivato Fratello Enoch, con un altro Fratello Silente. Ci hanno fatto uscire tutti dalla stanza di Jem. Will fa su e giù nel corridoio, come un leone in gabbia. Povero ragazzo. — Charlotte lanciò una fugace occhiata a Gabriel, quindi andò verso il caminetto. Il suo sguardo rivelava un’intelligenza penetrante, che nascose svelta abbassando le ciglia. — Ma basta parlare di questo, ora. Ho saputo che vostra sorella è già stata accompagnata alla residenza dei Blackthorn a Kensington. C’è qualcuno a cui vuoi che mandi un messaggio da parte tua? — Un… messaggio? Charlotte rimase un istante in silenzio davanti al caminetto, con le mani strette dietro la schiena. — Devi pur andare da qualche parte. Non puoi certo vivere per strada. Vivere per strada? Quella donna orribile lo stava davvero cacciando dall’Istituto? Pensò a quello che il padre gli aveva sempre detto: Ai Fairchild non importa di nessuno, se non di loro stessi e della Legge! — La casa di Pimlico… — Il Console sarà informato al più presto di tutto quanto accadeva a Casa Lightwood — disse Charlotte. — Entrambe le vostre residenze di famiglia saranno confiscate in nome dell’Enclave, almeno finché non saranno perquisite e non si potrà stabilire se tuo padre abbia lasciato qualcosa che

possa fornire indizi al Consiglio. — Indizi su cosa? — Sui suoi piani — rispose Charlotte, imperturbabile. — Sui suoi legami con Mortmain, sulla sua conoscenza dei piani di quest’ultimo. Sui Congegni Infernali. — Non avevo mai sentito parlare di questi maledetti Congegni Infernali! — esclamò Gabriel, quindi arrossì. Aveva imprecato, e al cospetto di una signora. Non che Charlotte fosse una signora come tutte le altre, si disse. — Ti credo. Non so se lo farà il Console Wayland, ma questo è affar tuo. Se vuoi darmi un indirizzo… — Non ho nessun indirizzo da darvi — replicò Gabriel, avvilito. — Dove pensate che potrei andare? Charlotte si limitò a fissarlo, con un sopracciglio sollevato. — Voglio stare con mio fratello — dichiarò infine Gabriel, consapevole di suonare petulante e stizzoso, ma non sapendo che farci. — Ma tuo fratello vive qui — replicò Charlotte. — E tu hai manifestato molto chiaramente i tuoi sentimenti nei confronti dell’Istituto e del mio diritto a dirigerlo. Jem mi ha detto cosa pensi: che mio padre spinse tuo zio al suicidio. Non è vero, ma non mi aspetto che tu mi creda. Tuttavia mi viene da chiedermi perché dovresti voler rimanere qui. — L’Istituto è un rifugio. — Tuo padre progettava di dirigerlo come tale? — Non lo so! Non so quali siano – quali fossero – i suoi piani. — E allora perché li hai condivisi? — La voce di Charlotte era sommessa, ma spietata. — Perché era mio padre! — gridò Gabriel. Si girò e si allontanò dalla donna, mentre il respiro gli si spezzava in gola. Solo in parte consapevole di cosa faceva, si mise le braccia intorno al corpo e lo strinse forte, come per impedirgli di andare in pezzi. I ricordi delle settimane precedenti, ricordi che Gabriel aveva fatto di tutto per ricacciare nei recessi più nascosti della mente, minacciavano di erompere alla luce: le settimane trascorse nella casa dopo che la servitù era stata mandata via, i rumori che provenivano dalle stanze al piano di sopra, le grida nel cuore della notte, il sangue sulle scale, suo padre che urlava cose sconclusionate da dietro la porta chiusa a chiave della biblioteca, come se non fosse più in grado di articolare parole… — Se volete mettermi in mezzo a una strada, fatelo subito — disse Gabriel, con una sorta di terribile disperazione nella voce. — Non voglio pensare di avere una casa, quando non è vero. Non voglio pensare che rivedrò mio fratello, se non è vero. — Non credi che ti verrebbe a cercare? Ovunque tu fossi? — Credo che abbia dimostrato a chi tiene di più, e io non sono nella lista — ribatté Gabriel. Si raddrizzò lentamente, allentando la presa delle braccia. — Mandatemi via o lasciatemi restare. Non starò a supplicarvi. Charlotte sospirò. — Non ce ne sarà bisogno. Mai prima d’ora ho mandato via chi non avesse altro posto dove andare, e non comincerò certo adesso. Ti chiedo soltanto una cosa. Permettere a qualcuno di vivere all’Istituto, nel cuore stesso dell’Enclave londinese, vuol dire avere piena fiducia nelle sue buone intenzioni. Non farmi pentire di essermi fidata di te, Gabriel Lightwood.

Le ombre si erano allungate nella biblioteca. Tessa sedeva in una chiazza di luce vicino a una delle finestre, accanto a una lampada azzurra schermata. Aveva tenuto per parecchie ore un libro in grembo, senza riuscire a concentrarsi nella lettura. I suoi occhi scivolavano sulle parole scritte, senza assimilarle, e spesso si ritrovava a fermarsi per cercare di ricordare chi fosse un personaggio, o perché stesse facendo quello che faceva. Era sul punto di cominciare per l’ennesima volta il quinto capitolo, quando lo scricchiolio di un’asse del pavimento la mise in allerta. Sollevando lo sguardo, vide Will lì vicino, con i capelli umidi e i guanti in mano. — Will… — Tessa depose il libro sul davanzale. — Mi hai spaventata. — Non intendevo interromperti — disse lui a bassa voce. — Se stai leggendo… — Fece per allontanarsi. — Non sto leggendo — confessò Tessa, e Will si fermò, girandosi a guardarla al di sopra della spalla. — Ora non riesco a perdermi nelle parole. Non riesco a calmare la confusione che ho in mente. — Neanch’io — disse lui, girandosi del tutto. Non era più sporco di sangue. I suoi abiti erano puliti e la pelle quasi completamente priva di segni, sebbene sul collo si scorgessero le linee rosee dei graffi che sparivano dentro il colletto della camicia, rimarginandosi via via che gli iratze facevano effetto. — Ci sono notizie del mio… notizie di Jem? — Non c’è nessun cambiamento — rispose Will. Tessa l’aveva intuito. Se fosse avvenuto un cambiamento, Will non sarebbe stato lì. — I Fratelli non lasciano entrare ancora nessuno nella stanza, neppure Charlotte. Ma cosa ci fai qui, seduta al buio? — Benedict ha scritto qualcosa sul muro del suo studio — disse Tessa. — Prima di trasformarsi in quella creatura, immagino, o durante la trasformazione. Non lo so. I Congegni Infernali non hanno pietà. I Congegni infernali non hanno rimorso. I Congegni Infernali non hanno fine. I Congegni Infernali torneranno sempre. — I congegni infernali? Presumo che alludesse alle creature meccaniche di Mortmain. Anche se non le vediamo da mesi. — Ciò non significa che non torneranno. — Tessa abbassò lo sguardo sul tavolo della biblioteca, sulla impiallacciatura graffiata. Quante volte Will e Jem dovevano essersi seduti lì, quante volte dovevano aver studiato, o inciso le loro iniziali sulla superficie del tavolo, come scolari annoiati. — La mia presenza qui vi mette in pericolo. — Tessa, ne abbiamo già parlato. Non metti in pericolo nessuno. Tu sei ciò che Mortmain vuole, sì, ma se non fossi qui, ben protetta, potrebbe catturarti facilmente. E a quali opere di distruzione applicherebbe i tuoi poteri? Non lo sappiamo… sappiamo solo che ti vuole per un fine, e che ci conviene tenerti lontana da lui. Non è altruismo. Noi Cacciatori non siamo altruisti. Tessa alzò lo sguardo. — Io credo che lo siate, e molto. — Al verso di disaccordo di Will, aggiunse: — Dovete senz’altro sapere che ciò che fate è esemplare. C’è una certa freddezza nell’Enclave, è vero. Siamo polvere e ombra. Ma voi siete come gli eroi dell’antichità, come Achille e Giasone. — Achille fu ucciso da una freccia avvelenata, e Giasone morì in solitudine, ucciso dalla sua stessa nave ormai fatiscente. Questo è il destino degli eroi. Soltanto l’Angelo sa perché tutti aspirino a diventarlo.

Tessa vide le ombre sotto gli occhi azzurri, e le dita che tormentavano la stoffa dei polsini in maniera distratta, quasi inconsapevole. Mesi, si disse. Mesi dall’ultima volta che erano stati soli per più di un istante. Avevano avuto solo incontri casuali nei corridoi, in cortile, si erano scambiati convenevoli con aria imbarazzata. Le erano mancati gli scherzi di Will, i libri che le aveva prestato, i lampi di riso nei suoi occhi. Presa dal ricordo del Will più facile di tanto tempo prima, parlò senza riflettere: — Non posso smettere di ripensare a ciò che mi hai detto una volta. Will la guardò sorpreso. — Ah, sì? E sarebbe? — Che a volte, quando non sai che pesci pigliare, fingi di essere il personaggio di un libro, perché è più facile decidere cosa farebbe lui. — Non sono la persona più adatta a cui chiedere consiglio, se sei in cerca della felicità — replicò Will. — No, non della felicità. Non esattamente. Io voglio aiutare… fare il bene… — Tessa si interruppe e sospirò. — E ho cercato in molti libri, ma seppure in essi ci fosse una guida, non l’ho trovata. Tu hai detto di essere Sidney Carton… Will fece un verso e si lasciò cadere su una sedia dall’altro lato del tavolo rispetto alla ragazza. Le ciglia, abbassate, gli coprivano gli occhi. — Ma io non voglio essere Lucie Manette, perché non fece nulla per salvare Charles — continuò Tessa. — Lasciò fare tutto a Sidney. E fu crudele con lui. — Con Charles? — chiese Will. — Con Sidney. Voleva essere un uomo migliore, ma lei non volle aiutarlo. — Non poteva. Era fidanzata con Charles Darney. — Non fu comunque bello da parte sua. Will si alzò dalla sedia con lo stesso impeto con cui vi si era seduto. Si sporse in avanti, posò le mani sul tavolo. I suoi occhi erano di una tonalità intensa alla luce azzurra della lampada. — A volte bisogna scegliere se essere uomini buoni oppure d’onore. A volte non si può essere l’uno e l’altro. — Qual è meglio? — sussurrò Tessa. La bocca di Will si contrasse in una smorfia di sarcasmo. — Suppongo che dipenda dal libro. — Tu conosci quella sensazione… quando leggi un libro e sai che finirà in tragedia — disse Tessa. — Senti arrivare il freddo e l’oscurità, vedi la rete stringersi intorno ai personaggi che vivono e respirano sulle pagine. Ma sei legato alla storia come se fossi trascinato da una carrozza, e non puoi lasciarla andare o cambiarne il corso. — Gli occhi azzurri di lui erano cupi di comprensione; Tessa non dubitava che Will avrebbe capito, e quindi si affrettò a continuare. — Ora mi sembra che stia succedendo la stessa cosa, ma non ai personaggi su una pagina, bensì ai miei adorati amici e compagni. Non voglio starmene con le mani in mano mentre la tragedia bussa alla nostra porta. Vorrei allontanarla, e mi sforzo di scoprire come fare. — Hai paura per Jem — disse Will. — Sì. E ho paura anche per te. — No. Non perdere tempo con me, Tess. Prima che la ragazza potesse replicare, la porta della biblioteca si aprì. Era Charlotte, con un’aria svuotata, esausta. — Come sta Jem? — chiese subito Will. — È sveglio e parla — rispose Charlotte. — Ha preso un po’ di yin fen, i Fratelli Silenti sono riusciti a stabilizzare le sue condizioni e ad arrestare l’emorragia interna.

All’accenno sull’emorragia interna, Will sembrò sul punto di vomitare; Tessa immaginò che potesse dirsi lo stesso di lei. — Può ricevere una visita — continuò Charlotte. — In effetti, è stato lui a chiederlo. Will e Tessa si scambiarono un rapido sguardo. Tessa sapeva a cosa stavano pensando entrambi: chi di loro sarebbe andato? Tessa era la fidanzata di Jem, ma Will era il suo parabatai, cosa sacra in sé e per sé. Will aveva cominciato a farsi indietro, quando Charlotte parlò di nuovo, con aria mortalmente stanca. — Ha chiesto di te, Will. Lui sembrò sbalordito. Lanciò un’occhiata a Tessa. — Io non… La ragazza non poté negare il piccolo moto di sorpresa, e quasi di gelosia, che aveva avvertito dietro la gabbia toracica alle parole di Charlotte, ma lo ricacciò indietro con fermezza. Amava abbastanza Jem da volere qualsiasi cosa lui scegliesse. — Vai pure — disse in tono gentile. — È naturale che voglia vedere te. Will si avviò verso la porta. A metà strada si girò e attraversò nuovamente la stanza, avvicinandosi a Tessa. — Mentre sono con Jem faresti qualcosa per me? — le chiese. Tessa alzò lo sguardo e deglutì. Era troppo vicino, troppo vicino: tutte le linee, le forme, gli angoli di Will le riempivano il campo visivo mentre il suono della sua voce le riempiva le orecchie. — Sì, certo. Di che si tratta? A Edmund e Branwen Herondale Ravenscar Manor West Riding, Yorkshire Cari papà e mamma, So che è stato vile da parte mia andarmene come ho fatto, di buon mattino prima che vi svegliaste, lasciando solo un biglietto per spiegare la mia assenza. Non sopportavo l’idea di affrontarvi, sapendo cosa avevo deciso di fare e che ero la peggiore di tutte le figlie disobbedienti. Come spiegare la decisione che ho preso, come ci sono arrivata? Perfino ora mi sembra una follia. Infatti ogni giorno è più folle del precedente. Non mentivi, papà, quando dicevi che la vita di un Cacciatore assomigliava a un sogno febbrile… Cecily passò con stizza il pennino sulle righe che aveva scritto, quindi appallottolò il foglio in una mano e appoggiò la testa sulla scrivania. Aveva iniziato quella lettera tante volte, e non era ancora arrivata a una versione soddisfacente. Forse non avrebbe dovuto provarci in quel momento, pensò, mentre cercava di calmare i nervi dopo il loro ritorno all’Istituto. Tutti si erano affollati intorno a Jem, mentre Will, dopo avere bruscamente controllato che lei non avesse riportato ferite nel giardino, le aveva a malapena rivolto di nuovo la parola. Henry era corso da Charlotte, Gideon aveva preso da parte Gabriel, e Cecily si era ritrovata a salire i gradini d’ingresso dell’Istituto da sola. Si era infilata nella propria stanza e, senza preoccuparsi di togliersi la tenuta da combattimento, si era raggomitolata sul soffice letto a baldacchino. Mentre era stesa nell’ombra, sentendo i fievoli rumori della città all’esterno, il cuore le era stato morso da un’improvvisa, dolorosa nostalgia di casa. Cecily aveva ripensato alle verdi colline del Galles, alla madre e al padre, ed era balzata giù dal letto come se qualcuno l’avesse spinta, aveva

barcollato fino alla scrivania e preso carta e penna, macchiandosi le dita d’inchiostro nella fretta. Eppure le parole giuste non volevano saperne di venire. Le sembrava di trasudare rammarico e solitudine da tutti i pori, ma non riusciva a dare, a quello che provava, la forma di un sentimento che i suoi genitori avrebbero sopportato di leggere. D’un tratto bussarono alla porta. Cecily prese un libro che aveva lasciato sulla scrivania, lo sollevò come se lo stesse leggendo e gridò: — Avanti! La porta si spalancò. Era Tessa: rimase sulla soglia con aria esitante. Non indossava più l’abito da sposa ormai rovinato, ma un semplice vestito di mussolina blu, mentre al collo le scintillavano le sue due collane: l’angelo meccanico e il ciondolo di giada avuto da Jem come dono di nozze. Cecily la guardò con curiosità. Sebbene fossero in rapporti amichevoli, non erano in confidenza. C’era in Tessa una certa ritrosia di cui Cecily sospettava la causa senza essere in grado di dimostrarla; per giunta, c’era in lei qualcosa di strano e bizzarro. Cecily sapeva che era in grado di mutare forma, di assumere le sembianze di qualsiasi persona, e non sapeva liberarsi dell’impressione che fosse una cosa contro natura. Com’era possibile conoscere il viso di qualcuno, se poteva cambiarlo con la stessa facilità con cui un altro cambiava vestito? — Signorina Gray? — Ti prego, chiamami Tessa — replicò l’altra ragazza, chiudendosi la porta alle spalle. Non era la prima volta che chiedeva a Cecily di trattarla in modo meno formale, ma l’abitudine e l’ostinazione avevano impedito a questa di farlo. — Sono venuta a vedere se stavi bene e se avevi bisogno di qualcosa. — Ah… — Cecily sentì una lieve fitta di delusione. — Sto benissimo. Tessa fece qualche passo avanti. — Stai leggendo Grandi speranze? — Sì. — Cecily non disse che aveva visto Will leggerlo, e che lo aveva preso per cercare di capire cosa gli passasse per la testa. Per il momento, era spiacevolmente disorientata dai protagonisti del romanzo: Pip era morboso, Estella talmente orribile che lei avrebbe voluto scrollarla. — “Fino all’ultima ora della mia vita, Estella, non potrai che rimanere parte della mia natura, parte di quel po’ di bene che è in me, parte del male” — disse piano Tessa. — Dunque impari anche tu a memoria brani di libri, come fa Will? O è uno dei tuoi libri preferiti? — Non ho la memoria di Will, né la sua runa mnemosyne. Ma amo molto quel libro. — Gli occhi grigi di Tessa studiarono il viso di Cecily. — Come mai indossi ancora la tenuta? — Pensavo di salire nella sala delle esercitazioni. Mi sembra di riuscire a pensare bene lassù, e comunque non mi pare che a qualcuno importi granché di quello che faccio. — Vuoi allenarti ancora? Cecily, sei appena uscita da un combattimento! — replicò Tessa. — A volte può essere necessaria più di un’applicazione di rune per guarire completamente. Prima che ricominci ad allenarti, dovrei mandarti qualcuno: Charlotte oppure… — Will? — disse brusca Cecily. — Se all’uno o all’altra fosse importato di me, sarebbero già venuti. Tessa indugiò accanto al letto. — Non puoi pensare che a Will non importi di te. — Non è qui, mi pare. — Ha mandato me, perché lui è con Jem — disse Tessa. Come se questo spiegasse tutto. Cecily suppose che, in un certo senso, fosse così. Sapeva che Will e Jem erano molto amici, e anzi che si trattava di qualcosa di più. Aveva letto dei parabatai nel Codice, e sapeva che il loro era un legame che non esisteva tra mondani, qualcosa di più stretto che

tra fratelli, più di un vincolo di sangue. — Jem è il suo parabatai — continuò Tessa. — Will ha fatto voto di stargli accanto in circostanze simili. — Sarebbe là, voto o non voto. Sarebbe accanto a ognuno di voi. Ma non è neppure venuto a vedere se io avessi bisogno di un iratze. — La maledizione di Will… — Non era una vera maledizione! — Sai bene che, a suo modo, lo era — disse Tessa, con aria assorta. — Will era convinto che nessuno potesse amarlo, e che se avesse permesso a chiunque di farlo ne avrebbe causato la morte. È per questo che vi ha lasciati. Vi ha lasciati per tenervi al sicuro, e ora tu sei qui, nel luogo che per lui simboleggia ciò che “sicuro” non è. Non può sopportare di venire a vedere le tue ferite, perché per lui è come se te le avesse inferte con le sue mani. — È stata una mia scelta, quella di essere una Cacciatrice. E non solo perché volevo stare con Will. — Lo so, ma io sono stata accanto a Will quando delirava dopo avere ingerito sangue di vampiro, strozzandosi con l’acqua santa, e so quale nome ha invocato. Il tuo. Cecily alzò lo sguardo, sorpresa. — Will ha invocato me? — Oh, sì. — Un lieve sorriso increspò un angolo della bocca di Tessa. — Quando gliel’ho chiesto, non ha voluto dirmi chi eri, naturalmente, facendomi quasi impazzire… — Perché? — Curiosità — rispose Tessa, con una scrollata di spalle, sebbene il rossore le inondasse gli zigomi. — È il mio punto debole. Comunque sia, ti vuole bene. Lo so che con Will è tutto il contrario di come dovrebbe essere, ma il fatto che non sia qui è soltanto l’ennesima riprova di quanto tu gli sia preziosa. È abituato a respingere tutti coloro che ama, e più ti ama, con maggior impeto cercherà di non dimostrarlo. — Ma non c’è nessuna maledizione… — Le abitudini di anni non si dimenticano tanto alla svelta — affermò Tessa, con uno sguardo triste. — Non commettere l’errore di credere che non ti ami perché si comporta come se non gli importasse di te, Cecily. Se proprio devi, affrontalo e chiedigli la verità, ma non commettere l’errore di allontanarti da lui perché lo credi una causa persa. Non strappartelo via dal cuore. Perché, in tal caso, te ne pentiresti. Ai Membri del Consiglio Dal Console Josiah Wayland Perdonate se ho tardato a rispondervi, signori. Volevo essere certo che le mie opinioni non fossero dettate da fretta e precipitazione, ma piuttosto che le mie parole fossero l’espressione e il risultato ben ponderato di una riflessione serena. Temo di non poter appoggiare la vostra scelta di Charlotte Branwell come candidata a succedermi. Pur avendo buon cuore, è tutto sommato troppo volubile, emotiva, passionale e disobbediente per avere i requisiti di un Console. Come sappiamo, il sesso debole ha i suoi difetti, da cui gli uomini sono immuni, e purtroppo lei è vittima di ciascuno di essi. No, non posso proporla. Vi esorto a considerare un’altra

candidatura: quella di mio nipote George Penhallow, che compirà venticinque anni il prossimo novembre ed è un ottimo Cacciatore, oltre che un giovane retto. Credo che possieda la certezza morale e la forza di carattere per guidare i Cacciatori in un nuovo decennio. Nel nome di Raziel, il Console Josiah Wayland

4 ESSERE SAGGI E INNAMORATI

Perché essere saggi e innamorati È al di sopra del potere dell’uomo. William Shakespeare, Troilo e Cressida



Pensavo che ne avresti tratto almeno una canzone — disse Jem.

Will guardò il suo parabatai con viva curiosità. Jem, che pure aveva chiesto di lui, non sembrava di umore cordiale. Stava seduto in silenzio sull’orlo del letto, con camicia e pantaloni puliti, anche se la camicia era larga e lo faceva sembrare più magro che mai. Aveva ancora delle macchie di sangue secco sulle clavicole, una sorta di collana bestiale. — Trarre una canzone da cosa? La bocca di Jem si contrasse. — Della nostra vittoria sul verme? Dopo tutte le battute che hai fatto… — Non sono stato troppo in vena di battute, nelle ultime ore — ribatté Will, mentre i suoi occhi guizzavano verso le pezze insanguinate sul comodino accanto al letto e la ciotola piena di liquido roseo. — Non agitarti. Tutti si agitano intorno a me, ed è una cosa che non sopporto. Ho voluto te perché… perché tu non l’avresti fatto. Tu mi fai ridere. Will sollevò le braccia. — Oh, d’accordo. Che ne dici di questa? Urrà, non dovrò più dimostrare invano Che la sifilide demoniaca distrugge il cervello umano. Perciò, per quanto doloroso, non è stato invano Aver ucciso il verme affetto da quel morbo insano: Ora vi degnerete di credere a questo povero ciarlatano. Jem scoppiò a ridere. — Davvero terrificante! — Be’, l’ho improvvisata! — Will, esistono cose come la scansione… — All’improvviso il riso di Jem si trasformò in un accesso di tosse. Will scattò in avanti mentre il parabatai si piegava su se stesso, sollevando le spalle esili. Il sangue schizzò sul copriletto bianco. — Jem… Con una mano, Jem indicò la scatola sul comodino. Will allungò il braccio per prenderla; la donna finemente disegnata sul coperchio, che versava

acqua da un vaso, gli era odiosamente familiare. Aprì di scatto la scatola … e rimase agghiacciato. Il fondo di legno era appena coperto da quella che sembrava una lieve spolverata di zucchero a velo. Forse ce n’era stata una quantità maggiore prima che i Fratelli Silenti si prendessero cura di Jem; Will non lo sapeva. Quello che sapeva era che ce ne sarebbe dovuta rimanere molta, molta di più. — Come mai ce n’è così poca?— chiese, con voce strozzata. Jem aveva smesso di tossire. Aveva del sangue sulle labbra e, mentre l’amico stava a guardare, troppo scioccato per muoversi, sollevò il braccio e lo strofinò via con la manica. Il lino divenne immediatamente scarlatto. Jem sembrava in preda alla febbre, la pelle pallida ardeva, ma non mostrava altri segni esteriori di agitazione. — Will… — Due mesi fa — cominciò Will, poi si rese conto di avere alzato la voce, e con un certo sforzo l’abbassò. — Due mesi fa ho comprato una quantità di yin fen che sarebbe dovuta durare un anno. C’era una mescolanza di sfida e tristezza nello sguardo di Jem. — L’ho presa a intervalli più brevi. — Più brevi? In che senso? — Ne ho presa due, forse tre volte di più. — Ma il ritmo con cui prendi la droga è legato al peggioramento della tua salute — affermò Will. Poi, visto che l’altro non rispondeva, la sua voce si alzò e si incrinò nel pronunciare una sola parola: — Perché? — Non voglio vivere la metà di una vita… — A questo ritmo, non ne vivrai neppure un quinto! — gridò Will. Dovette trattenersi dal dare un pugno sul muro. Jem sedeva diritto, con gli occhi fiammeggianti. — Vivere è qualcosa di più che non morire — dichiarò. — Guarda come vivi: bruci come una stella. In passato prendevo droga a sufficienza per restare vivo, ma non abbastanza per stare bene. Un pizzico di droga in più prima delle battaglie, forse, per accumulare energia, ma per il resto la mia era la metà di una vita… — E ora hai cambiato il dosaggio? Da quando ti sei fidanzato? — chiese Will. — Per Tessa? — Non dare la colpa a lei. È stata una mia decisione. Tessa non ne sa niente. — Lei vorrebbe che tu vivessi, James… — Io non vivrò! — Jem si alzò, con le guance arrossate. Will non lo aveva mai visto tanto furioso. — Io non vivrò, e posso scegliere di dare il massimo per lei, di bruciare per lei vividamente come desidero, per un tempo minore, piuttosto che caricarla del fardello di qualcuno vivo solo a metà per un tempo maggiore. È una mia scelta, William, e tu non puoi farla al posto mio. — Forse posso. Sono sempre stato io a comprarti lo yin fen… Il colore defluì dal viso di Jem. — Se ti rifiuterai, lo comprerò da me. Sono sempre stato pronto a farlo. Dicevi di voler essere tu a comprarlo. A proposito… — Si sfilò dal dito l’anello di famiglia dei Carstairs e lo porse al parabatai. — Prendilo. Will fece scivolare gli occhi sull’anello e poi di nuovo sul viso di Jem. Una dozzina di cose terribili che avrebbe potuto dire, o fare, gli passarono per la mente. Non ci si disfaceva così in fretta di una maschera, aveva scoperto. Aveva finto di essere crudele per tanti di quegli anni che la finzione era ancora la prima cosa a cui faceva ricorso, come un uomo che giri distrattamente la carrozza verso la casa in cui ha vissuto tutta la vita, sebbene ne abbia traslocato di recente. — Vuoi sposare me, adesso? — chiese alla fine. — Vendi l’anello — disse Jem. — Te l’ho detto tante volte: non dovresti pagare la mia droga.

Una volta io ho pagato la tua, e ricordo la sensazione. È stato sgradevole. Will sussultò, quindi abbassò lo sguardo sul simbolo della famiglia Carstairs, che scintillava nel palmo pallido e graffiato di Jem. Allungò la mano e prese quella dell’amico con delicatezza, chiudendo le dita sull’anello. — Quand’è che tu sei diventato avventato e io prudente? Da quand’è che ho dovuto metterti in guardia da te stesso? Sei sempre stato tu a proteggere me. — I suoi occhi studiavano il viso del parabatai. — Aiutami a capirti. Jem scosse il capo. — All’inizio, quando ho capito di amare Tessa, pensavo che l’amore mi giovasse: non avevo avuto attacchi da tanto tempo. E quando le ho chiesto di sposarmi, gliel’ho detto. Che l’amore mi stava guarendo. Perciò la prima volta che sono stato… la prima volta che è successo di nuovo, non ce l’ho fatta a confessarglielo; temevo potesse considerarlo un segno che il mio amore per lei era diminuito. Ho preso più droga per evitare un altro attacco. Ma ben presto ce n’è voluta di più, anche solo per tenermi in piedi, di quanta ce ne volesse un tempo per tenermi in forma una settimana. Non ho degli anni davanti a me, Will. Potrei non avere neppure dei mesi. E non voglio che Tessa lo sappia. Ti prego, non dirglielo. Non solo per il suo bene, ma anche per il mio. Contro la sua stessa volontà, a Will parve di capire; avrebbe fatto qualsiasi cosa, pensò, detto qualsiasi bugia, corso qualsiasi rischio, per far sì che Tessa l’amasse. Avrebbe fatto… Quasi tutto. Non avrebbe tradito Jem. Quella era l’unica cosa che non avrebbe fatto. E Jem era lì, con la mano nella sua, gli occhi che imploravano solidarietà e comprensione. Will capiva. Ripensò a se stesso nel salotto di Magnus Bane, quando aveva chiesto di essere mandato nei regni dei demoni piuttosto che vivere un’altra ora, un altro istante di una vita che gli era insopportabile. — Stai morendo per amore — disse infine. — Diciamo che, per amore, sto morendo un po’ più velocemente. Ci sono cose peggiori per cui morire. Will lasciò la mano del parabatai. Jem lo implorò con gli occhi. — Will… — Andrò a Whitechapel, stasera stessa. Ti porterò tutto lo yin fen che c’è, tutto quello di cui potresti avere bisogno. Jem scosse la testa. — Non posso chiederti di fare qualcosa che va contro la tua coscienza. — La mia coscienza… — sussurrò Will. — Sei tu la mia coscienza. Lo sei sempre stato, James Carstairs. Farò questo per te, ma prima voglio strapparti una promessa. — Che genere di promessa? — Anni fa mi hai chiesto di smettere di cercare una cura per te — disse Will. — Voglio che tu mi sciolga da questa promessa. Permettimi di guardare in giro, almeno. Permettimi di cercare. Jem lo fissò con una certa sorpresa. — Proprio quando pensavo di conoscerti alla perfezione, mi stupisci di nuovo. D’accordo. Cerca. Fa’ quello che devi. Non posso ostacolare le tue migliori intenzioni; sarebbe soltanto crudele, e io farei lo stesso per te, se fossi al tuo posto. Lo sai, non è vero? — Lo so. — Will fece un passo avanti. Mise le mani sulle spalle di Jem, sentendo quanto fossero aguzze sotto la sua stretta, ossa simili alle ali di un uccello. — Non è una vuota promessa, James. Credimi, non c’è nessuno che conosca la pena della falsa speranza quanto me. Cercherò. Se c’è qualcosa da trovare, la troverò. Ma fino ad allora… devi vivere la tua vita come vuoi. Jem sorrise. — Lo so, ma è gentile da parte tua ricordarmelo. — Io sono sempre gentile — ribatté Will. I suoi occhi studiarono il viso dell’amico, quel viso che

gli era familiare quanto il suo. — E determinato. Non mi lascerai. Non finché vivrò. Jem spalancò gli occhi, ma non disse nulla. Non c’era nient’altro da dire. Will lasciò cadere le mani dalle spalle del parabatai e si avviò verso la porta. Cecily era dov’era già stata quello stesso giorno, con il coltello nella mano destra. Prese la mira allineando l’occhio alla lama, quindi spinse il braccio indietro e lanciò il coltello. Si conficcò nella parete, appena fuori del cerchio disegnato. La conversazione con Tessa non le aveva calmato i nervi; li aveva solo resi più tesi. In Tessa c’era una tristezza rassegnata, senza scampo, che l’aveva riempita di ansia e irritazione. Per quanto fosse arrabbiata con Will, Cecily non poteva fare a meno di intuire che, nel suo cuore, Tessa avessepaura per lui: un terrore di cui non voleva parlare. Tuttavia, aveva anche una gran voglia di sapere di cosa si trattava. Come poteva proteggere suo fratello se non sapeva da cosa andava protetto? Recuperato il coltello, Cecily lo sollevò al livello della spalla e lo lanciò di nuovo. Questa volta si conficcò ancora più lontano dal cerchio, facendole emettere uno sbuffo rabbioso. — Uffern nef! — borbottò in gallese. Sua madre sarebbe inorridita, ma in fondo non era lì. — Cinque — disse una voce dal corridoio. Cecily sussultò e si girò: nel vano della porta c’era un’ombra, che nel venire avanti si tramutò in Gabriel Lightwood, una zazzera di capelli castani scompigliati e occhi verdi taglienti come vetro. Era alto come Will, forse di più, e più magro di lui. — Non vi capisco, signor Lightwood. — Il vostro lancio… — disse Gabriel, con un elegante movimento del braccio. — Gli dò un cinque. Forse, quanto ad abilità e a tecnica, avete bisogno di lavorare, ma il talento innato non vi manca di certo. Ciò di cui avete bisogno è la pratica. — Will mi sta addestrando — replicò Cecily mentre il ragazzo le si avvicinava. L’angolo della bocca di Gabriel si sollevò leggermente. — Proprio come dicevo. — Suppongo che voi potreste fare meglio. Gabriel rimase un istante in silenzio, poi tirò via il coltello dalla parete. L’arma sfavillò mentre se la rigirava tra le dita. — Sì. Sono stato addestrato dai migliori, e ho addestrato a mia volta la signorina Collins e la signorina Gray… — Finché non vi siete stufato. L’ho saputo. Non avete certo la dedizione che si potrebbe richiedere a un precettore. — Cecily mantenne un tono di voce freddo; ricordò il tocco di Gabriel quando l’aveva rimessa in piedi a Casa Lightwood, ma sapeva che a Will non andava a genio, e il distacco compiaciuto nella sua voce la irritava. Gabriel accostò il polpastrello alla punta del coltello da lancio. Ne fuoriuscì una goccia di sangue. Aveva dita callose, e una spruzzata di lentiggini sul dorso delle mani. — Avete cambiato tenuta. — Era coperta di sangue e pus. — Cecily gli lanciò un’occhiata, scrutandolo da capo a piedi. — A quanto vedo, voi non l’avete fatto. Per un momento, una strana espressione balenò sul viso di Gabriel. Poi scomparve, ma Cecily aveva visto Will nascondere le proprie emozioni abbastanza spesso da riconoscere quei segni. — Non ho qui i miei abiti, e non so dove abiterò — disse Gabriel. — Potrei tornare in una delle residenze di famiglia, ma… — State considerando l’idea di restare all’Istituto? — chiese Cecily, sorpresa. — Charlotte che

ne pensa? — Darà il suo consenso. — Il viso di Gabriel cambiò brevemente, mostrando un’improvvisa vulnerabilità dove fino a poco prima appariva solo durezza. — Qui c’è mio fratello. Cecily annuì. — Anche il mio. Gabriel rimase un po’ in silenzio, sembrava quasi che non ci avesse pensato. — Voi gli assomigliate molto. È… impressionante. — Poi scrollò la testa, come per scuoterne via delle ragnatele. — Ho appena visto vostro fratello: scendeva di corsa i gradini d’ingresso dell’Istituto come se fosse inseguito dai Quattro Cavalieri dell’Apocalisse. Suppongo che voi non ne sappiate nulla, vero? A Cecily balzò il cuore in petto. Strappò il coltello a Gabriel, ignorando la sua esclamazione stupita. — No, ma intendo scoprirlo. Tanto quanto la City di Londra sembrava rinserrarsi dietro le persiane chiuse con il finire della giornata di lavoro, l’East End traboccava invece di vita. Will camminava in strade fiancheggiate da bancarelle di vestiti e scarpe usati. Rigattieri ambulanti e arrotini spingevano i carretti per le vie secondarie, gridando con voci roche i nomi delle mercanzie. I macellai se ne stavano indolenti sulle porte, con i grembiuli macchiati di sangue, le carcasse appese in vetrina. Le donne che stendevano il bucato si chiamavano l’un l’altra con voci dall’accento cockney così spiccato che, per quello che Will ne capiva, avrebbero potuto benissimo parlare russo. Aveva cominciato a cadere una debole pioggerella, che bagnò i capelli del Cacciatore mentre attraversava la strada davanti a un negozio di tabacchi all’ingrosso e svoltava in una via più stretta. In lontananza si vedeva la guglia della chiesa di Whitechapel. Le ombre si addensavano, come la nebbia fitta e soffice, che odorava di ferro e immondizia. Uno stretto canale di scolo correva in mezzo alla via, pieno di acqua maleodorante. Più avanti c’era una porta, con un fanale da carrozza su ciascun lato. Nel passarvi davanti, Will vi si infilò e sporse fuori la mano. Risuonò un grido, quindi il Cacciatore attirò a sé un’esile figura vestita di nero. Era Cecily, con un mantello di velluto gettato frettolosamente sopra la tenuta da combattimento. I capelli scuri fuoriuscivano dall’orlo del cappuccio, e due occhi azzurri identici ai suoi restituirono lo sguardo a Will, sbattendo furiosi. — Lasciami andare! — Cosa ti salta in mente di seguirmi nei bassifondi di Londra, stupida? — Will le strattonò leggermente il braccio. Cecily socchiuse gli occhi. — Questa mattina ero cariad, e adesso sono stupida? — Queste sono strade piuttosto pericolose, e tu non le conosci affatto — replicò Will. — Non usi neppure una runa di camuffamento. Un conto è dichiarare di non avere paura di niente quando si vive in campagna, ma questa è Londra. — Non ho paura di Londra — ribatté Cecily, in tono di sfida. Will si chinò su di lei, quasi sibilandole all’orecchio. — Fyddai’n wneud unrhyw dda yn ddweud wrthych i fynd adref? Lei si mise a ridere. — No, non ti servirebbe a niente dirmi di tornare a casa. — Rwyt ti fy mrawd ac rwy eisiau mynd efo chi. A tali parole, Will sbatté gli occhi. Sei mio fratello e voglio stare con te. Era il tipo di cosa che era abituato a sentirsi dire da Jem. Sebbene Cecily fosse diversa da Jem sotto ogni altro aspetto possibile e immaginabile, una qualità in comune con lui l’aveva: una mostruosa testardaggine.

Quando Cecily diceva di volere qualcosa, non esprimeva un blando desiderio, ma una ferrea determinazione. — Non ti importa neanche di sapere dove sto andando? — le chiese. — E se stessi andando all’Inferno? — Ho sempre voluto visitare l’Inferno — rispose Cecily, con calma. — Non lo vogliono forse tutti? — La maggior parte di noi passa il proprio tempo cercando di starne alla larga — disse Will. — Sto andando in un covo di ifrit, se proprio vuoi saperlo, a comprare droga da certi ceffi dissoluti e violenti. Potrebbero metterti gli occhi addosso e decidere di venderti. — E tu non glielo impediresti? — Suppongo che dipenda da quanto mi darebbero. Cecily scosse la testa. — Jem è il tuo parabatai. È tuo fratello, ti è stato dato dall’Enclave. Ma io sono tua sorella di sangue. Perché sei disposto a fare qualsiasi cosa per lui, e a me vuoi solo rimandarmi a casa? — Come sai che la droga è per Jem? — Non sono una stupida. — No, purtroppo — mormorò Will. — Jem… è la parte migliore di me. Non mi aspetto che tu capisca. Glielo devo. — E io che cosa sono? — chiese Cecily. Will buttò fuori il fiato, troppo esasperato per controllarsi. — Tu sei la mia debolezza. — E Tessa è il tuo cuore — affermò Cecily, non con rabbia ma con aria assorta. — Non sono una stupida, come ti ho detto — aggiunse nel vedere l’espressione stupita del fratello. — So che la ami. Will si portò la mano alla testa, come se quelle parole vi avessero scatenato un dolore lancinante. — L’hai detto a nessuno? Non devi, Cecily. Nessuno lo sa, e le cose devono rimanere così. — Non lo direi mai a nessuno. — No, credo proprio che non lo farai, vero? — La voce di Will si era indurita. — Ti vergogni di tuo fratello, immagino… che nutre sentimenti illeciti per la fidanzata del proprio parabatai… — Non mi vergogno di te, Will. Qualunque cosa tu senta, non hai agito di conseguenza, e presumo che tutti noi vogliamo cose che non possiamo avere. — Ah, sì? E tu, cosa vuoi che non puoi avere? — Che tu venga a casa — rispose Cecily. L’umidità le aveva incollato una ciocca di capelli neri alla guancia, dando l’impressione che avesse pianto, ma il fratello sapeva che non era così. — L’Istituto è la mia casa. — Will appoggiò la testa all’arcata di pietra. — Non posso stare qui fuori a discutere con te tutta la sera, Cecy. Se sei decisa a seguirmi all’Inferno, non posso impedirtelo. — Finalmente diventi ragionevole. Lo sapevo; dopotutto apparteniamo alla stessa famiglia. Will sospirò. — Pronta? Cecily annuì. Lui sollevò la mano per bussare alla porta. La porta si spalancò, e Gideon comparve sulla soglia della propria stanza, sbattendo le palpebre come se fosse appena uscito alla luce dopo una lunga permanenza in un luogo buio. Aveva i pantaloni e la camicia spiegazzati, e una bretella gli era scivolata a metà del braccio.

— Signor Lightwood? — disse Sophie, esitando sulla soglia. Aveva in mano un vassoio carico di scones tanto pesante da risultare scomodo. — Bridget mi ha detto che avevate chiesto un vassoio… — Sì, certo. Entrate. — Come se l’avessero svegliato del tutto con uno schiocco di dita, Gideon si raddrizzò e la guidò attraverso la stanza. Era scalzo; le scarpe erano state buttate in un angolo con un calcio. La stanza era priva del consueto ordine. La tenuta da combattimento era gettata su una sedia dall’alto schienale – Sophie trasalì interiormente al pensiero delle conseguenze sulla tappezzeria – e sul comodino faceva bella mostra di sé una mela mangiata a metà. Sdraiato in mezzo al letto c’era Gabriel Lightwood, profondamente addormentato. Indossava i vestiti del fratello, decisamente troppo corti ai polsi e alle caviglie. Così addormentato sembrava più giovane, con il viso privo della tensione abituale. Con una mano serrava un cuscino, come in cerca di rassicurazione. — Non sono riuscito a svegliarlo — disse Gideon. — Avrei dovuto portarlo nella sua stanza, ma… — Sospirò. — Non ce l’ho fatta. — Resta? — chiese Sophie, deponendo il vassoio sul comodino. — All’Istituto, voglio dire. — Non lo so. Credo di sì. Charlotte gli ha detto che era il benvenuto. Penso che lo abbia terrorizzato. — La signora Branwell? — Sophie si risentì, come sempre quando pensava che stessero criticando la padrona. — Ma se è la gentilezza fatta persona! — Proprio per questo penso che lo abbia terrorizzato. Lo ha abbracciato e gli ha detto che, se fosse rimasto qui, l’incidente con nostro padre sarebbe stato considerato acqua passata. Non sono sicuro a quale incidente si riferisse — aggiunse seccamente Gideon. — Con tutta probabilità quello per cui Gabriel ha appoggiato la candidatura di nostro padre alla direzione dell’Istituto. — Non credete che intendesse quello più recente? — Sophie infilò nella crestina una ciocca di capelli che ne era sfuggita. — Con il… — Con il verme gigante? No, non credo. Ma non è nella natura di mio fratello aspettarsi di essere perdonato. Lui capisce soltanto la disciplina ferrea. Forse pensa che Charlotte stia cercando di giocargli un tiro, o che sia pazza. Lo ha accompagnato in una stanza in cui potrebbe alloggiare, ma penso che l’intera faccenda lo abbia spaventato. È venuto a parlarmene, e si è addormentato. — Gideon guardò il fratello con un misto di affetto, esasperazione e dolore che fece palpitare di comprensione il cuore di Sophie. — Vostra sorella… — Oh, Tatiana non prenderebbe in considerazione neppure per un istante l’idea di stare qui — disse Gideon. — È scappata dai Blackthorn, i suoi suoceri. Non è una ragazza stupida – in effetti, considera la propria intelligenza assolutamente superiore – ma è presuntuosa e vanitosa. Lei e Gabriel non sono mai andati d’accordo. E considerate che lui era rimasto sveglio per giorni interi. Aspettando in quella grande casa maledetta, chiuso fuori della biblioteca, tempestando la porta di pugni quando non giungeva alcuna risposta da mio padre… — Avete un atteggiamento protettivo nei suoi confronti — osservò Sophie. — Certo, è il mio fratellino. — Gideon andò verso il letto e passò una mano sui capelli castani arruffati di Gabriel, che si mosse e fece un verso agitato, ma non si svegliò. — Pensavo che non vi avrebbe perdonato il fatto di esservi messo contro vostro padre — disse Sophie. — Avevate detto… di temere questa eventualità. Che considerasse le vostre azioni un tradimento del nome dei Lightwood.

— Credo che abbia cominciato a mettere in dubbio il nome dei Lightwood. Proprio come era capitato a me a Madrid. — Gideon si allontanò di un passo dal letto. — Mi dispiace. — Sophie abbassò la testa. — Mi dispiace per vostro padre. Qualsiasi cosa si dicesse di lui, o qualsiasi cosa possa aver fatto, era comunque vostro padre. Gideon si girò verso la cameriera. — Ma, Sophie… Lei non lo corresse per averla chiamata con il nome di battesimo. — So che ha fatto cose deplorevoli, ma ciononostante dovrebbe esservi concesso di piangerlo. Nessuno può togliervi il vostro dolore; appartiene a voi, e a voi soltanto. Con la punta delle dita, Gideon le sfiorò la guancia. — Sapevi che il tuo nome significa “saggezza”? Ti sta a pennello. Sophie deglutì. — Signor Lightwood… Le dita di lui si erano allargate a coppa intorno alla sua guancia, e ora Gideon si stava chinando per baciarla. — Sophie… — mormorò. E poi le loro labbra si trovarono, un lieve tocco che cedette il passo a una pressione maggiore mentre Gideon si piegava su di lei. Lievemente, con delicatezza la ragazza curvò le proprie mani – così ruvide, consumate dai bucati e dal portare pesi, dal raschiare focolari, dallo spolverare e dal lucidare, si afflisse, ma Gideon non sembrava esserne turbato o farci caso – intorno alle spalle di lui. Poi Sophie fece un mezzo passo in avanti, e il tacco della sua scarpa si impigliò nel tappeto facendola scivolare sul pavimento avvinghiata a Gideon. Ruzzolarono a terra insieme, Sophie paonazza per l’imbarazzo. Santo cielo, penserà che l’ho tirato giù apposta, che sono una di quelle pazze dissolute schiave della passione! La crestina era caduta, e i ricci scuri le si erano riversati sul viso. Il tappeto era soffice, e Gideon, sopra di lei, sussurrava il suo nome con trasporto. La ragazza girò la testa di lato, con le guance ancora ardenti, e si ritrovò a guardare sotto il letto a baldacchino. — Signor Lightwood, che ci fanno quegli scones sotto il vostro letto? — chiese, sollevandosi sui gomiti. Gideon si irrigidì, sbattendo gli occhi, come un coniglio intrappolato dai cani da caccia. — Cosa? — Là. — Sophie indicò il mucchio di sagome scure. — C’è una vera e propria montagna di scones sotto il vostro letto. — Perché mai? Il Nephilim si mise a sedere, passandosi le mani tra i capelli scompigliati, mentre Sophie si allontanava carponi da lui facendo frusciare le gonne. — Io non… — Voi avete chiesto questi scones. Quasi ogni giorno. Li avete chiesti, signor Lightwood. Perché avreste dovuto farlo, se non li volevate? Le guance di Gideon si imporporarono. — È l’unico modo che mi è venuto in mente per vedervi. Voi non volevate parlarmi, non volevate ascoltarmi se cercavo di parlarvi… — Dunque avete mentito? — Afferrando la crestina caduta, Sophie si rialzò. — Avete idea di quanto lavoro mi tocca fare, signor Lightwood? Portare carbone e acqua calda, spolverare, lucidare, riordinare le cose vostre e degli altri, e non mi pesa né mi lamento. Ma come osate farmi fare del lavoro extra, farmi trascinare pesanti vassoi su e giù per le scale, solo per portarvi qualcosa che nemmeno volete? Gideon si alzò a fatica, con i vestiti ancora più spiegazzati. — Perdonatemi. Non ci avevo pensato. — Proprio così — disse Sophie, infilandosi con furia i capelli sotto la crestina. — Non lo fate mai, vero? — Detto questo, uscì a grandi passi dalla stanza, lasciando Gideon a seguirla con uno

sguardo disperato. — Ben fatto, fratello — disse Gabriel dal letto, sbattendo gli assonnati occhi verdi. Gideon gli tirò addosso uno scone. — Henry? — Charlotte attraversò il pavimento della cripta. Le torce di stregaluce ardevano tanto intensamente che sembrava quasi giorno, ma lei sapeva che mancava poco a mezzanotte. Henry era curvo sul più ampio dei grandi tavoli di legno sparsi al centro della stanza. Qualcosa dall’odore nauseabondo bruciava in un becher su un altro tavolo, emettendo grossi sbuffi di fumo color lavanda. Un grosso pezzo di carta, di quella usata dai macellai per avvolgere la loro mercanzia, era spiegato sul tavolo, e Henry lo andava ricoprendo di cifre e misteriosi calcoli di ogni genere, borbottando tra sé. — Henry, caro, non sei esausto? Sono ore che sei qui sotto. L’uomo sobbalzò e alzò lo sguardo, spingendo sui capelli fulvi gli occhiali che portava sul lavoro. — Charlotte! — Sembrava sbalordito, sebbene entusiasta, di vederla. Solo lui poteva essere sbalordito di vedere la propria moglie nella loro casa, si disse Charlotte. — Angelo mio. Che ci fai quaggiù? Si gela. Può fare male al bambino. — La donna rise, ma non protestò quando Henry le corse incontro e l’abbracciò con delicatezza. Da quando aveva saputo che avrebbero avuto un figlio, la trattava come se fosse stata di porcellana. Le schioccò un bacio sui capelli e si scostò per studiarle il viso. — In effetti, sembri un po’ pallida. E se invece di cenare insieme a tutti gli altri ti facessi portare da Sophie del corroborante brodo di carne nella tua stanza? Vado a… — Henry, abbiamo deciso ore fa di non cenare… a tutti sono stati serviti dei sandwich nelle loro stanze. Jem sta ancora troppo male per mangiare, e i giovani Lightwood sono troppo scossi. E tu sai com’è Will quando Jem sta male. E anche Tessa, naturalmente. L’Istituto sta andando a pezzi. — Sandwich? — Henry sembrava avere colto in quella parola il nocciolo del discorso della moglie, e aveva uno sguardo pieno di desiderio. Charlotte sorrise. — Ce n’è qualcuno per te di sopra, sempre che tu riesca a staccarti da qui. Immagino che non stia a me rimproverarti – io sono stata fino ad ora a leggere i diari di Benedict, sono davvero interessanti – ma a che cosa stai lavorando? — A un portale — rispose Henry, in tono entusiasta. — Una forma di trasporto. Qualcosa che possa spostare un Cacciatore da un punto all’altro del globo in pochi secondi. Sono stati gli anelli di Mortmain a darmi l’idea. Charlotte aveva gli occhi sgranati. — Gli anelli di Mortmain sono decisamente magia nera… — Ma questo non lo è. Oh, e c’è dell’altro. Vieni. È per Buford. Charlotte si fece prendere per il polso e guidare attraverso la stanza. — Ti ho già detto cento volte che nessun figlio mio si chiamerà Buford… Per l’Angelo, è una culla? — È meglio di una culla! — annunciò Henry, indicando con un ampio gesto del braccio il lettino di legno dall’aria robusta appeso a due aste. — È una culla che dondola da sola! — Una cosa? — chiese Charlotte, con voce fievole. Ma dovette ammettere tra sé che era un mobile davvero bello. — Sta’ a guardare. — Henry avanzò con aria fiera e premette un pulsante invisibile. La culla cominciò a dondolare dolcemente di qua e di là. — È davvero… graziosa, tesoro.

— Ti piace? — Henry era raggiante. — Be’, ora ha accelerato un po’. — In effetti la culla dondolava più velocemente, e a scatti, dando l’impressione di essere stata gettata alla deriva in un mare agitato. — Mmm… Henry, c’è qualcosa di cui vorrei parlarti — fece Charlotte. — Qualcosa di importante. — Più importante del fatto che ogni sera il nostro bambino si addormenterà cullato da un gentile dondolio? — L’Enclave ha deciso di rilasciare Jessamine. Tornerà all’Istituto. Tra due giorni. Henry si girò verso la moglie, con espressione incredula. Alle sue spalle, la culla dondolava ancora più forte, come una carrozza lanciata a tutta birra. — Torna qui? — Non ha altro posto dove andare. Henry aprì la bocca per replicare, ma prima che potesse uscirne una sola parola risuonò un gran fracasso: la culla si staccò dai sostegni e volò attraverso la stanza per schiantarsi contro la parete opposta, andando in mille pezzi. Charlotte ebbe un lieve sussulto e si coprì la bocca con una mano. Henry sorrise. — Forse, con qualche ritocco al progetto… — No, Henry — disse lei, in tono fermo. — Ma… — Non se ne parla. — Lo fulminò con lo sguardo. Henry sospirò. — Benissimo, cara. I Congegni Infernali non hanno pietà. I Congegni infernali non hanno rimorso. I Congegni Infernali non hanno fine. I Congegni Infernali torneranno sempre. Le parole scritte sulla parete dello studio di Benedict echeggiavano nella mente di Tessa mentre sedeva accanto al letto di Jem e lo guardava dormire. Non era sicura di che ore fossero, sicuramente le “ore piccole”, come avrebbe detto Bridget; era senz’altro passata la mezzanotte. Quando era arrivata, dopo che Will se n’era andato, Jem era sveglio… sveglio, seduto e abbastanza in forma da prendere un tè, sebbene fosse molto più affannato di quanto le sarebbe piaciuto, e piuttosto pallido. Più tardi Sophie era venuta a ritirare il vassoio, e aveva sorriso a Tessa. — Sprimacciategli i cuscini — aveva suggerito in un sussurro. Tessa l’aveva fatto, e Jem era sembrato divertito dalle sue premure. Tessa non aveva mai avuto molta pratica con i malati. Prendersi cura del fratello ubriaco era stata l’esperienza più vicina a quella dell’infermiera che le fosse mai capitata. Non le pesava, trattandosi di Jem, non le pesava stare seduta tenendogli la mano mentre respirava piano, con gli occhi semichiusi, le ciglia che si muovevano contro gli zigomi. — Non molto eroico — disse all’improvviso Jem senza aprire gli occhi, ma con voce ferma. Tessa sussultò e si piegò in avanti. Le dita di Jem erano fredde tra quelle di lei, il polso lento. — Che vuoi dire? — Oggi non ho fatto altro che crollare e tossire sangue per tutta la proprietà dei Lightwood… — Non hai fatto che migliorare l’aspetto del posto — osservò Tessa. — Ora sembri Will. — Jem sorrise, con aria assonnata. — E poi stai cambiando discorso, proprio come farebbe lui. — Certo. Come se potessi mai pensare male di te perché sei malato; lo sai che non è così. E oggi sei stato davvero eroico. Anche se prima Will ha detto che gli eroi finiscono tutti male, e che non

riesce a immaginare perché tutti aspirino comunque a diventarlo. — Ah… — La mano di Jem strinse brevemente quella di Tessa e poi la lasciò. — Be’, Will la vede dal punto di vista dell’eroe, no? Ma per quanto riguarda noi, è facile rispondere. — Davvero? — Certo. Gli eroi continuano a esistere perché noi ne abbiamo bisogno. Non per se stessi. — Ne parli come se non fossi uno di loro. — Tessa gli scostò i capelli dalla fronte, e vide che lui si abbandonava al suo tocco. — Jem… hai mai…? — Tessa esitò. — Hai mai pensato a un modo di prolungare la tua vita senza fare ricorso alla droga? Le palpebre di Jem si spalancarono. — Che vuoi dire? Tessa pensò a Will, sul pavimento della soffitta, che soffocava per tutta l’acqua santa ingerita. — Diventando un vampiro. Vivresti per sempre… Jem si sollevò a fatica contro i cuscini. — Tessa, no. Non… tu non puoi pensarla così. — L’idea di diventare un Nascosto ti ripugna tanto? — Tessa… Sono un Cacciatore, un Nephilim. Come i miei genitori prima di me. È l’eredità che rivendico, e allo stesso modo rivendico come parte di me l’eredità di mia madre. Il che non significa che odi mio padre. Ma onoro il dono che mi hanno offerto, il sangue dell’Angelo, la fiducia riposta in me, i voti che ho fatto. — La voce di Jem era sempre più stanca. — E poi non credo che sarei un buon vampiro. Ci disprezzano; a volte diventano Nephilim, per scherzo, ma chi lo fa è schernito dagli altri. Noi abbiamo nelle nostre vene il giorno e il fuoco degli angeli, tutto ciò che loro odiano. Mi terrebbero a distanza, e lo farebbero anche i Nephilim. Non sarei più il parabatai di Will, non sarei più il benvenuto all’Istituto. No, Tessa. Preferirei morire, rinascere e rivedere il sole, piuttosto che vivere fino alla fine del mondo senza la luce del giorno. — Un Fratello Silente, allora — insistette Tessa. — Il Codice dice che le rune che si impongono sono abbastanza potenti da renderli immortali. — I Fratelli Silenti non possono sposarsi. — Jem aveva sollevato il mento. Tessa sapeva da un pezzo che sotto la sua gentilezza si celava una cocciutaggine pari a quella di Will. In quel momento poteva scorgerla, acciaio sotto la seta. — Sai che preferirei vederti vivo e non sposato con me, piuttosto che… — La gola di Tessa si serrò, impedendole di pronunciare la parola. Gli occhi di Jem si addolcirono leggermente. — La strada dei Fratelli Silenti mi è preclusa. Con il sangue contaminato dallo yin fen non potrei sopravvivere alle rune che si applicano. Dovrei smettere di drogarmi finché il mio organismo non ne fosse purificato, e con tutta probabilità questo mi ucciderebbe. — Dovette vedere qualcosa nell’espressione di lei, perché la sua voce si fece più dolce. — Non è una gran vita, quella dei Fratelli Silenti: silenzio e oscurità, silenzio e… niente musica. — Jem deglutì. — E poi non desidero vivere in eterno. — Io posso farlo — dichiarò Tessa. L’enormità di quella condizione era qualcosa che non riusciva ancora a capire appieno. Concepire che la propria vita non sarebbe mai finita era difficile quanto concepire il contrario. — Lo so — disse Jem. — E me ne dispiace, perché lo ritengo un fardello che nessuno dovrebbe portare. Io credo nella reincarnazione, Tessa, lo sai. Tornerò, anche se non in questo corpo. Le anime che si amano si attraggono nelle loro vite successive. Vedrò Will, i miei genitori, i miei zii, Charlotte e Henry… — Ma non vedrai me. — Non era la prima volta che ci pensava, sebbene spesso ricacciasse quel pensiero da dove era venuto. Se sono immortale, ho solo questa vita, nient’altro. Non mi

trasformerò né cambierò come te, James. Non ti vedrò in Paradiso, o sulle rive del gran fiume, o in qualsiasi altra vita ci sia dopo questa. — Ora ti vedo. — Jem allungò la mano e la posò sulla guancia di Tessa, mentre i suoi occhi cercavano quelli di lei. — E io vedo te — sussurrò la ragazza. Jem sorrise stancamente, chiudendo gli occhi. Tessa mise la mano sulla sua, la guancia appoggiata all’incavo del suo palmo. Sedette muta, le fredde dita di lui contro la pelle, finché il respiro di Jem non rallentò: si era addormentato. Con un sorriso mesto, Tessa abbassò delicatamente la mano in modo da posarla sul copriletto. La porta della stanza si aprì. Tessa si voltò e vide Will sulla soglia, ancora in cappotto e guanti. Uno sguardo al suo viso desolato e sconvolto la fece alzare, per seguirlo nel corridoio. Will lo stava già percorrendo con la fretta di un uomo inseguito dal demonio. Tessa si chiuse con cautela la porta della stanza alle spalle e gli corse dietro. — Che c’è, Will? Cosa è successo? — Sono appena tornato dall’East End — rispose lui. C’era sofferenza nella sua voce, una sofferenza quale Tessa non sentiva da quando, nel soggiorno, gli aveva detto che si era fidanzata con Jem. — Ero andato a cercare dell’altro yin fen. Ma non ce n’è più. Poco mancò che Tessa inciampasse mentre raggiungevano la scala. — Non ce n’è più? Jem ne ha una scorta, no? — L’ha finito. Non voleva che tu lo sapessi, ma non c’è modo di nasconderlo — disse Will. — L’ha finito, e non riesco a trovarne dell’altro. Sono stato sempre io a comprarlo. Avevo dei fornitori… ma sono rimasti a mani vuote oppure si sono volatilizzati. Per prima cosa sono andato in quel posto… quel posto dove tu sei venuta e mi hai trovato, insieme a Jem. Non hanno più yin fen. — Allora da qualche altra parte… — Sono andato ovunque. Sbucarono nel corridoio al secondo livello dell’Istituto; lì c’erano la biblioteca e il soggiorno. Le porte di entrambi erano aperte, e una luce gialla se ne riversava nel corridoio. — Nell’ultimo posto in cui sono stato mi hanno detto che nelle ultime settimane qualcuno ne ha fatto incetta. Non c’è più niente. — Ma Jem… — L’angoscia divampava in Tessa come un fuoco. — Senza lo yin fen… — Morirà. — Will si fermò un istante davanti alla porta della biblioteca; i suoi occhi incontrarono quelli di lei. — Proprio questo pomeriggio mi aveva dato il permesso di cercare una cura, di fare delle ricerche. E adesso morirà, perché non posso tenerlo in vita quel tanto che basta perché io riesca a trovarla. — No — disse Tessa. — Non morirà. Non lo permetteremo. Will entrò nella biblioteca, insieme alla ragazza, e il suo sguardo vagò nella stanza familiare, sui tavoli illuminati, sugli scaffali pieni di volumi antichi. — C’erano dei libri… — disse, come se Tessa non avesse parlato. — Libri che ho consultato, volumi sui veleni rari. — Si allontanò da lei e andò verso uno scaffale lì accanto, passando febbrilmente le mani sui tomi che vi erano alleati. — È stato anni fa, prima che Jem proibisse ulteriori ricerche. Ho dimenticato… Tessa gli si avvicinò, facendo frusciare le gonne intorno alle caviglie. — Will, smettila. — Ma devo ricordare. — Andò a un altro scaffale, poi a un altro ancora, mentre il suo corpo

lungo e snello proiettava un’ombra diagonale sul pavimento. — Devo trovare… — Will, non puoi certo fare in tempo a leggere tutti i libri della biblioteca. Smettila. — Tessa gli era andata dietro, abbastanza vicino da vedere il punto in cui il colletto della giacca era umido di pioggia. — Questo non aiuterà Jem. — E allora cosa? Cosa? — Will afferrò un altro libro, lo fissò e lo gettò sul pavimento. — Smettila — ripeté Tessa, e lo prese per la manica, girandolo verso di lei: era paonazzo, senza fiato, il braccio rigido come ferro sotto la sua stretta. — Quando hai cercato la cura, non sapevi quello che sai ora. Non avevi gli alleati che hai ora. Andremo a chiedere a Magnus Bane. Lui ha occhi e orecchie nel Mondo Invisibile; lui conosce tutti i generi di magia. Ti ha aiutato con la tua maledizione; può aiutarci anche in questo caso. — Non c’era nessuna maledizione — ribatté Will, come se recitasse la battuta di una commedia. Aveva gli occhi vitrei. — Will… ascoltami. Ti prego. Andiamo da Magnus. Può aiutarci. Il Cacciatore chiuse gli occhi ed emise un profondo respiro. Tessa lo fissò. Non poteva fare a meno di guardarlo quando sapeva che lui non poteva vederla: le scure ciglia fini e lunghe contro gli zigomi, la lieve sfumatura azzurra delle palpebre… — Sì — disse infine Will. — Sì, certo. Grazie. Non ci avevo pensato. — Eri angosciato — replicò Tessa, d’un tratto consapevole che lo stava ancora tenendo per un braccio, e che erano abbastanza vicini da potergli schioccare un bacio sulla guancia, o mettergli le braccia intorno al collo per confortarlo. Lo lasciò e fece un passo indietro. — E poi credevi che ti avrebbe sempre proibito di cercare una cura. Sai che io non mi ci sono mai rassegnata. Avevo già pensato a Magnus. Gli occhi di Will studiarono il suo viso. — Ti sei rivolta a lui? Tessa scosse la testa. — Jem non voleva. Ma ora… è cambiato tutto. — Sì. — Will si allontanò da lei, facendo indugiare gli occhi sul suo viso. — Scendo a dire a Cyril di preparare la carrozza. Ci vediamo in cortile. Al Console Josiah Wayland Dai Membri del Consiglio Caro signore, non possiamo che esprimere la nostra profonda preoccupazione per la vostra lettera. Avevamo l’impressione che quella di Charlotte Branwell fosse una candidatura che appoggiavate in maniera incondizionata, e che lei si fosse dimostrata un capo adatto all’Istituto di Londra. Il nostro Inquisitore Whitelaw dice un gran bene di lei e del modo in cui ha affrontato la sfida lanciata alla sua autorità da Benedict Lightwood. È nostra opinione comune che George Penhallow non sia adatto a succedervi nella carica di Console. A differenza della signora Branwell, non ha dimostrato di avere le qualità di un capo. È vero, la signora Branwell è giovane e appassionata, ma il ruolo di Console richiede passione. Vi esortiamo ad accantonare l’idea del signor Penhallow, che è troppo giovane e inesperto per la carica, e a riconsiderare la possibile candidatura della signora Branwell. I vostri nel nome di Raziel, Membri del Consiglio

5 UN CUORE DIVISO

Sì, per quanto Dio la cerchi con cautela, Non c’è una cosa intatta in tutto ciò; Per quanto frughi in tutte le mie vene, nel farlo Non troverà nulla d’intero, solo l’amore. Algernon Charles Swinburne, Laus Veneris Ai Membri del Consiglio Dal Console Josiah Wayland Con il cuore pesante impugno la penna per scrivervi, signori. Tanti di voi mi conoscono da anni, per molti dei quali vi ho guidati nella carica di Console. Credo di averlo fatto bene, e di avere servito l’Angelo come meglio ho potuto. Tuttavia errare è umano, e io credo di aver errato nominando Charlotte Branwell a capo dell’Istituto di Londra. Quando le ho assegnato quella carica, credevo che avrebbe seguito le orme del padre e si sarebbe dimostrata una guida degna di fiducia, obbediente alle regole dell’Enclave. Credevo, inoltre, che suo marito ne avrebbe arginato le naturali tendenze femminili all’impulsività e all’avventatezza. Sfortunatamente così non è stato. A Henry Branwell manca la forza di carattere per frenare la moglie che, esentata dai suoi doveri di donna, si è lasciata alle spalle le virtù dell’obbedienza. Solo pochi giorni fa ho scoperto che Charlotte aveva dato istruzioni di far tornare all’Istituto la spia Jessamine Lovelace dopo il suo rilascio dalla Città Silente, nonostante il mio espresso desiderio che venisse mandata a Idris. Sospetto inoltre che presti orecchio a coloro che non sono vicini alla causa dei Nephilim e possa in effetti essere in combutta con Mortmain, come il licantropo Woolsey Scott. Il Consiglio non è al servizio del Console; è sempre stato il contrario. Io sono un simbolo del potere del Consiglio e dell’Enclave. Quando la mia autorità è minata dalla disobbedienza, lo è l’autorità di tutti noi. Meglio un ragazzo obbediente come mio nipote, il cui valore non è stato ancora messo alla prova, che una persona il cui valore è stato messo alla prova e trovato insufficiente. Nel nome dell’Angelo, il Console Josiah Wayland Will ricordò.

Un altro giorno, mesi prima, nella stanza di Jem. La pioggia sferzava le finestre dell’Istituto, striando i vetri di linee chiare. — Non c’è altro? — aveva chiesto Jem. — Questo è tutto? La verità? — Era seduto alla scrivania, con una gamba ripiegata sotto il corpo; sembrava molto giovane. Il violino era appoggiato a un lato della sedia. Lo stava suonando quando Will era entrato e, senza tanti preamboli, aveva annunciato che la finzione era finita: aveva una confessione da fare, e intendeva farla subito. Addio Bach. Jem aveva messo via il violino e aveva fissato il viso di Will, con l’ansietà che traspariva dagli occhi argentei mentre l’altro andava su e giù e parlava, andava su e giù e parlava, finché non era rimasto a corto di parole. — E questo è tutto — aveva detto infine Will. — E se mi odi, non ti biasimo. Posso capirlo. C’era stata una lunga pausa. Lo sguardo di Jem era rimasto fermo sul viso del parabatai, fermo e argenteo alla luce guizzante del fuoco. — Non potrei mai odiarti, Will. Le viscere di Will si contrassero nel vedere un altro viso, lo sguardo fermo di due occhi grigioazzurri sollevati sui suoi. Ripensò alle parole di Tess: Ho cercato di odiarti, Will, ma non ci sono mai riuscita. In quel momento Will si era reso dolorosamente conto che quanto aveva detto a Jem non era “tutto”. C’era dell’altra verità. C’era il suo amore per Tessa. Ma quel fardello doveva portarlo lui, non Jem. Era qualcosa che andava tenuto nascosto perché l’amico fosse felice. — Io merito il tuo odio — aveva detto a Jem, con voce spezzata. — Ti ho messo in pericolo. Credevo di essere maledetto e che chiunque mi volesse bene fosse destinato a morire. Mi sono permesso di volerti bene, e ho permesso che fossi come un fratello per me, rischiando di esporti al pericolo… — Non c’era nessun pericolo. — Ma io credevo che ci fosse. Se ti appoggiassi un revolver alla testa, James, e premessi il grilletto, avrebbe davvero importanza se ignorassi che non ci sono proiettili nel tamburo? Jem aveva spalancato gli occhi, poi era scoppiato a ridere, un riso sommesso. — Credevi non sapessi che avevi un segreto? Pensavi che avessi iniziato la mia amicizia con te a occhi chiusi? Non conoscevo la natura del fardello che portavi. Ma sapevo che c’era. — Jem si era alzato. — Sapevo che ti ritenevi veleno per tutti quelli che ti circondavano. Sapevo che pensavi di avere una qualche forza corruttiva che mi avrebbe fatto a pezzi. Volevo dimostrarti che non sarei andato a pezzi, che l’affetto non era così fragile. Ci sono riuscito? Will aveva scrollato le spalle, con aria impotente. Aveva quasi desiderato che Jem si infuriasse: sarebbe stato più facile. Non si era mai sentito così piccolo dentro di sé come quando era di fronte alla sua gentilezza espansiva. Pensò al Satana del Paradiso Perduto di Milton: Si smarrì il Demonio, e quanto sia tremenda la bontà sentì. — Tu mi hai salvato la vita — aveva detto. Un sorriso si era diffuso sul viso di Jem, luminoso come la luce del sole che sorgeva al di sopra del Tamigi. — È tutto ciò che ho sempre desiderato. — Will? Una voce sommessa lo strappò alle sue fantasticherie. Era Tessa, seduta di fronte a lui nella carrozza, con gli occhi del colore della pioggia nella luce fioca. — A cosa stai pensando? Will si distolse con uno sforzo dai suoi ricordi, e guardò la ragazza. Tessa non portava il cappello, e il cappuccio del mantello di broccato le era ricaduto all’indietro; il suo viso era pallido,

più largo agli zigomi, leggermente a punta sul mento. Will pensò di non avere mai visto un viso con una simile forza espressiva: ogni suo sorriso gli lacerava il cuore come un fulmine potrebbe spaccare un albero, e lo stesso accadeva per ogni suo sguardo addolorato. In quel momento lo stava fissando con una preoccupazione assorta che gli strinse il cuore. — A Jem — rispose, con sincerità. — Stavo pensando alla sua reazione quando gli ho raccontato della maledizione di Marbas. — Provava soltanto dolore per te — disse Tessa. — Lo so; me l’ha detto. — Dolore, ma non pietà. Jem mi ha sempre dato esattamente ciò di cui avevo bisogno nel modo in cui ne avevo bisogno, anche quando non sapevo neanch’io cosa fosse — disse Will. — Tutti i parabatai sono devoti l’uno all’altro. Dobbiamo esserlo, per sostenerci vicendevolmente, e così facendo guadagniamo in forza. Ma con Jem è diverso. Per tanti anni ho avuto bisogno di lui per vivere, e mi ha tenuto in vita. Pensavo che lo ignorasse, ma forse lo sapeva. — Forse. — Tessa annuì. — Non avrebbe mai considerato come sprecato un solo istante di un tale impegno. — Non te ne ha mai parlato? Lei scosse la testa. Le mani piccole nei guanti bianchi erano chiuse a pugno, in grembo. — Parla di te soltanto con il massimo orgoglio. Ti ammira più di quanto tu possa immaginare. Quando ha saputo della maledizione, aveva il cuore a pezzi per te, ma l’ha considerata anche una sorta di… — Conferma? Di nuovo, Tessa annuì. — Ha sempre creduto che tu fossi buono. E quella ne era la riprova. — Oh, non saprei… Essere buono ed essere maledetto non è la stessa cosa — replicò Will, in tono amaro. Tessa si chinò in avanti e gli prese la mano, stringendola tra le sue. Quel tocco sembrò mandargli del fuoco incandescente nelle vene. Non era a contatto con la sua pelle, solo con la stoffa dei guanti, ma non importava. Avete fatto divampare questo mucchio di cenere che sono. Una volta si era chiesto perché l’amore fosse sempre descritto come qualcosa che brucia. In quel momento, l’incendio nelle sue vene gli diede la risposta. — Tu sei buono, Will — dichiarò Tessa. — Nessuno meglio di me può affermare con perfetta sicurezza quanto tu sia buono in realtà. — Quando avevamo quindici anni, Yanluo, il demone che aveva assassinato i genitori di Jem, fu finalmente ucciso. Lo zio di Jem decise di trasferirsi dalla Cina a Idris e lo invitò ad andare a vivere là con lui. Jem rifiutò, per me. Disse che non si abbandona il proprio parabatai. Che faceva parte del giuramento. “La tua gente è la mia gente”. — Will scosse il capo. — Mi chiedo se, qualora avessi avuto la possibilità di tornare dalla mia famiglia, avrei fatto lo stesso per lui. — Lo stai facendo — replicò Tessa. — Cecily vuole che torni a casa con lei, non pensare che io non lo sappia. E so pure che rimani per Jem. — E per te — disse Will, prima di potersi trattenere. Tessa allontanò le mani dalla sua, e lui si maledisse ferocemente: Come hai potuto essere così idiota? Come, dopo due mesi? Sei stato tanto attento. Il tuo amore è per lei solo un fardello, e lei lo sopporta per buona creanza. Ricordalo. Ma Tessa stava soltanto aprendo la tenda mentre la carrozza frenava. Stavano entrando in una stradina fiancheggiata da case ricavate da scuderie, dalla cui entrata pendeva un’insegna: TUTTI I GUIDATORI DI VEICOLI SONO TENUTI A PORTARE I CAVALLI A MANO NEL PASSARE SOTTO QUESTO ARCO . — Eccoci — disse la ragazza, come se lui non avesse profferito verbo.

E forse non l’ho fatto, pensò Will. Forse sto impazzendo. Certo non era da escludere, viste le circostanze. Quando lo sportello della carrozza si aprì, furono investiti da un’ondata della fredda aria di Chelsea. Will vide Tessa alzare il capo mentre Cyril l’aiutava a scendere. La raggiunse sui ciottoli. Il posto era impregnato dell’odore del Tamigi. Prima che fosse costruito l’Embankment, il fiume arrivava molto più vicino a quelle case, i cui profili erano addolciti dalla luce a gas nell’oscurità. Ormai il fiume era lontano, ma si sentiva ancora l’odore penetrante di sale, sporcizia e ferro delle sue acque. La facciata del civico numero 16 era in stile georgiano, costruita in semplici mattoni rossi, con un bovindo che sporgeva al di sopra della porta d’entrata. C’erano un cortiletto lastricato e un giardino, dietro un’elegante recinzione in ferro battuto riccamente lavorata. Il cancello era già aperto. Tessa lo spinse e si diresse verso i gradini d’ingresso per bussare alla porta, seguita a pochi passi da Will. La porta fu aperta da Woolsey Scott, che indossava una vestaglia di seta broccata giallo canarino su un paio di pantaloni e una camicia. Aveva un monocolo dorato incastrato in un’orbita e li guardava attraverso di esso con una certa avversione. — Seccature — esordì. — Avrei dovuto dire al cameriere di mandarvi via, ma pensavo che fosse qualcun altro. — Chi? — domandò Tessa, il che a Will non sembrò pertinente al motivo per cui erano lì, ma lei era fatta così: faceva sempre domande; lasciata sola in una stanza, si sarebbe messa a fare domande perfino ai mobili e alle piante. — Qualcuno con dell’assenzio. — Ingoiate abbastanza di quella roba e penserete di essere voi qualcun altro — disse Will. — Stiamo cercando Magnus Bane. Se non è qui, ditecelo e non ruberemo altro del vostro tempo. Woolsey sospirò, come se si fosse convinto. — Magnus! — gridò. — C’è il tuo ragazzo dagli occhi azzurri. Rimbombarono dei passi nel corridoio alle spalle di Woolsey, e Magnus apparve, vestito da sera di tutto punto, come se fosse appena tornato da un ballo. Sparato e polsini inamidati, frac nero e capelli che ricordavano una frangia irregolare di seta scura. I suoi occhi guizzarono da Will a Tessa. — A cosa devo l’onore, a un’ora così tarda? — Un favore — disse Will, e nel vedere le sopracciglia di Magnus sollevarsi si corresse. — Una domanda. Woolsey sospirò e si allontanò dalla porta. — Benissimo. Venite in soggiorno. Nessuno si offrì di prendere loro cappello e cappotto; una volta che raggiunsero il soggiorno, Tessa si sfilò i guanti e avvicinò le mani al fuoco, scossa da lievi brividi. I suoi capelli erano un’umida massa di ricci sulla nuca, e Will distolse lo sguardo prima di riuscire a ricordare che sensazione desse infilare le mani in quei capelli e sentirne le ciocche avvolgersi intorno alle dita. All’Istituto era più facile, con Jem e gli altri a distrarlo, ricordare che Tessa non era sua per poterla rammentare a quel modo. Lì, con l’impressione di affrontare il mondo con lei al fianco – la sensazione che fosse lì per lui invece che, logicamente, per la salute del suo fidanzato – era quasi impossibile. Woolsey si lasciò cadere su una poltrona dalla tappezzeria a fiori. Si era tolto il monocolo dall’occhio e ne arrotolava intorno alle dita la lunga catenella dorata. — Ardo dalla voglia di sentire di che si tratta. Magnus si avvicinò al caminetto e si chinò sulla mensola, la personificazione del giovane

gentiluomo in ozio. La stanza era dipinta di un azzurrino pallido e decorata con quadri raffiguranti vaste distese di granito, scintillanti mari blu e uomini e donne in abiti classici. Will pensò di riconoscere la copia di un Alma-Tadema. Era un copia, vero? — Non guardare a bocca aperta le pareti, Will — disse Magnus. — Non ti sei praticamente fatto vedere da mesi. Cosa ti porta qui ora? — Non volevo disturbarti — borbottò il Cacciatore. Era vero solo in parte. Una volta che la maledizione di cui si credeva vittima era stata dimostrata falsa da Magnus, Will lo aveva evitato: non è che fosse arrabbiato con lo stregone o non avesse più bisogno di lui, ma la sua vista lo faceva soffrire. Gli aveva scritto una breve lettera dicendogli cosa era successo e che il suo segreto non era più tale. Aveva parlato del fidanzamento di Jem con Tessa. Aveva pregato Magnus di non rispondere. — Ma è… è un’emergenza. Gli occhi da gatto di Magnus si spalancarono. — Che genere di emergenza? — Si tratta dello yin fen. — Santo cielo! — esclamò Woolsey. — Non dirmi che il mio branco sta di nuovo prendendo quella roba? — No — rispose Will. — Non ce n’è più. — Vide la comprensione apparire sul viso di Magnus e continuò a spiegare la situazione come meglio poteva. Lo stregone non cambiò espressione durante il suo racconto, non più di quanto facesse Church quando qualcuno gli parlava. — E senza lo yin fen? — chiese infine. — Jem morirà — affermò Tessa, girando le spalle al caminetto. Aveva le guance soffuse di un intenso rossore, se dovuto al calore del fuoco o alla tensione della situazione, Will non avrebbe saputo dirlo. — Non subito, ma… nel giro di pochi giorni. Il suo corpo non può resistere senza la polvere. — Come la prende? — chiese Woolsey. — Disciolta in acqua o inalata — rispose Will. — Ma che c’entra? — Niente, pura curiosità. Le droghe demoniache sono una cosa singolare. — Per noi che lo amiamo, è una situazione molto più che singolare — replicò Tessa. Teneva il mento sollevato, e Will ricordò di averle detto che assomigliava a Boadicea. Aveva davvero coraggio, e lui la adorava per quello, anche se in quel momento se ne serviva in difesa del proprio amore per qualcun altro. — Perché siete venuti da me? — La voce di Magnus era tranquilla. — Ci hai già aiutati — rispose Tessa. — Pensavamo che forse avresti potuto farlo di nuovo. Ci hai aiutati contro de Quincey… e poi Will, la sua maledizione… — Non sono ai vostri ordini — disse Magnus. — Vi ho aiutati con de Quincey perché me lo aveva chiesto Camille, e una volta ho aiutato Will per ricambiargli un favore. Sono uno stregone. E non lavoro gratis per i Cacciatori. — Non sono una Cacciatrice — replicò Tessa. Calò il silenzio. Magnus diede le spalle al fuoco. — Se ho ben capito, Tessa, bisogna farti i rallegramenti? — Non… — Per il tuo fidanzamento con James Carstairs. — Oh… — La ragazza arrossì e portò la mano al collo, dove era appesa la collana della madre di Jem. — Sì, grazie.

Will sentì più che vedere gli occhi di Woolsey scivolare dall’uno all’altro di loro tre – Magnus, Tessa e lui stesso – e percepì la mente dietro quegli occhi esaminare, dedurre, divertirsi. Irrigidì le spalle. — Sarei felice di offrirti qualsiasi cosa, Magnus. Un altro favore, o qualunque cosa tu voglia, per lo yin fen. Se è un pagamento, potrei provvedere… cioè, potrei provare a… — Posso anche avervi aiutati in passato — disse lo stregone. — Ma questa volta… — Sospirò. — Dovete usare il cervello. Se qualcuno sta comprando tutto lo yin fen del Paese, è qualcuno che ha un motivo per farlo. E chi ha un motivo per farlo? — Mortmain — sussurrò Tessa prima che Will potesse precederla. Will ricordava ancora la propria voce: — I servi di Mortmain stanno facendo incetta della riserva di yin fen nell’East End. L’ho verificato. Se tu ne fossi rimasto sprovvisto e lui fosse l’unico a esserne fornito… — Saremmo in suo potere — concluse Jem. — A meno che tu non fossi disposto a lasciarmi morire, naturalmente, il che sarebbe una linea di condotta sensata. Ma con yin fen sufficiente per dodici mesi, Will aveva ritenuto che non ci fosse pericolo. Aveva ritenuto che Mortmain avrebbe trovato qualche altro modo per assillarli e tormentarli, perché si sarebbe sicuramente reso conto che quel piano non avrebbe potuto funzionare. Will non si era aspettato che un quantitativo di droga sufficiente per un anno sarebbe sparito in otto settimane. — Non vuoi aiutarci — disse il Cacciatore. — Non vuoi schierarti tra i nemici di Mortmain. — E puoi biasimarlo per questo? — Woolsey si alzò in un turbine di seta gialla. — Cosa potreste mai avere da offrirgli, voi, per fargli pensare che valga la pena rischiare? — Ti darò qualsiasi cosa — disse Tessa. La sua voce era così profonda che Will se la sentì vibrare nelle ossa. — Assolutamente qualsiasi cosa, se ci aiuterai a tenere in vita Jem. Magnus afferrò una manciata dei capelli della ragazza. — Dio, cosa siete voi due! Posso fare delle ricerche. Battere i circuiti alternativi. La vecchia Molly… — Già fatto — disse Will. — Qualcosa l’ha talmente spaventata che non vuole neppure uscire dalla tomba. Woolsey sbuffò. — E questo non ti dice niente, piccolo Cacciatore? Vale davvero la pena di affrontare tutto questo, solo per allungare la vita del tuo amico di qualche mese, di un altro anno? Morirà comunque. E prima morirà, prima potrai avere la sua fidanzata, di cui sei innamorato. — Il licantropo spostò lo sguardo divertito su Tessa. — In realtà, dovresti contare con grande impazienza i giorni che ancora gli restano. Will perse la testa. D’un tratto divenne tutto bianco, e il monocolo di Woolsey volò attraverso la stanza. La testa del Nephilim colpì dolorosamente qualcosa, e il licantropo gli fu sotto, scalciando e imprecando. Rotolarono sul tappeto, e Will percepì un dolore acuto al polso, dove era stato colpito dagli artigli dell’altro. Il dolore gli schiarì la mente, e si rese conto che ora Woolsey lo stava inchiodando a terra, con gli occhi diventati gialli, le zanne scoperte e acuminate come pugnali, pronti a mordere. — Basta! — Tessa, accanto al fuoco, aveva afferrato un attizzatoio. Will, che stava soffocando, mise la mano sulla faccia del licantropo e lo spinse via. Woolsey urlò, e all’improvviso il peso scomparve dal petto del Nephilim; Magnus aveva sollevato il licantropo e lo aveva scaraventato lontano. Poi le mani dello stregone si chiusero a pugno sul dietro della giacca di Will, che si ritrovò a essere trascinato via dalla stanza mentre Woolsey lo seguiva con lo sguardo,

una mano sul viso, dove l’anello d’argento di Will gli aveva ferito lo zigomo. — Lasciami andare! — Will si dimenava, ma la presa dello stregone era d’acciaio. Magnus trascinò il Cacciatore lungo il corridoio, in una biblioteca in penombra. Will si divincolò proprio mentre lo stregone lo stava lasciando andare, e di conseguenza inciampò goffamente e andò a sbattere contro la parte posteriore di un divano di velluto rosso. — Non posso lasciare Tessa da sola con Woolsey… — La sua virtù non è certo in pericolo con lui — replicò Magnus, in tono secco. — Woolsey si comporterà bene, cosa che non posso certo dire di te. Will si girò lentamente, strofinandosi via il sangue dal viso. — Mi stai fulminando con lo sguardo. Sembri Church prima che morda. — Attaccare briga con il capo del Praetor Lupus… — Magnus scosse la testa. — Sai bene cosa ti farebbe il suo branco, se solo avesse un minimo pretesto. Cos’è, vuoi morire? — No — rispose Will, sorprendendo un po’ perfino se stesso. — Non so proprio perché io ti abbia aiutato. — Ti piacciono i casi disperati. Magnus fece due grandi passi attraverso la stanza e prese il viso di Will tra le lunghe dita, costringendolo a sollevare il mento. — Non sei Sydney Carton. A cosa ti servirà morire per James Carstairs, visto che sta morendo comunque? — Perché se lo salvo, ne vale la pena… — Dio! — Gli occhi di Magnus si socchiusero. — Di cosa potrebbe mai valere la pena? — Di avere perso tutto! — gridò Will. — Tessa! Magnus lasciò ricadere la mano dal viso del Nephilim. Indietreggiò di parecchi passi, quindi inspirò ed espirò adagio, come se stesse contando mentalmente fino a dieci. — Mi dispiace, per quello che ha detto Woolsey — disse infine. — Se Jem muore, non potrò stare con Tessa — affermò Will. — Sarebbe come se avessi aspettato che morisse, o se mi rallegrassi della sua morte. E non voglio essere quel tipo di persona. Non voglio approfittare della sua morte. Perciò deve vivere. — Abbassò il braccio con la manica insanguinata. — È l’unico modo perché tutto ciò possa significare qualcosa. Altrimenti è soltanto… — Sofferenza e dolore assurdi, inutili? Non credo che sarebbe d’aiuto se ti dicessi che così va la vita. I buoni soffrono, i cattivi prosperano, e tutto ciò che è mortale passa. — Voglio più di questo — dichiarò Will. — Tu hai fatto sì che volessi più di questo. Mi hai mostrato che ero maledetto solo perché avevo scelto di credermi tale. Mi hai detto che c’era una possibilità, un senso. E adesso vorresti girare le spalle a ciò che hai creato. Magnus rise brevemente. — Sei incorreggibile. — Questa l’ho già sentita. — Will si allontanò dal divano. — Mi aiuterai, allora? — Ti aiuterò. — Magnus infilò una mano nella giacca e ne trasse qualcosa che penzolava da una catenella, qualcosa da cui emanava una tenue luce rossa. — Prendila. — Mise in mano a Will una rossa pietra quadrata. Il Nephilim la guardò, confuso. — Ma… era di Camilla. — Gliel’avevo regalata io — disse Magnus con una smorfia amara. — Lo scorso mese mi ha restituito tutti i miei doni. Puoi benissimo prenderla. Avverte quando ci sono demoni nei paraggi. Potrebbe funzionare anche con le creazioni meccaniche di Mortmain. — Il vero amore non muore — disse Will traducendo l’iscrizione sul retro della pietra, alla luce

proveniente dal corridoio. — Non posso portarla, Magnus. È troppo graziosa per un uomo. — Anche tu lo sei. Va’ a casa e datti una pulita. Passerò da te non appena avrò delle informazioni. — Lo stregone rivolse a Will uno sguardo penetrante. — Nel frattempo, fa’ del tuo meglio per meritarti il mio aiuto. — Se vi avvicinate, vi dò questo attizzatoio in testa — stava dicendo Tessa brandendo l’attrezzo da caminetto tra lei e Woolsey Scott quasi fosse una spada. — Non ne dubito — replicò lui, guardandola malgrado tutto con un certo rispetto, mentre si passava un fazzoletto sul mento per ripulirlo dal sangue. Anche Will era coperto di sangue, suo e di Woolsey, e in quel momento era di certo in un’altra stanza con Magnus, e riempiva anche quella di sangue… si disse Tessa. Will non si preoccupava mai troppo della pulizia, tanto meno quando era in preda alle emozioni. — Vedo che avete cominciato a essere come loro, come i Cacciatori che sembrate adorare tanto — disse il licantropo. — Cosa vi ha spinto a fidanzarvi con uno di loro? Per giunta, con uno che sta già con un piede nella fossa? Tessa fu invasa dalla rabbia e considerò seriamente l’idea di dare l’attizzatoio in testa a Woolsey, che si avvicinasse o meno. Ma, quando aveva lottato con Will, il licantropo si era mosso in maniera incredibilmente rapida, e lei non pensava di avere grandi possibilità. — Non conoscete James Carstairs. Evitate di parlarne. — Lo amate, non è vero? — Woolsey riuscì a far sembrare la cosa sgradevole. — Ma amate anche Will. Tessa raggelò internamente. Sapeva che Magnus era al corrente dell’amore di Will per lei, ma l’idea che il sentimento con cui lo ricambiava le fosse scritto in faccia era troppo terrificante per prenderla in considerazione. — Non è vero. — Bugiarda — ribatté Woolsey. — Sul serio, che differenza fa se uno di loro muore? Avrete sempre un’ottima seconda scelta. Tessa pensò a Jem, alla forma del suo viso, ai suoi occhi chiusi mentre suonava il violino, alla curva della sua bocca quando sorrideva, alle sue dita allacciate delicatamente a quelle di lei, a ogni suo lineamento, a lei indicibilmente caro. — Se aveste due figli, direste che non ci sarebbe problema qualora uno di loro morisse, solo perché rimarrebbe comunque l’altro? — Si possono amare due figli. Ma nell’amore romantico si può dare il proprio cuore soltanto a un’altra persona — replicò Woolsey. — È questa la natura dell’eros, non è vero? Così ci dicono i romanzi, sebbene io non ne abbia una particolare esperienza. — Col tempo ho imparato una cosa sui romanzi — disse Tessa. — E cioè? — Non sono la realtà. Woolsey contrasse un sopracciglio. — Siete una strana persona. Direi quasi che riesco a vedere cosa vedono in voi quei ragazzi, ma… — Fece spallucce. La sua vestaglia gialla aveva un lungo strappo insanguinato. — Le donne sono una cosa che non ho mai capito. — Cos’è che trovate misterioso in loro, signore? — Fondamentalmente, non capisco che senso abbiano. — Be’, dovete pur aver avuto una madre. — Una donna mi ha partorito, sì — disse Woolsey, senza grande entusiasmo. — La ricordo poco.

— Ma senza di lei non esistereste, no? Per quanto possiate trovarci inutili, siamo più intelligenti, più determinate e più pazienti degli uomini. Gli uomini saranno anche più forti, ma sono le donne a resistere. — È questo che state facendo? Resistere? Senza dubbio una donna fidanzata dovrebbe essere più felice. — Gli occhi di Woolsey scrutarono Tessa. — Un cuore diviso contro se stesso va in rovina, no? Voi amate entrambi, e questo vi dilania. — Una casa — disse la ragazza. Woolsey sollevò un sopracciglio. — Come dite? — Una casa divisa contro se stessa va in rovina. Non un cuore. Forse dovreste evitare di fare citazioni, se non sapete farle in modo corretto. — E forse voi dovreste smetterla di autocommiserarvi — ribatté il licantropo. — La maggior parte delle persone è già fortunata ad avere un grande amore nella propria vita. Voi ne avete trovati due. — Detto da una persona che non ne ha nessuno… — Oh! — Woolsey indietreggiò, con la mano sul cuore, fingendo di svenire. — La colomba ha i denti. Benissimo, se non volete discutere di faccende personali, forse potremmo parlare di argomenti più generici. Della vostra natura? Magnus sembra convinto che abbiate del sangue stregonesco, ma io non se sono così sicuro. Credo che in voi potrebbe esserci del sangue di fata. Cos’è la magia del mutare forma se non una magia di illusione? E chi sono i maestri della magia e dell’illusione, se non i membri del Popolo Fatato? Tessa pensò alla fata dai capelli azzurri che alla festa di Benedict Lightwood aveva sostenuto di conoscere sua madre, e il respiro le si spezzò in gola. Prima che potesse dire un’altra parola al licantropo, Magnus e Will varcarono la porta. Il Nephilim spostò lo sguardo dalla ragazza a Woolsey e fece una breve risata. — Avevi proprio ragione, Magnus. Tessa non corre pericoli con lui. Mentre non si può certo dire il contrario. — Tesoro, metti giù l’attizzatoio — disse Magnus, allungando la mano. — Woolsey può essere terribile, ma ci sono modi migliori di tenerlo a bada. Con un ultimo sguardo truce al licantropo, Tessa porse l’attizzatoio a Magnus. Poi andò a recuperare i guanti – e Will il cappotto – e ci furono movimenti e voci indistinte. Tessa sentì Woolsey ridere. Non ci fece quasi caso; era troppo concentrata su Will. Era sicura già solo dall’espressione del suo viso che qualunque cosa lui e Magnus si fossero detti non aveva risolto il problema della droga di Jem. Sembrava sconvolto, e un po’ tetro; il sangue che gli macchiava gli zigomi non faceva che rendere più sbalorditivo l’azzurro dei suoi occhi. Magnus li accompagnò all’ingresso, dove l’aria fredda colpì Tessa come un’onda. La ragazza si infilò i guanti e fece un cenno di saluto allo stregone, che chiuse la porta, lasciandoli fuori, nella notte. Il Tamigi scintillava oltre gli alberi, la carreggiata e l’Embankment, e i lampioni a gas sul Battersea Bridge si riflettevano nell’acqua, un notturno in blu e oro. Sotto gli alberi, oltre il cancello, si intravedeva l’ombra della carrozza. Sopra di loro, la luna appariva a sprazzi tra i banchi di nuvole grigie in movimento. Will era assolutamente immobile. — Tessa… — La sua voce suonò insolita, strana e soffocata. La ragazza scese in fretta alcuni gradini e gli si mise accanto, alzando lo sguardo sul suo viso, che era mutevole come la luce lunare; non vi aveva mai scorto un’espressione così immobile. — Ha detto

che ci aiuterà? — Ci proverà, ma… il modo in cui mi guardava… — Will scosse il capo. — Era dispiaciuto per me, Tess. Questo significa che non c’è speranza, temo. Se perfino Magnus pensa che i suoi sforzi siano destinati a fallire, non c’è altro che io possa fare, vero? Tessa gli posò una mano sul braccio. Le sembrava strano stargli così vicino, la sensazione e la presenza familiare di lui, dopo che per mesi si erano evitati a vicenda, si erano a malapena rivolti la parola. Lui non aveva voluto nemmeno incrociare il suo sguardo. E invece era lì, odoroso di sapone, di pioggia, di sangue… — Hai fatto talmente tanto, Will. Magnus proverà ad aiutarci e noi continueremo a cercare, e magari qualcosa verrà fuori. Non puoi abbandonare la speranza. — Lo so. Eppure ho il cuore pieno di terrore, come se fosse l’ultima ora della mia vita. Ho già provato la disperazione, Tess, ma mai una paura simile. Eppure sapevo… ho sempre saputo… Che Jem sarebbe morto. Tessa non parlò. Rimase tra loro, non detto. — Chi sono? — sussurrò Will. — Per anni ho finto di essere diverso da quello che ero, e poi mi sono compiaciuto di poter tornare al mio vero me stesso, solo per scoprire che non c’era nessun me stesso a cui tornare. Sono stato un bambino come tanti altri, poi un uomo non troppo nobile, e ora non so più essere né l’uno né l’altro. Non so cosa sono e, quando Jem se ne sarà andato, non ci sarà nessuno a mostrarmelo. — Io so chi sei. Sei Will Herondale — Tessa non disse altro, e poi all’improvviso sentì le sue braccia cingerla, sentì la sua testa sulla spalla. All’inizio si irrigidì per puro stupore, quindi restituì con cautela l’abbraccio, tenendolo mentre tremava. Non piangeva; era qualcos’altro, una sorta di parossismo, quasi stesse soffocando. Tessa sapeva che non avrebbe dovuto toccarlo, eppure non riusciva a immaginare che Jem avrebbe voluto che respingesse Will in un momento simile. Per lui, poteva anche non essere come Jem, si disse Tessa, poteva non essere la bussola che puntava sempre a nord, ma se non altro era in grado di rendergli il fardello più leggero da portare. — Vuoi questa tabacchiera piuttosto orribile che mi hanno regalato? È d’argento, perciò non posso toccarla — disse Woolsey. Magnus, in piedi davanti al bovindo del soggiorno, con la tenda aperta quel tanto che bastava per vedere Will e Tessa sui gradini d’ingresso, aggrappati l’uno all’altra come se ne andasse delle loro vite, mugugnò vagamente in risposta. Woolsey alzò gli occhi al cielo. — Sono ancora là fuori, eh? — Sì. — Ingarbugliate, tutte queste storie d’amore romantiche — osservò Woolsey. — Molto meglio fare come noi. Solo il lato fisico. Will e Tessa si erano finalmente separati, ma le loro mani erano ancora unite. Sembrava che lei lo stesse convincendo a scendere i gradini. — Credi che ti saresti sposato, se non avessi avuto dei nipoti che tramandassero il tuo nome? — domandò Magnus. — Suppongo che avrei dovuto farlo. Dio per l’Inghilterra, re Enrico e san Giorgio, e per il Praetor Lupus! — Woolsey rise. Si era versato un bicchiere di vino rosso dalla caraffa sulla credenza, e lo stava agitando, guardando nelle sue profondità cangianti. — Hai dato a Will la collana di Camille… — Come fai a saperlo? — La mente di Magnus partecipava solo a metà alla conversazione; l’altra

metà guardava Will e Tessa che si avviavano verso la carrozza. In qualche modo, nonostante la differenza di altezza e costituzione, dei due sembrava lei quella che dava sostegno all’altro. — La portavi quando sei uscito dalla stanza con lui, ma non quando sei tornato. Non gli hai detto quanto vale, vero? Che porta un rubino che costerebbe più dell’Istituto? — Non la volevo — disse Magnus. — Un tragico ricordo di un amore perduto? — Non stava bene con la mia carnagione. — Lo stregone vide Will e Tessa salire nella carrozza, e il cocchiere far schioccare le redini. — Credi che ci sia una possibilità per lui di essere felice? Woolsey fece un profondo sospiro e mise giù il bicchiere. — E c’è una possibilità che tu sia felice, se lui non lo è? Magnus non rispose. — Ne sei innamorato? — chiese il licantropo, per pura curiosità, non per gelosia. — No, è qualcos’altro. Sento di doverglielo — rispose lo stregone. — Dicono che quando salvi una vita, ne sei responsabile. Io mi sento responsabile per quel ragazzo. Se non troverà mai la felicità, sentirò di averlo tradito. Se non potrà avere la ragazza che vuole, sentirò di averlo tradito. Se non potrò fargli restare accanto il suo parabatai, sentirò di averlo tradito. — Allora lo tradirai — sentenziò Woolsey. — Nel frattempo, mentre te ne stai col muso lungo alla ricerca dello yin fen, credo che me ne andrò un po’ in giro, in campagna. D’inverno la città mi deprime. — Fa’ come vuoi. — Magnus lasciò ricadere la tenda, nascondendo alla vista la carrozza che si allontanava. Al Console Josiah Wayland Dall’Inquisitore Victor Whitelaw Josiah, mi ha profondamente preoccupato venire a conoscenza della vostra lettera al Consiglio riguardo Charlotte Branwell. Essendo noi vecchie conoscenze, avevo sperato che magari poteste parlare più liberamente a me di quanto non abbiate fatto a loro. C’è qualche problema legato a Charlotte che vi preoccupa? Suo padre era un caro amico di entrambi e, da quanto mi consta, la figlia non ha mai commesso un’azione disonorevole.

Il vostro preoccupato, Victor Whitelaw

6 CHE L’OSCURITÀ…

Che l’Amore si aggrappi al Dolore perché non siano sommersi, Che l’oscurità conservi la sua lucentezza corvina: Ah, è più dolce essere ebbri per la perdita, Danzare con la morte, battere i piedi a terra. Alfred, Lord Tennyson, In memoriam A.H.H. All’Inquisitore Victor Whitelaw Dal Console Josiah Wayland È con una certa trepidazione che vi scrivo questa lettera, Victor, nonostante ci conosciamo ormai da vari anni. Mi sento un po’ come la profetessa Cassandra, condannata a conoscere la verità e a non essere creduta da nessuno. Forse è il mio peccato di presunzione aver messo Charlotte nella carica che ora occupa e dalla quale mi tormenta. Essa non fa che minare la mia autorità, e l’instabilità che temo provocherà nell’Enclave è grave. Quello che avrebbe dovuto essere un disastro per lei – la rivelazione che aveva accolto delle spie sotto il suo tetto, la partecipazione della giovane Lovelace ai piani del Magister – si è trasformato in un trionfo. L’Enclave londinese acclama gli abitanti dell’Istituto come coloro che hanno scoperto il Magister e lo hanno cacciato da Londra. Il fatto che non si sia fatto vedere o sentire nei mesi scorsi è stato ascritto al buon discernimento di Charlotte e non è stato ritenuto, come io sospetto che sia in realtà, una ritirata tattica per riorganizzarsi. Sebbene io sia il Console e guidi l’Enclave, ho decisamente l’impressione che questa sarà ricordata come l’epoca di Charlotte Branwell, e che il mio retaggio andrà perduto… All’Inquisitore Victor Whitelaw Dal Console Josiah Wayland Victor, pur apprezzando molto la vostra preoccupazione, non ho alcuna ansia nei riguardi di Charlotte Branwell che non abbia già espresso nella mia lettera al Consiglio.

Mi auguro che in questi tempi inquieti possiate trovare coraggio nella forza dell’Angelo. Josiah Wayland All’inizio la colazione filò liscia come l’olio. Gideon e Gabriel scesero insieme, entrambi mogi, Gabriel parlando a malapena, se non per chiedere a Henry di passargli il burro. Cecily si era seduta all’altro capo del tavolo e mangiava leggendo un libro; Tessa aveva una gran voglia di vederne il titolo, ma Cecily aveva poggiato il volume con una tale angolazione da rendere la cosa impossibile. Will aveva sotto gli occhi le ombre scure dell’insonnia, un ricordo della loro notte movimentata. Quanto a Tessa, frugava senza entusiasmo nel proprio kedgeree, restando in silenzio finché la porta non si aprì e Jem non entrò nella stanza. Non sembrava particolarmente malato, solo stanco e pallido. Si lasciò scivolare con grazia nel posto accanto a Tessa. — Buongiorno. La ragazza alzò lo sguardo, sorpresa, con un moto di gioia. — Sembra che tu stia molto meglio, Jemmy — osservò Charlotte, sorridendo. Jemmy? Tessa lo guardò divertita. Jem fece spallucce e le rivolse un sorriso imbarazzato. Lei guardò dall’altra parte del tavolo e colse Will che li osservava. Il suo sguardo sfiorò quello di lui, solo per un attimo, una domanda negli occhi. C’era una possibilità che in qualche modo Will avesse rimpinguato la scorta di yin fen nel lasso di tempo tra il loro ritorno a casa e la mattina? No, sembrava sorpreso quanto lei. — È proprio così — disse Jem. — I Fratelli Silenti mi sono stati di grande aiuto. — Allungò la mano per versarsi una tazza di tè, e Tessa scorse le ossa e i tendini muoversi nel suo polso esile, una vista penosa. Tessa allungò la mano sotto il tavolo e Jem gliela strinse. Le sue dita sottili circondarono quelle di lei in maniera rassicurante. Dalla cucina giunse la voce di Bridget: Freddo soffia il vento questa notte, tesoro, Fredde sono le gocce di pioggia. Il primo amore che io abbia mai avuto È stato ucciso nella foresta frondosa. Farò per il mio tesoro Ciò che una giovane donna può fare: Siederò e piangerò sulla sua tomba Dodici mesi e un giorno. — Per l’Angelo, è deprimente! — esclamò Henry, abbassando il giornale sul piatto e inzuppandone il bordo nel tuorlo d’uovo. — Solo cuori spezzati, morte e amori non corrisposti. Charlotte aprì la bocca come per obiettare, poi la richiuse. — Be’, è quello di cui parla la maggior parte delle canzoni — disse Will. — L’amore corrisposto è perfetto, ma non ispira grandi composizioni. Jem alzò lo sguardo ma, prima che potesse profferire parola, l’Istituto fu scosso da un forte rimbombo. Ormai Tessa conosceva abbastanza quel posto per sapere che era il suono del campanello. Le teste di tutti si girarono nello stesso tempo verso Charlotte, all’altro capo del tavolo,

quasi fossero montate su molle. La donna, trasalendo, depose la forchetta. — C’è qualcosa di cui avevo avuto intenzione di parlarvi, ma… — Signora? — Sophie scivolò nella stanza, con un vassoio in mano. — Il Console Wayland è di sotto e chiede di parlarvi. Tessa non poté fare a meno di notare che, sebbene Gideon la stesse fissando, lei sembrava evitarne deliberatamente lo sguardo, con le guance che si tingevano lievemente di rosa. Charlotte prese dal vassoio il foglio piegato, gli dette uno sguardo e sospirò. — Benissimo. Fallo salire. Sophie sparì in un turbinio di gonne. — Charlotte? — Henry sembrava confuso. — Che succede? — Esatto! — Will lasciò cadere rumorosamente le posate nel piatto. — Il Console che piomba qui nel bel mezzo della colazione? Cos’altro ci aspetta? Un tè con l’Inquisitore? Un picnic con i Fratelli Silenti? — Pasticci d’anatra nel parco — disse Jem sottovoce, e scambiò un sorriso con Will, solo un guizzo, prima che la porta si aprisse e il Console entrasse tutto impettito. Wayland era un uomo imponente, con un ampio torace e grosse braccia; le vesti del rango di Console sembravano sempre penzolargli un po’ goffamente dalle larghe spalle. Aveva la barba bionda come un vichingo, e in quel momento la sua espressione era burrascosa. — Charlotte, sono qui per parlarvi di Benedict Lightwood — esordì, senza tanti preamboli. Si sentì un lieve fruscio; le dita di Gabriel si erano serrate intorno alla tovaglia. Gideon poggiò delicatamente una mano sul polso del fratello, per calmarlo Il Console aveva già posato lo sguardo su di loro. — Gabriel, pensavo che avresti preferito andare dai Blackthorn con tua sorella. Le dita di Gabriel si strinsero sulla tazza di tè. — Sono piuttosto sconvolti dal dolore per Rupert. Ho creduto bene che non fosse il caso di intromettermi. — Be’, tu sei in lutto per tuo padre, no? — replicò il Console. — Si dice che un dolore condiviso sia un dolore dimezzato. Gideon lanciò uno sguardo preoccupato al fratello. — Console… — Ma forse potrebbe essere piuttosto imbarazzante vivere sotto lo stesso tetto con tua sorella, considerando che ha presentato una denuncia di omicidio contro di te. Gabriel fece un verso come se gli avessero buttato addosso dell’acqua bollente. Gideon gettò via il tovagliolo e si alzò. — Tatiana ha…? — Mi hai sentito — disse il Console. — Non è stato un omicidio — dichiarò Jem. — Questo è quello che dici tu — ribatté Wayland. — Sono stato informato altrimenti. — Siete stato anche informato che Benedict si era trasformato in un verme gigantesco? — chiese Will. Gabriel lo guardò sorpreso, come se non si fosse aspettato di essere difeso da lui. — Will, per favore — disse Charlotte. — Console, ieri vi ho notificato che Benedict Lightwood era stato trovato all’ultimo stadio dell’astriola… — Mi avete detto che c’è stato uno scontro, e che è rimasto ucciso — replicò il Console. — Ma, da quanto mi si riferisce, vengo a sapere che era malato di sifilide, e che di conseguenza gli è stata

data la caccia ed è stato ucciso, sebbene non opponesse nessuna resistenza. Will, con gli occhi che brillavano in maniera sospetta, aprì la bocca per ribattere. Jem allungò una mano e gliela tappò. — Non riesco a capire… — disse, parlando al di sopra delle proteste soffocate dell’amico. — Come potete sapere che Benedict Lightwood è morto e non conoscere la modalità della sua morte. Se non si è potuto trovare alcun corpo, è stato perché ormai era diventato più demone che uomo, e quando è stato ucciso è scomparso, come fanno i demoni. Ma i servi spariti… la morte del marito di Tatiana... Il Console aveva un’aria esausta. — Tatiana Blackthorn sostiene che un gruppo di Cacciatori venuti dall’Istituto ha assassinato suo padre, e che Rupert è rimasto ucciso nella zuffa. — Non ha accennato al fatto che suo padre aveva divorato suo marito? — chiese Henry, alzando finalmente lo sguardo dal giornale. — Oh, sì. L’ha divorato. Abbiamo trovato in giardino il suo stivale insanguinato. C’erano sopra impronte di denti. Mi piacerebbe proprio sapere come si sia potuto trattare di un incidente. — Credo che possa essere considerato un modo di opporre resistenza — disse Will. — Divorare il proprio genero, intendo. Anche se suppongo che in tutte le famiglie ci siano dei litigi. — Josiah, non starete insinuando sul serio che il verme… che Benedict Lightwood avrebbe dovuto essere domato e bloccato? — sbottò Charlotte. — Era agli ultimi stadi della sifilide! Era impazzito e si era trasformato in un mostruoso verme! — Potrebbe anche essersi trasformato in verme e poi essere impazzito — osservò Will, in tono diplomatico. — Non possiamo esserne certi al cento per cento. — Tatiana è profondamente sconvolta — disse il Console. — Sta prendendo in considerazione l’idea di chiedere un risarcimento… — In tal caso, lo pagherò. — Era stato Gabriel a parlare, dopo avere allontanato la sedia dal tavolo ed essersi alzato. — Se lo desidera, darò alla mia ridicola sorella il mio stipendio finché vivrò, ma non ammetterò mai di aver agito da criminale, né che l’abbiano fatto gli altri. Qualunque cosa fosse, non era più mio padre. Calò il silenzio. Neppure il Console sembrò avere la parola pronta. Cecily aveva messo giù il libro e spostava attentamente lo sguardo da Gabriel a Wayland. — Chiedo scusa, Console, ma qualunque cosa vi dica Tatiana, lei non sa come stanno veramente le cose — disse Gabriel. — Soltanto io ero in casa con mio padre, quando si è ammalato. Ero solo con lui quando nel corso delle due settimane successive è via via impazzito. Alla fine sono venuto qui; ho chiesto aiuto a mio fratello. Charlotte mi ha gentilmente accordato quello dei suoi Cacciatori. Prima che arrivassimo a Casa Lightwood, la cosa che era stata mio padre aveva fatto a pezzi il marito di mia sorella. Vi assicuro, Console, che non c’era modo di salvare mio padre. Dovevamo lottare per le nostre vite. — E allora perché Tatiana dovrebbe…? — Perché si sente umiliata — affermò Tessa. Erano le prime parole che pronunciava da quando il Console era entrato nella stanza. — Me l’ha confessato. Credeva che sarebbe stato rovinoso per il nome della famiglia, se si fosse saputo della sifilide demoniaca. Penso che stia cercando di presentare una specie di resoconto alternativo, nella speranza che lo ripetiate al Consiglio. Ma non dice la verità. — Davvero, Console… — disse Gideon. — Cosa ha più senso? Che tutti noi siamo impazziti e abbiamo ucciso mio padre, e che i suoi figli vogliano nasconderlo, o che Tatiana menta? Mia sorella

non riflette mai sulle cose, lo sapete. Gabriel aveva appoggiato le mani sullo schienale della sedia del fratello. — Se mi credete capace di commettere così facilmente un parricidio, sentitevi libero di portarmi nella Città Silente per essere interrogato. — Probabilmente sarebbe la procedura più sensata — disse Wayland. Cecily depose la tazza di tè con un colpo violento che fece sussultare tutto quelli che erano seduti a tavola. — Non è giusto! Sta dicendo la verità, come tutti noi. Come potete non credere a tutto ciò? Il Console la misurò con un lungo sguardo, quindi si rivolse di nuovo a Charlotte. — Vi aspettate la mia fiducia? Eppure mi nascondete le vostre azioni. Le azioni hanno delle conseguenze, Charlotte. — Josiah, vi ho informato di cos’è successo a Casa Lightwood non appena tutti sono tornati e mi sono assicurata che stavano bene… — Avreste dovuto dirmelo prima — replicò il Console. — Nel momento in cui è arrivato Gabriel. Non era una missione di routine. Stando così le cose, vi siete messa in una situazione in cui devo difendervi, sebbene abbiate disobbedito al protocollo e autorizzato questa missione senza l’approvazione del Consiglio. — Non c’è stato il tempo… — Basta! — disse il Console, in un tono che lasciava intendere che non bastava affatto. — Gideon e Gabriel, verrete con me nella Città Silente per essere interrogati. — Charlotte fece per protestare, ma Wayland sollevò una mano. — Far scagionare Gabriel e Gideon dai Fratelli è vantaggioso; eviterà qualsiasi imbroglio e mi consentirà di far respingere in fretta la richiesta di risarcimento di Tatiana. — Il Console si rivolse ai fratelli Lightwood. — Scendete e aspettatemi accanto alla mia carrozza. Andremo tutti e tre nella Città Silente. Quando i Fratelli avranno finito con voi, se non troveranno nulla di interessante, tornerete qui. — Se non troveranno nulla — mormorò Gideon, in tono disgustato. Prese suo fratello per le spalle e lo guidò fuori dalla stanza. Mentre chiudeva la porta dietro di loro, Tessa notò qualcosa scintillargli sulla mano: portava di nuovo l’anello dei Lightwood. — Benissimo — disse il Console, scagliandosi contro Charlotte. — Perché non mi avete informato non appena i vostri Cacciatori sono rientrati e vi hanno detto che Benedict Lightwood era morto? Charlotte fissò lo sguardo sul tè. Aveva la bocca serrata in una linea risoluta. — Volevo proteggere i ragazzi. Volevo che avessero qualche momento di pace e di quiete. Un po’ di respiro, dopo aver visto il padre morire sotto i loro occhi, prima che voi cominciaste a fare domande! — Ma non è tutto — continuò il Console, ignorando quelle parole. — I libri e le carte di Benedict… Tatiana ce ne ha parlato. Abbiamo perquisito la casa, ma i diari sono spariti, la sua scrivania è vuota. Questa non è la vostra indagine, Charlotte; quelle carte appartengono all’Enclave. — Che cosa cercate in quelle carte? — chiese Henry, togliendo il giornale dal piatto. Sembrava voler dare a vedere di essere disinteressato alla risposta, ma nei suoi occhi c’era un balenio gelido che smentiva l’apparente disinteresse. — Informazioni sui rapporti di Benedict con Mortmain. Informazioni su altri membri dell’Enclave che possano aver avuto rapporti con Mortmain. Indizi su dove si trova Mortmain… — E sui suoi congegni? — chiese Henry. Il Console si fermò a metà frase. — Congegni? — I Congegni Infernali, il suo esercito di automi. È un esercito creato con l’intento di distruggere i

Cacciatori, e intende usarlo contro di noi — disse Charlotte, che sembrava essersi ripresa. — In effetti, se bisogna credere agli appunti sempre più incomprensibili di Benedict, quel momento arriverà quanto prima. — Dunque avete davvero preso i suoi appunti e i suoi diari. L’Inquisitore ne era convinto. — Il Console si strofinò gli occhi con il dorso della mano. — Certo che li ho presi. E ve li darò. Non ho mai pensato di fare altrimenti. — Pienamente padrona di sé, Charlotte prese il piccolo campanello d’argento accanto al suo piatto e lo suonò; quando Sophie arrivò, le sussurrò qualcosa all’orecchio e la ragazza, con un inchino al Console, scivolò fuori della stanza. — Avreste dovuto lasciare le carte dov’erano, Charlotte. È la procedura — disse Wayland. — Non c’era ragione che non le vedessi… — Dovete fidarvi del mio giudizio, e di quello della Legge. Proteggere i giovani Lightwood non è una priorità più alta che scoprire dove si trova Mortmain. Non siete a capo di tutto l’Enclave, Charlotte, fate solo parte di quello londinese, e dovete rendere conto a me. È chiaro? — Sì, Console — disse Charlotte mentre Sophie rientrava nella stanza con un pacco di carte, che porse in silenzio a Wayland. — La prossima volta che uno dei nostri stimati membri si trasformerà in un verme demoniaco e mangerà un altro stimato membro, vi informeremo all’istante. Le mascelle del Console si irrigidirono. — Vostro padre era mio amico. Mi fidavo di lui, e per questa ragione mi sono fidato di voi. Non fatemi pentire di avervi nominata a capo dell’Istituto di Londra, o di avervi appoggiata contro Benedict Lightwood, quando ha contestato la vostra posizione. — Voi eravate d’accordo con Benedict! — gridò Charlotte. — Quando ha proposto che mi venissero concesse due sole settimane per portare a termine un compito impossibile, avete acconsentito. Non avete detto una sola parola in mia difesa. Se non fossi una donna, non vi sareste comportato così! — Se non foste una donna, non avrei dovuto farlo. — Con tali parole, il Console se ne andò in un turbine di vesti scure e rune che scintillavano debolmente. Non appena la porta si fu richiusa alle sue spalle, Will sibilò: — Come hai potuto dargli quelle carte? Ne abbiamo bisogno… Charlotte, che si era lasciata cadere nuovamente sulla sedia, gli occhi semichiusi, disse: — Sono stata alzata tutta la notte a copiare le parti più interessanti. Che perlopiù erano… — Stupidaggini? — suggerì Jem. — Pornografia? — disse all’unisono Will, e aggiunse: — O entrambe. Non avete mai sentito parlare di stupidaggini pornografiche? Jem sorrise. Charlotte si prese il viso tra le mani. — Più la prima cosa che la seconda, se volete saperlo. Ho copiato tutto quello che ho potuto, con l’aiuto inestimabile di Sophie. — Poi alzò gli occhi. — Will, ricordalo. Non è più affar nostro. Mortmain è un problema dell’Enclave, o almeno è così che lo considerano. C’è stato un tempo in cui eravamo particolarmente responsabili per Mortmain, ma… — Abbiamo la responsabilità di proteggere Tessa! — affermò Will, con una durezza che sorprese perfino lei. Quando si rese conto che tutti lo avevano guardato stupiti, il ragazzo impallidì leggermente. — Mortmain vuole ancora Tessa. Non possiamo pensare che vi abbia rinunciato. Forse verrà con gli automi, forse verrà con la stregoneria, il fuoco e il tradimento, ma verrà. — La proteggeremo — disse Charlotte. — Non devi certo ricordarcelo, Will. È una dei nostri. E

visto che parliamo dei nostri… — La donna abbassò lo sguardo sul piatto. — Jessamine tornerà tra noi domani. — Cosa? — Will rovesciò la tazza, inzuppando la tovaglia di fondi di tè. Un vocio percorse la tavola. Solo Cecily si limitò a sgranare gli occhi, confusa. Quanto a Tessa, dopo aver inspirato bruscamente, rimase in silenzio; stava ricordando l’ultima volta che aveva visto Jessamine, nella Città Silente, pallida e con gli occhi rossi, in lacrime e terrorizzata… — Ha provato a tradirci, Charlotte — disse Will. — E tu le permetti di tornare come se niente fosse? — Non ha altra famiglia, i suoi beni sono stati confiscati dall’Enclave, e non è in condizione di mantenersi. Due mesi di interrogatori nella Città di Ossa l’hanno resa quasi folle. Non credo che sarà un pericolo per nessuno di noi. — Neanche prima pensavamo che lo sarebbe stata — replicò Jem, in un tono più duro di quanto Tessa si sarebbe aspettata da lui. — Eppure la sua condotta ha fatto quasi cadere Tessa nelle mani di Mortmain e noialtri in disgrazia. Charlotte scosse la testa. — Bisogna essere pietosi e compassionevoli. Jessamine non è più quello che era… come ognuno di voi saprebbe, se le avesse fatto visita nella Città Silente. — Non ho alcuna voglia di fare visita ai traditori — affermò Will, in tono gelido. — Farfugliava ancora che Mortmain è a Idris? — Sì… per questo alla fine i Fratelli Silenti hanno gettato la spugna; non riuscivano a cavarne nulla di sensato. Non ha segreti, non sa nulla di utile. E lei lo capisce. Si sente inutile. Se solo potessi metterti nei suoi panni… — Oh, non dubito che davanti a te faccia la commedia, Charlotte, piangendo e strappandosi i vestiti… — Be’, se si strappa i vestiti… — disse Jem con un breve sorriso al parabatai. — Sai quanto Jessamine tenga ai suoi vestiti. Il sorriso di risposta di Will fu riluttante, ma sincero. Charlotte scorse l’occasione favorevole e la sfruttò. — Non la riconoscerete neppure quando la vedrete, ve l’assicuro. Aspettate una settimana, solo una settimana, e se nessuno di voi potrà sopportare la sua presenza farò in modo che venga trasferita a Idris. — La donna allontanò il piatto. — E ora bisogna esaminare le mie copie delle carte di Benedict. Chi vuole aiutarmi? Al Console Josiah Wayland Dal Consiglio Caro signore, finché non abbiamo ricevuto la vostra ultima lettera, pensavamo che la nostra divergenza di vedute riguardo a Charlotte Branwell fosse solo una questione di opinioni. Voi potete anche non aver dato esplicita autorizzazione a trasferire Jessamine Lovelace all’Istituto, ma l’approvazione è stata concessa dalla Fratellanza, che è investita di certe incombenze. Ci è sembrata un’azione degna di un cuore generoso permettere che la ragazza, nonostante le sue malefatte, tornasse nella sola casa che abbia mai conosciuto. Quanto a Woolsey Scott, è il capo del Praetor Lupus, un’organizzazione che consideriamo nostra alleata. L’insinuazione che la signora Branwell possa avere prestato orecchio a coloro che non hanno

a cuore gli interessi dell’Enclave è profondamente inquietante. In mancanza di prove, tuttavia, siamo restii a prendere provvedimenti basandoci solo su tali informazioni. Nel nome di Raziel, I membri del Consiglio dei Nephilim La carrozza del Console, con il simbolo dell’Enclave sulla fiancata, era tirata da un’impeccabile coppia di stalloni grigi. Era una giornata umida, cadeva una lieve pioggerella; il cocchiere sedeva sprofondato a cassetta, quasi interamente nascosto da un cappello di tela cerata e dal mantello. Con espressione accigliata, il Console fece salire Gabriel e Gideon nella carrozza, vi montò egli stesso e si chiuse lo sportello alle spalle. Mentre il veicolo si allontanava dalla chiesa ondeggiando, Gabriel si girò a guardare dal finestrino. Sentiva una pressione bruciante in fondo agli occhi e allo stomaco. Andava e veniva dal giorno prima, a volte assalendolo con tale violenza da fargli temere di essere malato. Un verme gigantesco… l’ultimo stadio dell’astriola… la sifilide demoniaca. La prima volta che Charlotte e gli altri avevano mosso le loro accuse al padre, non aveva voluto crederci. La defezione di Gideon gli era sembrata una follia, un tradimento così mostruoso da potersi spiegare solo con la pazzia. Benedict aveva promesso che Gideon avrebbe riconsiderato le sue azioni, che sarebbe tornato ad aiutarli nella gestione della casa e nei doveri che implicava essere un Lightwood. Ma Gideon non era tornato e, via via che le giornate si facevano più corte e più scure, e lui aveva visto sempre meno suo padre, Gabriel aveva cominciato a farsi domande e ad avere paura. Gli è stata data la caccia ed è stato ucciso. Gabriel si rigirava quelle parole nella mente, ma non avevano alcun senso. Lui aveva ucciso un mostro, com’era stato addestrato a fare, ma quel mostro non era suo padre. Suo padre era ancora vivo da qualche parte, e da un momento all’altro Gabriel avrebbe guardato fuori dalla finestra di casa e lo avrebbe visto camminare a grandi passi sul viale, con il lungo cappotto grigio agitato dal vento, le linee marcate e nette del suo profilo stagliate contro il cielo. — Gabriel… — La voce di Gideon si fece strada attraverso la nebbia dei ricordi e delle fantasticherie. — Il Console ti ha rivolto una domanda. Gabriel alzò lo sguardo. Wayland lo stava fissando, con un’espressione di attesa negli occhi scuri. La carrozza percorreva Fleet Street, invasa da una folla di venditori ambulanti di frutta che correvano qua e là nel traffico. — Ti ho chiesto come trovi l’ospitalità dell’Istituto — disse il Console. Gabriel riusciva a distinguere ben poco attraverso la nebbia degli ultimi giorni. Charlotte che lo abbracciava. Gideon che gli lavava le mani sporche di sangue. Il viso di Cecily, come un fiore sgargiante. — Discreta, suppongo — rispose. — Ma non è casa mia. — Be’, Casa Lightwood è magnifica — osservò il Console. — Costruita su sangue e spoglie, naturalmente. Gabriel lo fissò senza capire. Gideon guardava fuori dal finestrino, con l’espressione lievemente disgustata. — Credevo che voleste parlarci di Tatiana. — Conosco Tatiana — disse il Console. — Non ha preso né l’intelligenza di vostro padre né la gentilezza di vostra madre. Le è andata decisamente male, temo. La sua richiesta di risarcimento

verrà respinta, naturalmente. Gideon si girò sul sedile e fissò Wayland, con aria incredula. — Se date così poco credito al suo resoconto, perché siamo qui? — Per poter fare due chiacchiere in privato — rispose il Console. — Sapete, quando ho affidato l’Istituto a Charlotte pensavo che un tocco femminile avrebbe giovato a quel posto. Granville Fairchild era uno degli uomini più rigidi che io abbia conosciuto; sebbene lo dirigesse secondo la Legge, l’Istituto era un posto freddo, poco accogliente. Qui a Londra, la città più grande del mondo, un Cacciatore non si sentiva a casa. — Wayland scrollò le spalle con un movimento disinvolto. — Pensavo che affidare l’amministrazione del posto a Charlotte potesse essere d’aiuto. — A Charlotte e a Henry — lo corresse Gideon. — Henry è una nullità — replicò il Console. — Sappiamo tutti che, come suol dirsi, in quel matrimonio è la moglie a portare i pantaloni. Henry non avrebbe mai dovuto interferire, e in effetti non lo fa. Ma non avrebbe dovuto farlo neanche Charlotte. Avrebbe dovuto essere docile e obbedire ai miei desideri. In questo mi ha profondamente deluso. — L’avete spalleggiata contro nostro padre — dichiarò Gabriel, e subito se ne pentì. Fulminato da un’occhiata del fratello, giunse strettamente le mani inguantate sulle ginocchia, serrando le labbra. Il Console sollevò le sopracciglia. — Tuo padre sarebbe stato docile? Tra i due mali, ho scelto il minore. Speravo ancora di controllarla. Ma ora… — Signore — lo interruppe Gideon, nel suo tono più garbato. — Perché ci dite queste cose? — Ah… — fece Wayland, gettando uno sguardo fuori dal finestrino striato di pioggia. — Eccoci. — Picchiò sul vetro. — Richard, ferma davanti alle Argent Rooms. Gabriel lanciò uno sguardo al fratello, che fece spallucce, sconcertato. Le Argent Rooms erano un noto teatro di varietà e club maschile a Piccadilly Circus. Il luogo era frequentato da signore dalla cattiva reputazione; correva voce che l’impresa appartenesse ai Nascosti e che alcune sere gli “spettacoli di magia” proponessero vera magia. — Ero solito venire qui con vostro padre — disse il Console, una volta che furono tutti e tre sul marciapiede. Gideon e Gabriel osservavano attraverso la pioggerellina la facciata in stile italiano alquanto pacchiana, chiaramente sovrapposta agli edifici più modesti che vi si trovavano in precedenza. Presentava una tripla loggia e una tinta azzurra piuttosto chiassosa. — Una volta la polizia ha ritirato la licenza all’Alhambra perché la direzione aveva permesso che nei loro locali si ballasse il can-can. Ma, in fondo, l’Alhambra era gestito da mondani. Vogliamo entrare? — Il tono di Wayland non lasciava adito a obiezioni. I due fratelli seguirono il Console attraverso l’arcata dell’ingresso, dove avvenne un passaggio di denaro e fu acquistato un biglietto a testa. Gabriel guardò il suo con una certa confusione. Aveva l’aspetto di una pubblicità e prometteva IL MIGLIOR DIVERTIMENTO DI LONDRA ! — Esibizioni di forza — lesse ad alta voce mentre percorrevano un lungo corridoio. — Animali ammaestrati, donne cannone, acrobati, numeri da circo e cantanti comici. Gideon borbottava sottovoce. — E contorsionisti — aggiunse Gabriel. — A quanto pare, c’è una donna che è capace di mettersi un piede sulla… — Per l’Angelo, questo posto non si distingue in nulla da un varietà di infimo ordine — commentò

Gideon. — Non guardare nulla a meno che non te ne dia il permesso. Gabriel alzò gli occhi al cielo mentre il fratello gli afferrava vigorosamente il braccio e lo spingeva in quella che sembrava la sala principale, un locale imponente sul cui soffitto erano dipinte riproduzioni dei grandi maestri italiani, compresa una Nascita di Venere di Botticelli, ormai piuttosto malridotta e sporca di fumo. Un lampadario a gas pendeva da un tripudio di stucchi dorati, diffondendo nella sala una luce giallastra. Lungo le pareti erano allineate panche rivestite di velluto sulle quali si accalcavano sagome scure, gentiluomini circondati da signore dai vestiti troppo chiassosi e dalle risate troppo acute. La musica si riversava dal palcoscenico in fondo alla sala. Il Console si avviò verso di esso, sorridendo. Una donna in frac e cilindro andava su e giù per il palco con fare seducente, cantando una canzone intitolata It’s Naughty, but It’s Nice . Quando si girò, i suoi occhi lanciarono bagliori verdi alla luce del lampadario. Una licantropa, pensò Gabriel. — Aspettatemi qui un momento, ragazzi — disse Wayland, e scomparve tra la folla. — Che bellezza — bofonchiò Gideon, e tirò Gabriel verso di sé, mentre una donna con un vestito di raso dal corpetto aderente passava ondeggiando accanto a loro. Puzzava di gin e di qualcos’altro, qualcosa di misterioso e dolce, un po’ come l’odore di zucchero bruciato di Jem Carstairs. — Chi immaginava che il Console fosse un tale vizioso? — disse Gabriel. — Non avrebbe potuto aspettare di averci portato nella Città Silente? — Non ci sta portando nella Città Silente. — Gideon serrò le labbra. — Ah, no? — Non fare lo stupido, Gabriel. Certo che no. Vuole qualcos’altro da noi. Non so ancora cosa. Ci ha portati qui per confonderci… e non lo avrebbe fatto se non fosse piuttosto sicuro di sapere qualcosa, sul nostro conto, che ci impedirà di riferire a Charlotte o a chiunque altro dove siamo stati. — Forse veniva davvero qui con nostro padre. — Forse, ma non è il motivo per cui siamo qui ora. — Gideon strinse la presa sul braccio del fratello mentre il Console ricompariva con in mano una bottiglietta. Sembrava contenere acqua di soda, ma Gabriel suppose che contenesse almeno un goccio di alcol. — E per noi, niente? — chiese, ricevendo uno sguardo truce dal fratello e un sorriso acido dal Console. Si rese conto di ignorare se Wayland avesse una famiglia, o dei figli. Era solo il Console. — Ragazzi, avete una pallida idea del pericolo che state correndo? — fece l’uomo. — Pericolo? E da parte di chi? Charlotte? — Gideon sembrava incredulo. — No, non di Charlotte. — Il Console fece un ghigno. — Vostro padre non si è limitato a infrangere la Legge; l’ha oltraggiata. Non si è limitato a trattare con i demoni; è giaciuto con loro. Voi siete i Lightwood… tutto ciò che rimane dei Lightwood. Non avete cugini, e neppure zie e zii. Potrei radiare tutta la famiglia dai registri dei Nephilim e mettere voi e vostra sorella in mezzo a una strada a morire di fame o a implorare un tozzo di pane tra i mondani, e avrei tutto il diritto di farlo a nome dell’Enclave e del Consiglio. E chi credete che si farebbe avanti per appoggiarvi? Chi parlerebbe in vostra difesa? Gideon era diventato pallidissimo e le sue nocche, nel punto in cui stringeva il braccio di Gabriel, erano bianche. — Non è giusto — disse. — Non lo sapevamo. Mio fratello aveva fiducia in nostro padre. Non può essere ritenuto responsabile… — Aveva fiducia in lui? È stato lui a dare il colpo mortale, non è vero? — chiese il Console. — Oh, avete contribuito tutti, ma il colpo di grazia, quello che ha ucciso vostro padre, è stato il suo. E

ciò dimostra che sapeva alla perfezione cos’era vostro padre. Gabriel si rendeva conto che Gideon lo guardava preoccupato. L’aria nelle Argent Rooms era calda e soffocante, gli toglieva il fiato. La donna in scena stava cantando una canzone chiamata All Through Obliging a Lady e andava su e giù a grandi passi sul palcoscenico, colpendo il pavimento con l’estremità di un bastone da passeggio. — I peccati dei padri, ragazzi. Voi potete essere puniti… e lo sarete senz’altro, se io vorrò. Cosa farai, Gideon, mentre a tuo fratello e a Tatiana verranno bruciate via le rune? Starai a guardare? La mano destra di Gabriel ebbe uno scatto; stava per allungarsi e agguantare il Console per il collo, se Gideon non l’avesse afferrato e tenuto per il polso. — Cosa volete da noi? — chiese Gideon, controllando la voce. — Non ci avete portati qui soltanto per minacciarci; di certo volete qualcosa in cambio. E se fosse qualcosa che avreste potuto chiedere senza problemi o legalmente, l’avreste fatto nella Città Silente. — Sei in gamba, ragazzo — disse il Console. — Voglio che facciate qualcosa per me. Fatela e, anche se Casa Lightwood potrà essere confiscata, mi adoprerò affinché conserviate il vostro onore e il vostro nome, le vostre terre a Idris e il vostro posto tra i Cacciatori. — Cosa volete che facciamo? — Desidero che teniate d’occhio Charlotte. Più esattamente, la sua corrispondenza. Informatemi sulle lettere che riceve e che manda, soprattutto con destinazione Idris. — Volete che la spiamo. — La voce di Gideon era piatta. — Semplicemente, non voglio altre sorprese come quella che ci ha fatto vostro padre — replicò il Console. — Non avrebbe mai dovuto tenermi nascosta la sua malattia. — Ha dovuto farlo — ribatté Gideon. — Era una condizione dell’accordo che ha stipulato con… Le labbra del Console si serrarono. — Charlotte Branwell non ha alcun diritto di fare accordi di tale portata senza consultarmi. Io sono il suo superiore. Non dovrebbe e non può mettermi i piedi in testa in questo modo. Lei e il gruppo dell’Istituto si comportano come se fossero in un territorio indipendente, soggetto a leggi proprie. Guardate cos’è successo con Jessamine Lovelace: ha tradito tutti noi, ci ha condotti quasi alla distruzione. James Carstairs è schiavo della droga, con un piede nella fossa. Tessa Gray è una mutaforma, e non avrebbe mai dovuto mettere piede nell’Istituto, maledizione a quel ridicolo fidanzamento! E Will Herondale… è un bugiardo e un marmocchio viziato che, crescendo, diventerà un criminale; sempre che riesca a crescere. — Il Console si interruppe, ansimando. — Charlotte potrà anche gestire quel posto come un suo feudo, ma non lo è. È un Istituto, e lei deve renderne conto al Console. — Charlotte non ha fatto nulla per meritare un siffatto tradimento — disse Gideon. Il Console gli agitò contro un dito. — È proprio quello che sto dicendo. La vostra lealtà non deve andare a lei; non può andare a lei. Deve andare a me. Lo capite? — E se rifiutassimo? — Allora perderete tutto: casa, terre, nome, lignaggio, ragione di vita… — Lo faremo — disse Gabriel prima che Gideon potesse riprendere la parola. — La controlleremo per voi. — Gabriel… — cominciò il fratello. — No — disse Gabriel. — È troppo. Tu non vuoi essere sleale, lo capisco. Ma la nostra lealtà va prima di tutto alla famiglia. I Blackthorn metterebbero Tati in mezzo a una strada, dove non durerebbe un istante, né lei né il bambino…

Gideon sbiancò. — Tatiana avrà un figlio? Nonostante l’orrore della situazione, Gabriel provò un guizzo di soddisfazione nel sapere qualcosa di cui suo fratello era all’oscuro. — Sì. L’avresti saputo, se tu facessi ancora parte della nostra famiglia. Gideon girò lo sguardo nella sala, come in cerca di un viso familiare, quindi tornò a guardare impotente Gabriel e il Console. — Non… Wayland sorrise freddamente ai due fratelli. — Siamo d’accordo, signori? Dopo un lungo istante, Gideon annuì. — Lo faremo. Gabriel non avrebbe dimenticato tanto presto l’espressione che si diffuse sul viso del Console nel sentire quelle parole. Conteneva soddisfazione, ma poca sorpresa. Era chiaro che non si era aspettato nient’altro, e niente di meglio, dai giovani Lightwood. — Scones? — Tessa era incredula. La bocca di Sophie si contrasse in un sorriso. Era in ginocchio davanti al focolare, con uno straccio e un secchio di acqua saponata. — È come se mi avessero messa al tappeto, ero altrettanto inebetita — confermò. — Decine di scones. Sotto il letto, tutti duri come sassi. — Santo cielo — mormorò Tessa, scivolando verso il bordo del letto e appoggiandosi all’indietro sulle mani. Ogni volta che Sophie faceva le pulizie nella sua stanza, doveva trattenersi dal precipitarsi ad aiutarla con lo straccio da spolvero. Ci aveva provato in alcune occasioni ma, dopo essere stata dissuasa con fermezza, seppur gentilmente, per almeno quattro volte, aveva rinunciato. — E ti sei arrabbiata? — Certo! Farmi fare tutto quel lavoro extra, portare gli scones su e giù per le scale, per poi nasconderli a quel modo… non mi stupirei se finissimo l’autunno con i topi. Tessa annuì, convenendo con gravità sul potenziale problema dei topi. — Ma non ti lusinga un po’ che abbia fatto tutto questo solo per vederti? — No, non mi lusinga. Lui non pensa. È un Cacciatore, e io sono una mondana. Non posso aspettarmi niente da lui. Nel migliore dei mondi possibili, potrebbe offrirmi di prendermi come amante e sposare una Cacciatrice. La gola di Tessa si serrò, ricordando quando – sul tetto – Will le aveva offerto la stessa cosa, vergogna e disonore, e come si fosse sentita piccola e indegna. Era stata una bugia, ma il ricordo faceva ancora male. — No. — Sophie abbassò lo sguardo sulle mani rosse e sciupate dal lavoro. — Meglio non prendere neppure in considerazione l’idea. Così non rimarrò delusa. — Credo che i Lightwood siano migliori di così — suggerì Tessa. Sophie si scostò i capelli dal viso, sfiorando delicatamente con le dita la cicatrice che le attraversava la guancia. — A volte credo che non ci siano uomini migliori di così. Né Gideon né Gabriel parlarono mentre la carrozza percorreva di nuovo, e rumorosamente, le strade del West End, diretta all’Istituto. Diluviava, e la pioggia colpiva la carrozza con tale forza che Gabriel dubitava che avrebbero potuto sentirlo se avesse parlato. Gideon si studiava le scarpe, e non alzò lo sguardo durante tutto il tragitto di ritorno. Quando l’Istituto si delineò tra la pioggia, il Console aprì lo sportello per farli scendere. — Mi fido di voi, ragazzi. Ora andate e fate in modo che pure Charlotte si fidi di voi. E non fate parola a

nessuno del nostro colloquio. Quanto a questo pomeriggio, l’avete passato con i Fratelli. Gideon scese dalla carrozza senza dire altro, seguito da Gabriel. La vettura fece dietrofront e si allontanò fragorosamente nel grigio pomeriggio londinese. Il cielo era nero e giallo, le gocce di pioggia pesanti come pallottole di piombo, la nebbia così fitta che Gabriel vide a malapena il cancello dell’Istituto richiudersi dietro la carrozza. Di sicuro non vide le mani del fratello che schizzarono in avanti, lo afferrarono per il colletto della giacca e lo trascinarono dietro l’angolo dell’Istituto. Per poco non cadde, quando Gideon lo spinse contro il muro di pietra della vecchia chiesa. Erano vicini alle stalle, seminascosti alla vista da uno dei contrafforti, ma non protetti dalla pioggia. Fredde gocce colpivano la testa e il collo di Gabriel e gli scivolavano nella camicia. — Gideon… — protestò, scivolando sulle lastre coperte di fango. — Sta’ zitto. — Nella luce fioca, gli occhi di Gideon erano spalancati e grigi, appena tinti di verde. — Hai ragione. — Gabriel abbassò il tono di voce. — Dovremmo accordarci su cosa raccontare. Quando ci chiederanno cosa abbiamo fatto questo pomeriggio, dovremo dare delle risposte perfettamente concordanti, o non saremo credibili… — Ti ho detto di stare zitto. — Gideon sbatté di nuovo le spalle del fratello contro il muro, abbastanza forte da fargli emettere un mugolio di dolore. — Non diremo a Charlotte della nostra conversazione con il Console, ma neppure la spieremo. Gabriel, tu sei mio fratello e ti voglio bene. Farei qualsiasi cosa per proteggerti. Ma non venderò la tua anima e la mia. Gabriel guardò il fratello. La pioggia inzuppava i capelli di Gideon e gli gocciolava nel colletto del cappotto. — Potremmo morire in mezzo a una strada, se rifiutiamo di fare quanto dice il Console. — Non mentirò a Charlotte. — Gideon… — Hai visto l’espressione sul viso del Console? Quando abbiamo accettato di fare la spia per lui, di tradire la generosità della casa che ci ospita? Non era minimamente sorpreso. Non ha dubitato neppure per un istante di come avremmo reagito. Non si aspetta che tradimento dai Lightwood. È il nostro marchio di fabbrica. — Le mani di Gideon si serrarono sulle braccia di Gabriel. — La vita è più che sopravvivere. Abbiamo l’onore, siamo Nephilim. Se ci porta via anche quello, non avremo davvero più nulla. — Perché sei così sicuro che Charlotte sia dalla parte del giusto? — Perché nostro padre era da quella del torto — rispose Gideon. — Perché conosco Charlotte. Perché ho vissuto con queste persone per mesi, e sono brave persone. Perché Charlotte Branwell è sempre stata gentile con me. E Sophie le vuole bene. — E tu vuoi bene a Sophie. Le labbra di Gideon si contrassero. — È una mondana, e una cameriera — disse Gabriel. — Non so proprio cosa ti aspetti che ne venga fuori. — Niente — replicò Gideon, in tono aspro. — Non mi aspetto niente. Ma il fatto che tu creda che dovrei aspettarmi un qualcosa, dimostra che hai appreso bene la lezione di nostro padre: comportarsi bene solo in cambio di un tornaconto. Non tradirò la parola che ho dato a Charlotte; le cose stanno così, Gabriel. Se non ti va bene, ti manderò da Tatiana e dai Blackthorn. Sono sicuro che ti accoglieranno a braccia aperte. Ma non mentirò a Charlotte.

— Sì che lo farai — ribatté Gabriel. — Le mentiremo tutti e due. Ma mentiremo anche al Console. Gideon socchiuse gli occhi. L’acqua piovana gli gocciolò dalle ciglia. — Che vuoi dire? — Faremo come dice il Console e leggeremo la corrispondenza di Charlotte. Poi gli manderemo dei resoconti, ma saranno falsi. — Se gli faremo comunque dei resoconti falsi, perché leggere la corrispondenza? — Per sapere cosa non dire — spiegò Gabriel, sentendo in bocca il sapore dell’acqua. Sembrava amara, sporca, come se fosse caduta dal tetto dell’Istituto. — Per evitare di dirgli accidentalmente la verità. — Se ci scoprono, potremmo dover affrontare conseguenze della massima gravità. Gabriel sputò l’acqua piovana. — Rischieresti conseguenze severe per gli abitanti dell’Istituto, o no? Perché io… io lo sto facendo per te, e perché… — Perché? — Perché ho commesso un errore. Mi sbagliavo sul conto di nostro padre. Credevo in lui, e non avrei dovuto. — Gabriel fece un respiro profondo. — Mi sbagliavo, e ora cerco di correre ai ripari. Se c’è un prezzo da pagare, lo pagherò. Gideon lo guardò a lungo. — Hai sempre avuto questo in mente? Anche quando hai accettato le richieste del Console, alle Argent Rooms? Gabriel distolse lo sguardo dal fratello, dirigendolo verso il cortile bagnato di pioggia. Nella sua mente vedeva loro due, molto più giovani, in riva al Tamigi, nel punto in cui il fiume attraversava il confine della proprietà dei Lightwood, con Gideon che gli mostrava i passaggi sicuri attraverso il terreno acquitrinoso. Suo fratello gli aveva sempre mostrato i passaggi sicuri. C’era stato un tempo in cui si erano fidati l’uno dell’altro senza riserve, e non sapeva quando fosse finito, ma il suo cuore ne soffriva più di quanto soffrisse per la perdita del padre. — Mi crederesti se ti dicessi di sì? — replicò con amarezza. — Perché è la verità. Gideon rimase immobile per un lungo istante. Poi Gabriel si sentì tirare in avanti e si ritrovò con il viso schiacciato contro la lana bagnata del cappotto di Gideon, mentre il fratello lo stringeva forte mormorando: — Andrà bene, fratellino. Andrà tutto bene. — E dondolava entrambi avanti e indietro nella pioggia. Ai Membri del Consiglio Dal Console Josiah Wayland Benissimo, signori. In questo caso vi chiedo solo di pazientare e di non agire precipitosamente. Se sono le prove ciò che volete, vi fornirò prove. Tornerò a scrivervi tra non molto al riguardo.

Nel nome di Raziel e in difesa del suo onore, Il Console Josiah Wayland

7 L’ARDIRE DEL DESIDERIO

Se l’anno passato potessi rivivere E scegliere dovessi tra bene e male, Accetterei il piacere insieme alla pena O ardirei desiderare che non ci fossimo mai incontrati? Augusta, Lady Gregory, Se l’anno passato potessi rivivere Al Console Wayland Da Gabriel e Gideon Lightwood Caro signore, vi siamo molto riconoscenti per averci affidato il compito di controllare la condotta della signora Branwell. Le donne, com’è noto, vanno controllate attentamente affinché non smarriscano la retta via. Siamo spiacenti di dover annunciare che abbiamo da riferire notizie sconcertanti. La gestione della casa da parte di una donna è il suo dovere più alto, e una delle massime virtù femminili è la frugalità. La signora Branwell tuttavia sembra schiava delle spese e non si cura che dell’ostentazione volgare. Sebbene possa essere vestita semplicemente quando si va a trovarla, ci rattrista riferire che nelle ore libere si adorna delle sete più fini e dei gioielli più costosi che si possa immaginare. Ci avete chiesto di invadere la privacy di una signora e, per quanto riluttanti, lo abbiamo fatto. Vorremo riferirvi nei minimi particolari la sua lettera alla modista, ma temiamo che ne uscireste sopraffatto. Basti dire che il denaro speso in cappelli fa a gara con le entrate annuali di una grande proprietà o di un Paese di piccole dimensioni. Ci sfugge il perché una donna tanto piccola abbia bisogno di tanti cappelli. Non ci pare che nasconda teste supplementari sulla sua persona. Siamo troppo gentiluomini per commentare l’abbigliamento di una signora, se non fosse per gli effetti deleteri che ciò ha sulla nostra attività. Lesina sulle necessità della casa in maniera a dir poco sconvolgente. Ogni sera consumiamo una cena a base di farinata d’avena, mentre lei siede a tavola ricoperta di gioielli e fronzoli. Come potete immaginare, non è certo una dieta da combattenti quali sono i vostri valenti Cacciatori. Siamo talmente deboli che lo scorso martedì siamo stati quasi sconfitti da un demone Behemoth, sebbene quelle creature sono composte perlopiù da una sostanza viscosa. Al meglio della forma, e supportati da un buon vitto, ciascuno di noi sarebbe capace di schiacciare contemporaneamente sotto lo stivale una dozzina di demoni Behemoth. Speriamo vivamente che potrete aiutarci al riguardo, e che le spese della signora Branwell per

i cappelli – e per altri articoli di vestiario femminile che per delicatezza esitiamo a nominare – verranno sottoposte a controllo. Sinceramente vostri, Gideon e Gabriel Lightwood — Che cos’è un fronzolo? — chiese Gabriel, rileggendo la lettera che aveva appena aiutato a scrivere. In realtà, era stato Gideon a dettarne la maggior parte; Gabriel aveva semplicemente mosso la penna sulla pagina. Cominciava a sospettare che dietro la facciata austera del fratello si celasse un misconosciuto genio comico. — Lascia perdere. — Gideon liquidò la domanda con un gesto della mano. — Sigilla la busta e poi diamola a Cyril, in modo che possa partire con la posta del mattino. Erano passati parecchi giorni dal combattimento con il verme demoniaco, e Cecily era di nuovo nella sala delle esercitazioni. Cominciava a chiedersi se non dovesse semplicemente trasferirvi il letto e gli altri mobili, visto che vi trascorreva quasi tutto il suo tempo. La stanza che Charlotte le aveva assegnato era spoglia di ornamenti e di qualsiasi oggetto che potesse ricordarle casa sua. Dal Galles, non aspettandosi di dover rimanere a lungo, non aveva portato quasi nulla di personale. Quantomeno, nella sala delle armi si sentiva al sicuro. Forse perché, dov’era cresciuta, una stanza come quella non c’era; era un posto unicamente da Cacciatori. Niente lì dentro avrebbe mai potuto farle venire nostalgia di casa. Le pareti erano tappezzate di decine di armi. Durante la sua prima lezione con il fratello, quando Will ardeva ancora di rabbia per il fatto che lei fosse lì, aveva dovuto impararne a memoria tutti i nomi e le funzioni. Lame katana provenienti dal Giappone, spadoni a due mani, misericordie dalla lama sottile, stelle del mattino e mazze, lame turche ricurve, balestre, fionde e piccole cerbottane che lanciavano aghi avvelenati. Ricordava che Will aveva sputato fuori le parole quasi fossero veleno. Arrabbiati pure quanto vuoi, fratellone, aveva pensato. Ora posso fingere di voler diventare una Cacciatrice, perché questo non ti dà altra scelta che tenermi qui. Ma ti dimostrerò che questa gente non è la nostra famiglia. Ti riporterò a casa. Cecily staccò uno spadone dalla parete e lo tenne in equilibrio con cautela tra le mani. Will le aveva spiegato che andava tenuto subito sotto la gabbia toracica e puntato dritto verso l’esterno. Bisognava ripartirne equamente il peso tra le gambe e maneggiarlo direttamente dalle spalle, non dalle braccia, per dare più forza possibile a un colpo micidiale. Un colpo micidiale. Per tanti anni era stata arrabbiata con il fratello perché aveva lasciato tutti loro per unirsi ai Cacciatori di Londra, perché si era dedicato a quella che la madre aveva definito una vita di violenza cieca, di armi, sangue e morte. Come mai non gli bastavano le verdi montagne del Galles? Cosa mancava alla loro famiglia? Perché voltare le spalle al più blu dei mari, per qualcosa di tanto vuoto? Eppure eccola lì, che sceglieva di trascorrere il suo tempo da sola, nella sala delle esercitazioni, in compagnia di quella muta collezione di armi. Il peso della spada nella mano era confortante, quasi fungesse da barriera verso i propri sentimenti. Qualche sera prima, lei e Will avevano girato tutta la città, dalle fumerie d’oppio alle bische, fino ai covi degli ifrit, in un turbinio di colori, di odori e di luci. Lui non era stato esattamente cordiale, ma Cecily si era resa conto che permetterle di accompagnarlo in una missione tanto delicata era stato

davvero un gran bel gesto. Quella notte si era goduta la sua compagnia. Era stato come riavere suo fratello. Ma con il trascorrere della serata Will si era fatto via via più silenzioso, e quando erano tornati all’Istituto era scivolato via, desiderando chiaramente rimanere solo e non lasciando a Cecily altro da fare che tornare nella propria stanza, restare sdraiata e fissare il soffitto fino allo spuntare dell’alba. Quando aveva progettato di andare lì, Cecily aveva creduto che, in qualche modo, i vincoli che legavano Will all’Istituto non fossero poi così forti. Il suo attaccamento a quella gente non poteva essere come quello alla famiglia. Ma via via che la sera era trascorsa e lei aveva visto la sua speranza, e poi la sua delusione, in ogni nuovo posto in cui chiedeva lo yin fen e gli veniva risposto che non ce n’era, aveva capito – oh, le era stato già detto, lo sapeva già, ma non era la stessa cosa che capire – che i vincoli che lo legavano lì erano forti come qualunque vincolo di sangue. Ormai era stanca e, pur stringendo la spada come Will le aveva insegnato – mano destra sotto la guardia, mano sinistra sul pomo – l’arma le scivolò dalla presa e si inclinò in avanti, conficcandosi di punta nel pavimento. — Accidenti — disse una voce dal vano della porta. — Temo che a questa prova potrei dare solo un tre. Quattro, forse, se fossi propenso ad assegnarvi un voto in più per la volontà di tirare di scherma in abito da pomeriggio. Cecily, che in effetti non si era presa la briga di mettersi in tenuta, rovesciò la testa all’indietro e lanciò un’occhiata di fuoco a Gabriel Lightwood, che era comparso sulla soglia come una sorta di demone della perversione. — Forse non sono interessata alla vostra opinione, signore. — Forse. — Gabriel fece un passo all’interno della sala. — L’Angelo è testimone che vostro fratello non lo è mai stato. — In questo siamo uguali — osservò Cecily, sfilando la spada dal pavimento. — Ma non in molto altro. — Il ragazzo le si mise alle spalle. Erano riflessi in uno degli specchi per le esercitazioni; Gabriel la superava di una buona testa, e lei vedeva il suo viso ben al di sopra della spalla. Aveva uno di quegli strani visi spigolosi: belli da certe angolazioni, e interessanti in maniera particolare da altre. Aveva una piccola cicatrice bianca sul collo, come se vi avessero praticato un’incisione con una lama sottile. — Volete che vi mostri come si dovrebbe tenere bene una spada? — Se proprio volete. Gabriel non replicò, ma la circondò con le braccia, correggendo la sua presa sul pomo. — Non dovete mai tenere la spada con la punta rivolta all’ingiù — disse. — Tenetela così – con la punta verso l’alto – in modo che, se il vostro avversario vi assale, si infilzerà sulla lama. Cecily corresse la presa. La sua mente lavorava freneticamente. Per tanto tempo aveva considerato i Cacciatori come dei mostri che le avevano rapito il fratello, e se stessa come un’eroina che arrivava a cavallo per salvarlo, anche se lui non si rendeva conto di avere bisogno di essere salvato. Era stata una cosa strana e graduale rendersi conto di quanto fossero umani. Sentiva il calore che il corpo di Gabriel emanava, il suo respiro che le agitava i capelli e… oh, era così strano essere consapevoli di tante cose su un’altra persona: com’era al tatto, il tocco della sua pelle, il suo odore… — Ho visto come avete combattuto a Casa Lightwood — mormorò Gabriel. La sua mano callosa le sfiorò le dita. Cecily ricacciò un piccolo brivido. — Male? — chiese poi, cercando di assumere un tono

malizioso. — Con passione. C’è chi combatte perché è suo dovere e chi combatte perché ama farlo. E voi amate farlo. — Io non… — cominciò Cecily, ma fu interrotta dalla porta che si spalancò con fracasso. Era Will, il cui corpo snello ma con le spalle larghe riempiva il vano della porta. Aveva uno sguardo minaccioso negli occhi azzurri. — Cosa ci fai qui? — chiese. Alla faccia della breve tregua che avevano raggiunto la sera prima. — Sto facendo pratica — rispose Cecily. — Mi hai detto che senza pratica non avrei fatto il minimo progresso. — Non tu. Parlo di Gabriel Lightworm, là dietro. — Will indicò con il mento l’altro ragazzo. — Scusa. Lightwood. Gabriel allontanò lentamente le braccia da Cecily. — Chiunque abbia istruito tua sorella nella scherma le ha impartito molte cattive abitudini. Stavo semplicemente cercando di rendermi utile. — Gli ho detto che non c’era problema — spiegò Cecily, senza avere idea del perché stesse difendendo Gabriel, se non perché sospettava che ciò avrebbe irritato Will. E così era. Will socchiuse gli occhi. — E lui ti ha detto che sono anni che cerca un modo di vendicarsi di me per quello che ritiene un insulto a sua sorella? E quale modo migliore di farlo se non per tuo tramite? Cecily ruotò la testa per fissare Gabriel, che aveva un’espressione di fastidio e sfida insieme. — È vero? Gabriel non rispose a lei, ma a Will. — Se dovremo vivere sotto lo stesso tetto, Herondale, ci toccherà imparare a trattarci cordialmente. Non sei d’accordo? — Finché posso ancora romperti un braccio con la stessa facilità con cui ti guardo, non sono d’accordo con nulla del genere. — Will sollevò la mano e staccò uno spadino dalla parete. — E adesso vattene, Gabriel. E lascia in pace mia sorella. Con un’unica occhiata sdegnosa, Gabriel passò accanto a Will e uscì dalla stanza. — Era proprio necessario? — chiese Cecily al fratello, non appena la porta si fu richiusa. — Conosco Gabriel Lightwood, tu no. Suggerisco di lasciare che sia io il miglior giudice del suo carattere. Vuole usare te per ferire me… — Sul serio, non riesci a immaginare che abbia avuto una motivazione che non c’entri con te? — Lo conosco — ripeté Will. — Si è dimostrato un bugiardo e un traditore… — Le persone cambiano. — Non così tanto. — Tu l’hai fatto — dichiarò Cecily, attraversando la stanza a grandi passi e lasciando cadere rumorosamente la spada su una panca. — Anche tu — disse Will, provocando lo stupore della sorella. Cecily gli si scagliò contro. — Io sono cambiata? E in che modo sarei cambiata? — Quando sei arrivata qui, non facevi che ripetere che volevi portarmi a casa con te — rispose Will. — Non ti piaceva l’addestramento. Fingevi il contrario, ma io lo capivo. Poi sei passata da “Will, devi tornare a casa” a “Scrivi una lettera, Will”. E l’addestramento ha cominciato a piacerti. Gabriel Lightwood è un mascalzone, ma su una cosa aveva ragione: ti è piaciuto combattere contro il verme gigante a Casa Lightwood. Il sangue dei Cacciatori è come polvere da sparo nelle tue vene, Cecy. Una volta che è stato acceso, non è così facile spegnerlo. Rimani ancora un po’ qui e, con ogni probabilità, diventerai come me… troppo coinvolta per andartene.

Cecily lanciò un’occhiata obliqua al fratello: Will aveva il colletto della camicia aperto: si intravedeva uno scintillio scarlatto nell’incavo della gola. — Indossi una collana da donna, fratellino? Will trasalì e portò una mano al collo, ma, prima che potesse rispondere, la porta della sala delle esercitazioni si aprì di nuovo e apparve Sophie, con un’espressione ansiosa sul viso deturpato dalla cicatrice. — Signorino Will, signorina Herondale… vi cercavo. Charlotte ha chiesto che tutti vadano subito in soggiorno; è una questione di una certa urgenza. Cecily era sempre stata una bambina piuttosto solitaria. Difficile non esserlo, quando i tuoi fratelli maggiori sono morti o se ne sono andati, e nei paraggi non ci sono altri ragazzini della tua età che siano considerati dei compagni di giochi adatti dai tuoi genitori. Aveva imparato presto a divertirsi osservando la gente, senza condividere le proprie osservazioni con gli altri ma tenendole per sé, in modo da poterle tirare fuori in seguito ed esaminarle quando era sola. Le abitudini di una vita non si infrangono rapidamente e, sebbene da quando era arrivata all’Istituto – otto settimane prima – non fosse più sola, Cecily aveva fatto dei suoi abitanti l’oggetto di un esame minuzioso. Erano Cacciatori, dopotutto… prima nemici, e poi, via via che cessava di vederli come tali, semplicemente dei soggetti affascinanti. Nell’entrare nel soggiorno, accanto a Will, Cecily fece scorrere lo sguardo sui presenti. La prima era Charlotte, seduta alla scrivania. Pur conoscendola da poco, si rendeva conto che era il tipo di donna che mantiene la calma anche sotto pressione. Era piccola ma forte, un po’ come mamma, ma meno incline a brontolare in gallese. Poi c’era Henry. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto convincere Tessa che, per quanto diversi, i Cacciatori non erano degli alieni pericolosi. A vederlo così, appoggiato alla scrivania di Charlotte, spigoloso e con le gambe secche, non aveva nulla di spaventoso. Gli occhi di Cecily scivolarono su Gideon Lightwood, i cui occhi verdi seguivano Sophie per l’Istituto come quelli di un cagnolino speranzoso. La sorella di Will si chiese se altri, nell’Istituto, avessero notato quell’attaccamento per la cameriera, e cosa ne pensasse la stessa Sophie. E poi c’era Gabriel. Quando toccavano lui, i pensieri di Cecily erano ingarbugliati e confusi. Il Cacciatore aveva gli occhi scintillanti, il corpo teso come una molla mentre si appoggiava alla poltrona del fratello. Sul divano di velluto azzurro proprio di fronte ai Lightwood sedeva Jem, con Tessa al fianco. Non appena la porta si era aperta, Jem aveva alzato lo sguardo e, come succedeva sempre, nel vedere Will era sembrato animarsi di un fuoco più intenso. Era una caratteristica di entrambi, e Cecily si chiese se fosse così per tutti i parabatai, o se loro costituissero un caso unico. Comunque fosse, doveva essere terribile avere un legame così stretto con un’altra persona, soprattutto quando una delle due era fragile come Jem. Mentre Cecily li guardava, Tessa mise la mano su quella di Jem e gli sussurrò qualcosa che lo fece sorridere. Will attraversò la stanza come faceva sempre, per appoggiarsi alla mensola del caminetto. Cecily non era mai stata in grado di stabilire se lo facesse perché aveva perennemente freddo, o perché pensava di sembrare affascinante stando davanti alle fiamme che divampavano. “Devi vergognarti di tuo fratello… che nutre sentimenti illeciti per la fidanzata del proprio parabatai” le aveva detto Will. Fosse stato qualcun altro, gli avrebbe detto che era inutile tenere segreti: la verità alla fine sarebbe venuta a galla. Ma, nel caso di Will, non era sicura. Will aveva dalla sua la perizia di anni trascorsi a nascondere e fingere. Era un attore provetto. Se

non fosse stata sua sorella, se non avesse visto il suo viso nei momenti in cui Jem non guardava, probabilmente non l’avrebbe indovinato neanche lei. E poi c’era la terribile verità: Will non avrebbe dovuto nascondere il suo segreto per sempre. Doveva nasconderlo solo finché Jem fosse rimasto in vita. Se James Cartairs non fosse stato così inesorabilmente gentile e bene intenzionato, pensò Cecily, avrebbe potuto odiarlo per conto di Will. Non solo stava per sposare la ragazza che Will amava, ma Cecily temeva che dopo la sua morte il fratello non si sarebbe mai ripreso. Ma non si poteva certo rimproverare qualcuno di essere sul punto di morire. Di lasciare qualcuno di proposito, forse, come Will aveva lasciato lei e i suoi genitori, ma non di morire. Il potere sulla morte era sicuramente al di là della portata degli umani mortali. — Sono contenta che siate tutti qui — esordì Charlotte, con una voce tesa che strappò Cecily da quelle riflessioni. La donna guardava con espressione seria un vassoio su cui si trovavano una lettera aperta e un pacchetto avvolto nella carta oleata. — Ho ricevuto una lettera inquietante, dal Magister. — Da Mortmain? — Tessa si sporse in avanti, e l’angelo meccanico che portava sempre al collo spenzolò in aria, scintillando alla luce del fuoco. — Ti ha scritto? — Non per chiedere notizie della tua salute, c’è da immaginare — disse Will. — Che cosa vuole? Charlotte fece un profondo respiro. — Vi leggo la lettera. Mia cara signora Branwell, scusate se vi disturbo in un momento penoso per la vostra casa. Sono addolorato, ma confesso non scosso, nell’apprendere della grave indisposizione del signor Carstairs. Credo siate consapevole che sono il felice proprietario di una grande – direi che più grande non si può – partita della medicina di cui il signor Carstairs ha bisogno per continuare a stare bene. Perciò ci troviamo in una situazione molto interessante, che sono ansioso di risolvere con soddisfazione di entrambi. Sarei felicissimo di fare uno scambio: se siete disposta a consegnarmi la signorina Gray, io consegnerò a voi una cospicua partita di yin fen. Vi mando un segno della mia buona volontà. Vi prego di farmi sapere la vostra decisione scrivendomi. Se la sequenza di numeri impressi in calce alla lettera verrà dettata in maniera corretta al mio automa, sarò sicuro di riceverla. Sinceramente vostro, Axel Mortmain — Questo è tutto — disse Charlotte, piegando a metà la lettera e rimettendola sul vassoio. — Ci sono istruzioni su come chiamare l’automa a cui desidera che diamo la nostra risposta, e ci sono i numeri di cui parla, ma non forniscono alcun indizio su dove si trovi. Nella sala era calato un silenzio turbato. Cecily, che si era seduta in una poltroncina a fiori, lanciò un’occhiata a Will e lo vide distogliere lo sguardo, come per nascondere la propria espressione. Jem impallidì, il suo viso assunse il colore della cenere vecchia, e Tessa… Tessa sedeva assolutamente immobile, mentre la luce del fuoco rincorreva le ombre sul suo viso. — Mortmain vuole me — disse infine, infrangendo il silenzio. — In cambio dello yin fen per Jem. — È ridicolo — disse Jem. — Insostenibile. Bisognerebbe consegnare la lettera all’Enclave, per vedere se riesce a trarne qualche indizio sul luogo in cui si trova Mortmain, ma questo è tutto. — Non saranno in grado di trarne alcun indizio — disse Will, in tono calmo. — Il Magister si è

dimostrato decisamente troppo furbo. — Questa non è furbizia — replicò Jem. — Questa è la più volgare forma di ricatto… — Non lo nego. — Will annuì. — Io dico di accettare il pacchetto come una benedizione, una manciata in più di yin fen che ti aiuterà, e ignorare il resto. — La lettera di Mortmain riguarda me — disse Tessa, interrompendo entrambi. — La decisione dovrebbe spettare a me. — Ruotò il corpo verso Charlotte. — Andrò. Calò di nuovo un silenzio inquietante. Charlotte era livida. Cecily si sentiva le mani, che teneva intrecciate in grembo, umide di sudore. I fratelli Lightwood sembravano disperatamente a disagio. Gabriel avrebbe voluto chiaramente trovarsi in qualsiasi altro posto tranne che là. Cecily non poteva certo biasimarli. La tensione tra Will, Jem e Tessa sembrava un barilotto di polvere da sparo a cui sarebbe bastato accostare un fiammifero perché saltasse in aria. — No — disse infine Jem, alzandosi. — Tessa, non puoi farlo. Lei si alzò a sua volta. — Posso. Tu sei il mio fidanzato. Non posso permettere che tu muoia quando è in mio potere aiutarti, e poi Mortmain non ha intenzione di nuocermi fisicamente… — Non conosciamo le sue intenzioni, non possiamo fidarci di lui! — esclamò Will. Poi abbassò la testa, serrando la mano sulla mensola tanto forte che le dita gli sbiancarono. Cecily era sicura che si stesse costringendo a tacere. — Se fossi tu quello che Mortmain vuole, Will, andresti — disse Tessa, guardandolo con una determinazione che non ammetteva repliche. A tali parole, Will sussultò. — Però — obiettò Jem, — lo proibirei anche a lui. Tessa si rivolse a Jem con la prima espressione adirata che Cecily le avesse mai visto assumere nei suoi confronti. — Non puoi proibirmelo… non più di quanto potresti a Will. — Posso — insistette Jem. — E per una ragione molto semplice. La droga non è una cura, Tessa. Mi allunga semplicemente la vita. Non permetterò che tu getti via la tua per salvare un residuo della mia. Se vai da Mortmain, lo farai invano. Mi rifiuterò di prendere la droga. Will alzò la testa. — James… Ma Tessa e Jem si stavano fissando, gli occhi incollati l’uno all’altra. — Non lo faresti — sussurrò la ragazza. — Non mi insulteresti sbattendomi in faccia un sacrificio che avrei fatto per te. Jem attraversò a grandi passi la stanza e afferrò il pacchetto – e la lettera – dalla scrivania di Charlotte. — Preferirei insultarti che perderti. — E prima che qualcuno di loro potesse fare un gesto per fermarlo, gettò l’uno e l’altra nel fuoco. La stanza si riempì subito di urla. Henry si lanciò in avanti, ma Will si era già inginocchiato di fronte al focolare e aveva infilato le mani nelle fiamme. Cecily balzò su dalla sedia. — Will! — gridò, e si precipitò verso il fratello. Lo afferrò per le spalle della giacca e lo tirò via dal fuoco. Lui cadde all’indietro, lasciando andare il pacchetto che bruciava ancora. Gideon accorse all’istante e lo calpestò per spegnere le fiammelle, lasciando sul tappeto un miscuglio di carta bruciata e polvere argentea. Cecily guardò nel focolare. La lettera con le istruzioni per chiamare l’automa di Mortmain era ormai ridotta in cenere. — Will… — Jem aveva un’aria sofferente. Si inginocchiò accanto a Cecily, che teneva ancora il fratello per le spalle, ed estrasse uno stilo dalla giacca.

Le mani di Will erano scarlatte, con chiazze di un bianco livido, dove le vesciche si stavano già formando sulla pelle, e macchie nere di fuliggine. Il suo respiro era rotto e stridulo all’orecchio della sorella, ansava per il dolore, come quando a nove anni era caduto dal tetto di casa e si era rotto il braccio sinistro. — Byddwch yn iawn, Will — disse Cecily mentre Jem gli applicava lo stilo sull’avambraccio. — Tornerai come nuovo. — Will… — ripeté Jem. — Mi dispiace tanto, mi dispiace tanto. I respiri rotti di Will si andavano calmando mentre l’iratze faceva effetto e la pelle si schiariva, riprendendo il colore abituale. — Un po’ di yin fen si può ancora salvare — disse Will, accasciandosi contro la sorella. Puzzava di fumo e di ferro. Cecily sentiva il cuore battergli forte attraverso la schiena. — Prima di qualsiasi altra cosa, sarebbe meglio raccoglierlo… — Ecco. — Era Tessa, in ginocchio; Cecily si rendeva vagamente conto che tutti gli altri erano in piedi, Charlotte con una mano sulla bocca in preda allo shock. Nella destra di Tessa c’era un fazzoletto con forse una mezza manciata di yin fen, tutto quello che Will aveva salvato dalle fiamme. — Prendi — disse, e lo mise nella mano libera di Jem, quella che non teneva lo stilo. Lui sembrò sul punto di parlarle, ma Tessa si era già raddrizzata. Con aria distrutta, Jem la guardò uscire dalla stanza. — Oh, Will… cosa dobbiamo fare con te? Il ragazzo era seduto nella poltrona a fiori del soggiorno, sentendosi piuttosto a disagio, e lasciava che Charlotte, appollaiata su un piccolo sgabello, gli spalmasse dell’unguento sulle mani. Non gli dolevano più tanto, dopo tre iratze, ed erano tornate del loro colore normale, ma Charlotte insisteva comunque nel medicarle. Tutti gli altri erano usciti, tranne Cecily e Jem; lei era seduta accanto al fratello, sul bracciolo della poltrona, e Jem era inginocchiato sul tappeto bruciato, con lo stilo ancora in mano, senza toccare Will ma standogli vicino. Si erano rifiutati di uscire, anche dopo che gli altri erano scivolati via e Charlotte aveva mandato Henry a lavorare in cantina. Dopotutto, non c’era altro da fare. Le istruzioni su come contattare Mortmain erano andate distrutte, ridotte in cenere, e non c’erano altre decisioni da prendere. Charlotte aveva insistito affinché Will rimanesse a farsi spalmare l’unguento, e Cecily e Jem si erano rifiutati di lasciarlo. Will doveva ammettere che gli piaceva, gli piaceva avere la sorella lì sul bracciolo della poltrona, gli piacevano le occhiate ferocemente protettive che lanciava a chiunque gli si avvicinasse, anche a Charlotte, tenera e innocua con il suo unguento e i suoi borbottii materni. E gli piaceva avere Jem lì, ai suoi piedi, leggermente appoggiato alla poltrona, come aveva fatto tante volte quando Will veniva bendato dopo i combattimenti o gli venivano applicati degli iratze per via delle ferite riportate in battaglia. — Ricordi quando Meliorn cercò di romperti i denti per avergli dato del perdigiorno dalle orecchie a punta? — disse Jem. Aveva preso un po’ dello yin fen mandato da Mortmain, e le sue guance avevano recuperato un po’ di colore. Malgrado tutto, Will sorrise: non poté farne a meno. Era stata l’unica cosa ad averlo fatto sentire fortunato negli anni passati: che nella sua vita ci fosse qualcuno che lo conosceva e sapeva cosa stava pensando prima ancora che lui lo esprimesse ad alta voce. — Glieli avrei rotti anch’io — disse. — Ma, quando andai di nuovo a cercarlo, era emigrato in America. Per sfuggire alla mia rabbia, senza

dubbio. Charlotte fece una smorfia, come sempre quando pensava che Will facesse lo spaccone. — Da quello che so, aveva molti nemici a Londra. — Dydw I ddim yn gwybod pwy yw unrhyw un o’r bobl yr ydych yn siarad amdano — disse Cecily, in tono lamentoso. — Può anche darsi che tu non sappia di cosa stiamo parlando, ma nessun altro oltre a me capisce quello che dici — replicò Will, sebbene il suo tono non contenesse un vero rimprovero. Percepiva la stanchezza nella propria voce. La mancanza di sonno della notte prima si faceva sentire. — Non parlare gallese, Cecy. Charlotte si alzò, tornò alla scrivania e vi depose il vasetto di unguento. Cecily tirò una ciocca di capelli a Will. — Fammi vedere le mani. Lui le sollevò. Ricordò il fuoco, il dolore incandescente e, più che ogni altra cosa, l’espressione sconvolta di Tessa. Sapeva che avrebbe capito perché aveva fatto quello che aveva fatto, perché non era stato a pensarci due volte, ma lo sguardo nei suoi occhi… come se le si fosse spezzato il cuore per lui. Desiderò soltanto che fosse ancora lì. Era bello stare lì con Jem, Cecily e Charlotte, essere circondato dal loro affetto, ma senza di lei sarebbe sempre mancato qualcosa, un pezzo a forma di Tessa scalpellato via dal suo cuore. Cecily gli toccò le dita, che ormai sembravano perfettamente normali, a parte la fuliggine sotto le unghie. — È davvero sorprendente — disse, quindi gli diede dei leggeri colpetti sulle mani, attenta a non rimuovere l’unguento. — Will è sempre stato incline a farsi male — aggiunse con voce piena di affetto. — Non riesco neppure a contare le volte che si è rotto braccia o gambe quando eravamo bambini… i graffi, le cicatrici. Jem si appoggiò di più alla poltrona, con lo sguardo fisso sul fuoco. — Sarebbe stato meglio se fossero state le mie mani. Will scosse la testa. La stanchezza stava rendendo vaghi i contorni di ogni oggetto all’interno della stanza, trasformando la carta da parati a fiori in un’unica massa scura. — No. Non le tue mani. Ti servono per il violino. Le mie a cosa mi servono? — Dovevo immaginare che l’avresti fatto — disse Jem a bassa voce. — So sempre cosa farai. Dovevo immaginare che avresti infilato le mani nel fuoco. — E io avrei dovuto immaginare che vi avresti buttato il pacchetto — replicò Will senza alcun risentimento. — Era… era un gesto follemente nobile da fare. Capisco perché tu l’abbia fatto. — Pensavo a Tessa. — Jem tirò su le ginocchia e vi appoggiò sopra il mento, quindi rise piano. — Follemente nobile. Non dovrebbe essere la tua specialità? D’un tratto sono io quello che fa cose ridicole e tu quello che mi dice di smetterla? — Oddio — mormorò Will. — Quand’è che ci siamo scambiati i ruoli? La luce del fuoco giocò sul viso e sui capelli di Jem mentre scuoteva la testa. — È una cosa molto strana, essere innamorati. Ti cambia. Will abbassò lo sguardo sul parabatai e ciò che provò, più che gelosia, più di qualsiasi altra cosa, fu un intenso desiderio di dolersi con lui, di parlare dei sentimenti che avevano nel cuore. Non erano forse gli stessi sentimenti? Non amavano forse nello stesso modo, la stessa persona? — Vorrei che non mettessi a repentaglio la tua vita — fu tutto ciò che disse. Jem si alzò. — Ho sempre voluto lo stesso per te.

Will sollevò lo sguardo, talmente inebetito dal sonno e dalla stanchezza indotta dalle rune guaritrici da vedere Jem solo come una figura circondata da un alone di luce. — Vai? — Sì, a dormire. — Jem sfiorò lievemente le mani dell’amico. — Riposati, Will. Gli occhi di Will si stavano già chiudendo quando Jem si girò per andarsene. Non sentì la porta chiudersi alle sue spalle. Da qualche parte, in fondo al corridoio, Bridget cantava, e la sua voce superava il crepitio del fuoco. Will non la trovò fastidiosa come al solito, ma piuttosto simile a una ninnananna che un tempo la madre gli avrebbe cantato per farlo addormentare. Oh, cos’è più chiaro della luce? Cos’è più scuro della notte? Cos’è più tagliente di un’ascia? Cos’è più soffice della cera sciolta? La verità è più chiara della luce, La falsità è più scura della notte. La vendetta è più tagliente di un’ascia, E l’amore è più soffice della cera sciolta. — Una canzone indovinello — disse Cecily, mezzo addormentata e con la voce insonnolita. — Mi sono sempre piaciute. Ricordi quando la mamma ce le cantava? — Un po’ — ammise Will. Se non fosse stato così stanco, magari non lo avrebbe ammesso affatto. Sua madre cantava sempre, la musica riempiva ogni angolo del loro maniero, cantava mentre camminava lungo le acque dell’estuario del Mawddach, o tra i narcisi nei giardini. Llawn yw’r coed o ddail a blode, llawn o goriad merch wyf inne… — Ti ricordi il mare? — chiese Will, con voce resa pesante dalla stanchezza. — E il lago di Taly-Llyn? Qui a Londra non c’è niente di altrettanto azzurro. — Sentì Cecily trattenere bruscamente il fiato. — Certo che mi ricordo. Pensavo che tu non lo facessi. Immagini tratte da sogni prendevano forma nella parte interna delle palpebre di Will, mentre il sonno lo raggiungeva come una corrente, trascinandolo via dalla spiaggia illuminata. — Non credo che riuscirò ad alzarmi da questa poltrona, Cecy — mormorò. — Stanotte resterò qui. Le mani della sorella si sollevarono, cercarono tastoni le sue e le avvolsero in una stretta delicata. — Allora rimarrò con te — disse Cecily, e la sua voce divenne parte della corrente di sogni e di sonno che finalmente lo aveva afferrato e lo trascinava di qua e di là. A Gabriel e Gideon Lightwood Dal Console Josiah Wayland Sono rimasto molto sorpreso nel ricevere la vostra missiva. Non capisco proprio cosa avrei dovuto fare per spiegarmi meglio. Voglio che mi riferiate i dettagli della corrispondenza della signora Branwell con i suoi parenti e sostenitori a Idris. Non ho chiesto una canzonatura sulla moda della signora. Non m’importa né come si veste né il vostro menù quotidiano. Vi prego di mandarmi una lettera contenente informazioni rilevanti. Spero vivamente che tale lettera si riveli più confacente a dei Cacciatori che non a dei mentecatti.

Nel nome di Raziel, Il Console Wayland

8 QUESTO FUOCO TRA I FUOCHI

Voi lo chiamate speranza, questo fuoco tra i fuochi! Esso è soltanto agonia del desiderio. Edgar Allan Poe, Tamerlano

Tessa sedeva alla toletta spazzolandosi metodicamente i capelli. Fuori, l’aria era fredda ma umida, e sembrava intrappolare l’acqua del Tamigi, che esalava un odore di ferro e sporcizia cittadina. Era il tipo di tempo che le faceva aggrovigliare le punte dei capelli. Non che si preoccupasse davvero per i capelli; lo spazzolarli era semplicemente un movimento ripetitivo, che le consentiva di mantenere una sorta di calma forzata. Continuava ad avere davanti agli occhi il turbamento di Jem quando Charlotte aveva letto la lettera di Mortmain, e le mani bruciate di Will, e la minuscola quantità di yin fen che lei era riuscita a raccogliere dal pavimento. Vedeva le braccia di Cecily intorno a Will, e l’angoscia di Jem mentre gli chiedeva scusa. Non aveva potuto sopportarlo. Avevano sofferto terribilmente, tutti e due, e lei li amava entrambi. Era lei la causa del loro dolore, lei era ciò che Mortmain voleva. Era per colpa sua se lo yin fen di Jem era finito, e se Will era infelice. Quando si era girata ed era uscita dalla stanza, era stato perché non ce l’aveva fatta più. Come potevano tre persone che si volevano bene provocarsi a vicenda tanto dolore? Tessa depose la spazzola e si guardò allo specchio. Era stanca, con gli occhi cerchiati, proprio com’era stato Will tutto il giorno, mentre era con lei nella biblioteca e aiutava Charlotte a decifrare le carte di Benedict Lightwood, traducendo brani scritti in greco, latino o purgatico, con la piuma d’oca che si muoveva svelta sulla carta, la testa scura china. Era strano guardare Will alla luce del giorno e ricordare il ragazzo che le si era aggrappato sui gradini della casa di Woolsey. Alla luce del giorno il viso di Will non era sereno, ma neppure aperto o affettuoso. Non era stato scostante o freddo, ma non aveva neanche alzato lo sguardo, né le aveva sorriso al di sopra del tavolo della biblioteca, né accennato in un modo qualsiasi agli avvenimenti della sera prima. Avrebbe voluto prenderlo da parte e chiedergli se avesse avuto notizie da Magnus, dirgli: “Nessuno capisce cosa provi tranne me, e nessuno capisce cosa provo tranne te, dunque non possiamo provarlo insieme?” Ma se Magnus lo avesse contattato, Will glielo avrebbe detto; era un uomo d’onore. Tutti lo erano. In caso contrario, pensò Tessa abbassando lo sguardo sulle proprie mani, forse non sarebbe stato tutto così orribile.

Era stato sciocco offrirsi di andare da Mortmain – lo sapeva – ma quell’idea l’aveva assalita con la foga di una passione. Non poteva essere la causa di tutta quell’infelicità e non fare nulla per alleviarla. Se si fosse consegnata a Mortmain, Jem sarebbe vissuto più a lungo, i due parabatai avrebbero avuto ognuno il conforto dell’altro, e sarebbe stato come se lei non fosse mai arrivata all’Istituto. Ma in quel momento, nelle fredde ore della sera, si rese conto che nulla di ciò che poteva fare avrebbe riportato indietro le lancette dell’orologio o annullato i sentimenti esistenti tra loro. Si sentiva vuota dentro, come se le mancasse un pezzo, eppure era paralizzata. Una parte di lei avrebbe voluto correre da Will, vedere se le sue mani erano guarite e dirgli che capiva. L’altra avrebbe voluto fare di corsa il corridoio fino alla stanza di Jem e supplicarlo di perdonarla. Non erano mai stati in collera prima d’ora, e non sapeva come trattare un Jem furioso. Avrebbe voluto porre fine al loro fidanzamento? Era deluso da lei? In qualche modo quell’idea era altrettanto dura da sopportare, il fatto che Jem potesse essere deluso da lei. Cric. Tessa alzò lo sguardo e lo fece vagare per la stanza. Un rumore fievole. Se l’era immaginato? Era stanca; forse era ora di chiamare Sophie per farsi aiutare con il vestito, e poi mettersi a letto con un libro. Era a metà del Castello di Otranto e lo trovava una eccellente distrazione. Si era alzata dalla sedia ed era andata a suonare il campanello della servitù quando il rumore si ripeté, più deciso. Un cric, cric, contro la porta. Con una leggera trepidazione, Tessa attraversò la stanza e la spalancò. Church era accovacciato dietro di essa, con il pelo arruffato, l’espressione furiosa. Legato intorno al collo aveva un fiocco di merletto argenteo e, attaccato al fiocco, c’era un foglio di carta arrotolato. Tessa si mise in ginocchio, allungò la mano verso il fiocco e lo sciolse; il nastro cadde a terra e il gatto scappò via lungo il corridoio. Tessa raccolse il foglio e lo srotolò. La pagina era occupata da una familiare calligrafia inclinata. Ci vediamo nella sala della musica. J. — Qui non c’è niente — disse Gabriel al fratello. Il soggiorno era immerso nell’oscurità, con le tende completamente chiuse; se non avessero avuto le stregaluci, sarebbe stato buio pesto. Gabriel stava scorrendo in fretta la corrispondenza sulla scrivania di Charlotte, per la seconda volta. — Che vuol dire, niente? — replicò Gideon, stando accanto alla porta. — Vedo una pila di lettere. Una di esse dev’essere sicuramente… — Nulla di scandaloso, e nemmeno di interessante. — Gabriel richiuse un cassetto della scrivania. — Un po’ di corrispondenza con uno zio a Idris. A quanto pare, ha la gotta. — Affascinante — borbottò Gideon. — Non si può fare a meno di chiedersi in che cosa, esattamente, il Console ritenga coinvolta Charlotte. In qualche tradimento ai danni del Consiglio? — Gabriel prese il fascio di lettere e fece una smorfia. — Potremmo rassicurarlo sulla sua innocenza soltanto se sapessimo di cosa la sospetta. — Non credo proprio che voglia essere rassicurato sulla sua innocenza — osservò Gideon. — Mi sembra più probabile che speri di coglierla in fallo. — Allungò una mano. — Dammi quella lettera.

— Quella allo zio? — Gabriel era dubbioso, ma fece come gli veniva detto. Tenne sollevata la stregaluce dirigendone i raggi sulla scrivania, mentre Gideon vi si chinava sopra e, presa una delle penne di Charlotte, cominciava a buttare giù una missiva al Console. Gideon stava soffiando sull’inchiostro per farlo asciugare, quando la porta del soggiorno si spalancò. Un bagliore giallo si riversò nella stanza, molto più vivo della fievole stregaluce; Gabriel alzò una mano per coprirsi gli occhi, sbattendoli. Avrebbe dovuto disegnarsi una runa per la Vista Notturna, ma impiegavano molto a svanire, e lui non voleva attirare l’attenzione degli altri Cacciatori. Mentre i suoi occhi si abituavano alla luce, sentì la voce sorpresa del fratello. — Sophie? — Vi ho già detto di non chiamarmi così, signor Lightwood. — Il tono della ragazza era gelido. Sophie era sulla soglia, con in mano una lampada accesa. Aveva gli occhi socchiusi. Si strinsero ancora di più quando si posarono su Gabriel, che aveva ancora in mano le lettere di Charlotte. — È la corrispondenza della signora Branwell? Gabriel lasciò cadere le lettere. — Io non… Noi… — Stavate leggendo le sue lettere? — Sophie sembrava furiosa, una specie di angelo vendicatore. Gabriel gettò in fretta uno sguardo al fratello, ma Gideon sembrava pietrificato. In tutta la sua vita, Gabriel non ricordava di avere mai visto il fratello lanciare più di un’occhiata neppure alla ragazze più graziose tra le Cacciatrici. In quel momento, invece, stava guardando quella cameriera mondana deturpata da una cicatrice come se fosse il sole che sorge. Era inspiegabile, ma altresì innegabile. Vide l’orrore diffondersi sul viso del fratello mentre la buona opinione che Sophie aveva di lui si frantumava davanti ai suoi occhi. — Sì — ammise Gabriel. — Sì, stiamo effettivamente scorrendo la sua corrispondenza. Sophie arretrò di un passo. — Vado immediatamente a chiamare la signora Branwell… — No… — Gabriel allungò una mano. — Non è come pensate. Aspettate. — Descrisse brevemente cosa era successo: le minacce del Console, la sua richiesta di spiare Charlotte e la loro soluzione al problema. — Non abbiamo mai inteso rivelare una sola parola che avesse davvero scritto — terminò. — La nostra intenzione era di proteggerla. L’espressione sospettosa di Sophie non cambiò. — E perché dovrei credere anche a una sola parola di quanto avete detto, signor Lightwood? Gideon finalmente prese la parola. — Signorina Collins, vi prego. So che da… dall’incresciosa faccenda… degli scones non mi stimate più, ma vi prego di credere che non avrei tradito la fiducia che Charlotte ha riposto in me, né ripagato con il tradimento la sua gentilezza nei miei confronti. Sophie esitò un momento, poi abbassò lo sguardo. — Mi dispiace, signor Lightwood. Vorrei credervi, ma la mia lealtà va innanzitutto alla signora Branwell. Gabriel afferrò dalla scrivania la lettera che il fratello aveva appena scritto. — Signorina Collins, vi prego, leggete questa missiva. È quanto avevamo intenzione di mandare al Console. Se, dopo averla letta, in cuor vostro sarete ancora decisa ad andare a chiamare la signora Branwell, non cercheremo di fermarvi. Sophie spostò lo sguardo da lui a Gideon. Poi, con un veloce cenno del capo, si fece avanti e depose la lampada sulla scrivania. Presa la lettera che Gideon le porgeva, la aprì e lesse ad alta voce:

— Al Console Josiah Wayland. Da Gideon e Gabriel Lightwood Caro signore, avete dato prova della grande saggezza che vi contraddistingue chiedendoci di leggere le missive della signora Branwell dirette a Idris. Siamo riusciti a dare un’occhiata in privato a detta corrispondenza e abbiamo constatato che la signora comunica quasi quotidianamente con il prozio Roderick Fairchild. Il contenuto di queste lettere, signore, susciterebbero in voi stupore e delusione. Ci ha sottratto molte delle nostre convinzioni sul sesso debole. La signora Branwell dimostra il più duro, disumano e poco femminile degli atteggiamenti nei confronti delle numerose malattie gravi del prozio. Raccomanda di bere meno liquore per curare la gotta, si mostra inequivocabilmente divertita dalla sua terribile idropisia e ignora del tutto i suoi accenni a una sostanza sospetta che gli si forma nelle orecchie e in altri orifizi. Dei segni di tenera cura femminile che ci si aspetterebbe da una donna nei confronti dei parenti di sesso maschile, nonché del rispetto dovuto da qualsiasi donna relativamente giovane a chi è più vecchio di lei, non c’è traccia! Temiamo che il potere abbia dato alla testa alla signora Branwell. Deve essere fermata, prima che sia troppo tardi e molti bravi Cacciatori finiscano in malora per mancanza di cure femminili. Sinceramente vostri, Gideon e Gabriel Lightwood Quando ebbe finito, il silenzio si prolungò. Sophie rimase immobile per quella che sembrò un’eternità, con gli occhi spalancati fissi sul foglio. Alla fine disse: — Chi di voi l’ha scritta? Gideon si schiarì la voce: — Io. Sophie alzò lo sguardo. Le labbra, sebbene serrate, le tremavano. Per un istante orribile, Gabriel pensò che stesse per piangere. — Santo cielo — mormorò Sophie. — Ed è la prima? — No, ce n’è stata un’altra — ammise Gabriel. — Parlava dei cappelli di Charlotte. — I cappelli? — Una risata proruppe dalle labbra di Sophie, e Gideon la guardò come se non avesse mai visto nulla di tanto meraviglioso. Gabriel dovette ammettere che, cicatrice o non cicatrice, quando rideva era piuttosto carina. — E il Console si è arrabbiato? — In maniera pazzesca — rispose Gideon. — Lo direte alla signora Branwell? — chiese Gabriel, non riuscendo a reggere oltre la tensione. La ragazza aveva smesso di ridere. — No, perché non voglio compromettervi agli occhi del Console, e anche perché penso che questa notizia la ferirebbe inutilmente. Spiarla così, che uomo orribile! — Sophie aveva gli occhi che mandavano scintille. — Se volete aiuto nel vostro piano per frustrare i progetti del Console, sarò felice di darvelo. Lasciatemi la lettera, mi assicurerò che venga imbucata domani. La sala della musica non era polverosa come Tessa la ricordava. Sembrava che di recente avesse ricevuto una bella pulita: il legno stagionato dei davanzali e dei pavimenti splendeva, come pure il grande piano nell’angolo. Nel focolare divampava il fuoco; la sagoma di Jem si stagliò contro le fiamme mentre si girava e, nel vedere Tessa, faceva un sorriso nervoso. Tutto nella stanza aveva i colori morbidi e tenui di un acquerello: la luce del fuoco che animava

come spettri gli strumenti coperti da teli bianchi, lo scuro bagliore del piano, il pallido riflesso dorato delle fiamme sui vetri. Tessa vi vedeva anche se stessa e Jem, uno di fronte all’altra: una ragazza in un vestito da sera azzurro e un ragazzo magro come un chiodo con una zazzera argentea, la giacca nera che pendeva un po’ troppo larga sul corpo snello. Il viso di Jem immerso nelle ombre era di una vulnerabilità assoluta, la curva delicata della bocca ne tradiva l’ansietà. — Non ero sicuro che saresti venuta. Tessa fece un passo avanti, con il desiderio di abbracciarlo, ma si frenò. Doveva prima parlare. — Certo che sono venuta — disse. — Jem, mi dispiace tanto. Tanto. Non so spiegarlo… è stata una specie di follia. Non sopportavo l’idea che ti potesse essere fatto del male per colpa mia, perché in qualche modo sono legata a Mortmain, e lui a me. — Non è colpa tua. Non è mai stata una tua scelta… — Non capivo. Will aveva ragione; non ci si può fidare di Mortmain. Anche se andassi da lui, non c’è alcuna garanzia che rispetterebbe la sua parte dell’impegno. E io metterei un’arma nelle mani del nostro nemico. Non so perché mi voglia, ma non è certo per il bene dei Cacciatori; di questo possiamo stare certi. Alla fine potrei perfino rivelarmi una rovina per tutti voi. — A Tessa bruciavano gli occhi per le lacrime, ma le trattenne a forza. — Perdonami, Jem. Non possiamo perdere il tempo che trascorriamo insieme stando in collera. Capisco perché hai fatto quello che hai fatto… io avrei fatto lo stesso per te. Mentre parlava, gli occhi di Jem si fecero dolci e argentei. — Zhe shi jie shang, wo shi zui ai ne de — sussurrò. Tessa capì. “Sei la cosa che amo di più al mondo.” — Jem… — Lo sai; devi saperlo. Non potrei mai lasciarti andare via da me, non per affrontare un pericolo, non finché avrò un alito di vita. — Poi, prima che la ragazza potesse fare un passo verso di lui, Jem sollevò una mano. — Aspetta. — Si chinò, e quando si rialzò aveva in mano l’astuccio del suo violino e l’archetto. — C’è una cosa che volevo darti. Un dono di nozze, per quando fossimo stati sposati. Ma, se permetti, mi piacerebbe dartelo ora. — Un dono? — fece lei, stupita. — Ma abbiamo litigato! Jem sorrise, il bel sorriso che gli illuminava il viso e faceva dimenticare quanto fosse sottile e tirato. — Sono stato informato che i litigi sono parte integrante della vita coniugale. Vuol dire che avremo fatto una buona pratica. — Ma… — Tessa, credi che ci sia un qualsiasi litigio, grande o piccolo, che possa farmi smettere di amarti? — Jem sembrava stupito. La ragazza pensò a tutti gli anni in cui Will aveva messo alla prova la lealtà di Jem, facendolo diventare matto a forza di bugie, sotterfugi e autolesionismo. Nonostante tutto, l’amore di Jem per parabatai non si era mai attenuato, né tantomeno si era infranto. — Avevo paura — disse Tessa. — E io… non ho nessun dono per te. — Sì che ce l’hai — replicò Jem. — Siediti, ti prego. Ricordi come ci siamo conosciuti? Tessa si sedette su una bassa sedia dai braccioli dorati, facendo frusciare le gonne. — Sono piombata nella tua stanza, nel cuore della notte, come una pazza — confessò. Jem sorrise. — Sei scivolata leggiadramente nella mia stanza e mi hai trovato che suonavo il violino. — Stava stringendo la vite dell’archetto; quando ebbe finito, lo mise giù e sfilò con amore il violino dall’astuccio. — Ti dispiace se ora suono per te?

— Lo sai che mi piace sentirti suonare. — Era vero. Le piaceva perfino sentirlo parlare del violino, sebbene ne capisse ben poco. Senza annoiarsi, poteva starlo a sentire parlare per ore intere di colofonia, piroli, ricci, archeggio, posizioni delle dita, e di come la corda del mi avesse tendenza a spezzarsi. — Wo wei ni xie de — disse Jem, quindi sollevò il violino sulla spalla sinistra e lo infilò sotto il mento. Le aveva detto che molti violinisti usavano una spalliera, ma lui non lo faceva. Nel punto in cui poggiava lo strumento aveva un lieve segno, come un livido permanente. — Hai… fatto qualcosa per me? — Ho scritto qualcosa per te — la corresse con un sorriso, e cominciò a suonare. Tessa lo ascoltava – e lo osservava – stupefatta. Cominciò in maniera semplice, dolce, stringendo con delicatezza l’archetto e producendo un suono sommesso, armonico. La melodia fluì su di lei, fresca e dolce come acqua, promettente e bella come il sorgere del sole. Tessa osservava affascinata le dita di Jem muoversi, traendo dalle corde note squisite. Il suono si fece più grave mentre l’archetto si muoveva più svelto; l’avambraccio di Jem andava avanti e indietro, il suo corpo esile sembrava lanciarsi in un movimento indistinto che partiva dalla spalla. Le sue dita scivolavano leggere su e giù, e il timbro della musica si faceva più profondo, nuvole temporalesche che si addensavano su un orizzonte sereno, un fiume trasformato in torrente. Le note si abbattevano ai piedi della ragazza, ne risalivano per circondarla. Tutto il corpo di Jem sembrava muoversi in sintonia con i suoni che si sprigionavano dallo strumento, sebbene Tessa sapesse che i suoi piedi erano saldamente piantati sul pavimento. Il cuore della ragazza batteva forte per tenere il passo con la musica; gli occhi di Jem erano chiusi, gli angoli della bocca piegati verso il basso, come se soffrisse. Una parte di lei voleva abbracciarlo; l’altra non voleva fare nulla per fermare la musica, quei suoni meravigliosi. Era come se Jem avesse preso l’archetto e lo usasse come un pennello, creando una tela su cui era chiaramente raffigurata la propria anima. Mentre le ultime note che si libravano in aria salivano sempre più su, innalzandosi al cielo, Tessa si rese conto di avere il viso bagnato, ma solo quando l’ultima nota fu svanita e Jem ebbe abbassato il violino si rese conto di avere pianto. Il Nephilim ripose lentamente lo strumento nell’astuccio e vi posò accanto l’archetto. Si raddrizzò e si girò verso la ragazza. Aveva un’espressione timida, sebbene la camicia bianca fosse zuppa di sudore e le vene del collo gli pulsassero. Tessa era senza parole. — Ti è piaciuto? — chiese Jem. — Avrei potuto regalarti un gioiello, ma volevo che si trattasse di una cosa che fosse completamente tua. Che nessun altro potesse sentire o possedere. E siccome non sono bravo con le parole, ho scritto in musica cosa provo per te. — Rimase un attimo in silenzio. — Ti è piaciuto? — ripeté, e il lieve calare della voce alla fine della domanda indicava che si aspettava di ricevere una risposta negativa. Tessa alzò il viso in modo che lui potesse vedervi le lacrime. — Jem… Jem si inginocchiò davanti a lei, con il viso contrito. — Ni jue de tong man, qin ai de? — No... no — disse Tessa metà piangendo, metà ridendo. — Non sono offesa. E neppure infelice. Per niente. Un sorriso balenò sul viso di Jem, accendendogli gli occhi di gioia. — Allora ti è piaciuto. — Era come se vedessi la tua anima nelle note della musica. Ed è stato bellissimo. — Tessa si chinò in avanti e gli toccò lievemente il viso, la pelle sopra gli zigomi, i capelli come piume contro il

dorso della sua mano. — Ho visto fiumi, barche come fiori, tutti i colori del cielo notturno. Jem sospirò, accasciandosi sul pavimento come se la forza fosse defluita dal suo corpo. — È una magia rara. — Appoggiò la testa contro le gambe della ragazza, che continuò ad accarezzargli i capelli, affondando le dita nella loro morbidezza. — Entrambi i miei genitori amavano la musica. Mio padre suonava il violino, mia madre il qin. Ho scelto il primo, ma avrei potuto studiare tutti e due. A volte me ne sono pentito, perché ci sono melodie cinesi che non posso suonare con il violino e che mia madre sarebbe stata felice che conoscessi. Mi raccontava la storia di Yu Boya, che era un grande suonatore di qin. Aveva un amico del cuore, un taglialegna di nome Zhong Ziqi, e suonava per lui. Dicono che quando Yu Boya suonava una canzone ispirata all’acqua, il suo amico capiva subito che stava descrivendo torrenti impetuosi, e quando suonava qualcosa sulle montagne, Ziqi ne vedeva le cime. E Yu Boya diceva: «È perché capisci la mia musica». — Jem abbassò lo sguardo sulla propria mano, leggermente serrata sul ginocchio. — La gente usa ancora l’espressione “zhi yin” per dire “amici intimi”, ma il suo significato letterale è “capire la musica”. — Allungò la mano e prese quella di Tessa. — Quando suonavo, hai visto ciò che vedevo io. Hai capito la mia musica. — Io non so niente di musica, Jem. Non distinguo una sonata da una partita… — No… — Il Nephilim si girò e si mise in ginocchio, reggendosi ai braccioli della sedia. Erano abbastanza vicini perché Tessa potesse vedere i suoi capelli umidi di sudore alle tempie e sulla nuca, sentire il suo odore di colofonia e zucchero bruciato. — Non è quella la musica che intendo. Io intendo… — Fece un verso sconfortato, le prese la mano, se la portò al petto e la spinse contro il cuore. Il battito regolare martellò contro il palmo della ragazza. — Ogni cuore ha la sua melodia. Tu conosci il mio. — Che cos’è successo al taglialegna e al musicista? — sussurrò Tessa. Jem fece un sorriso triste. — Zhong Ziqi morì, e Yu Boya suonò la sua ultima canzone sulla tomba dell’amico. Poi ruppe il qin e non suonò mai più. Tessa sentì la pressione calda delle lacrime che cercavano di farsi strada attraverso le ciglia. — Che storia terribile. — Credi? — Il cuore di Jem ebbe un sussulto e batté irregolare sotto le dita di lei. — Durante la sua vita e la sua amicizia con Ziqi, Yu Boya scrisse alcune delle musiche più eccelse che si conoscano. Avrebbe saputo farlo da solo? I nostri cuori hanno bisogno di uno specchio, Tessa. Noi vediamo il nostro io migliore negli occhi di coloro che ci amano. E c’è una bellezza che solo la brevità procura. — Jem abbassò lo sguardo, quindi lo alzò per incontrare quello di lei. — Ti darei tutto di me. In due settimane ti darei più di quanto la maggior parte degli uomini potrebbe darti in una vita. — Non c’è nulla che tu non mi abbia già dato, nulla di cui sia insoddisfatta… — Ma io sì — replicò Jem. — Voglio sposarti. Ti aspetterei per sempre, ma… Ma non abbiamo un per sempre. — Io non ho famiglia — disse Tessa. — Né un tutore. Nessuno che potrebbe… essere offeso… da un matrimonio più rapido. Gli occhi di Jem si allargarono. — Dici sul serio? Non vorrei che non avessi tutto il tempo che ti serve per i preparativi. — Di che tipo di preparativi immagini che possa avere bisogno? — chiese Tessa, e solo per quell’istante i suoi pensieri riandarono a Will, al modo in cui aveva infilato le mani nel fuoco per salvare la droga di Jem. Guardandolo, lei non aveva potuto fare a meno di ricordare il giorno in cui, nel soggiorno, le aveva detto che l’amava e poi, quando ne era uscito, lei aveva serrato la mano su un

attizzatoio, in modo che il dolore bruciante sulla pelle soffocasse almeno per un istante il dolore del cuore. Gli aveva mentito… se non nelle parole esatte, in ciò che sottintendevano. Gli aveva lasciato credere che non lo amava. Il pensiero la faceva ancora soffrire, ma non se ne pentiva. Non c’era stato altro modo. Conosceva Will abbastanza bene da sapere che, se anche lei avesse rotto con Jem, lui non si sarebbe fatto avanti. Non avrebbe sopportato un amore comprato al prezzo della felicità del parabatai. E se c’era una parte del cuore che apparteneva a Will e a Will solo, e gli sarebbe sempre appartenuta, si disse Tessa, non serviva a nessuno rivelarlo. Lei amava anche Jem… lo amava più di prima, da quando aveva acconsentito a sposarlo. “A volte bisogna scegliere se essere uomini buoni oppure d’onore” le aveva detto Will. “A volte non si può essere l’uno e l’altro.” Forse dipendeva davvero dal libro. Ma nel libro della sua vita la via del disonore era solo scortesia. Anche se aveva ferito Will nel soggiorno, con il tempo, via via che i suoi sentimenti per lei fossero svaniti, lui l’avrebbe ringraziata per non averlo legato. Ne era convinta. Non poteva amarla per sempre. Tessa aveva imboccato quel sentiero tanto tempo prima. Se si proponeva di percorrerlo fino in fondo il mese successivo, poteva percorrerlo fino in fondo anche il giorno dopo. Sapeva di amare Jem e, sebbene ci fosse una parte di lei che amava anche Will, il miglior dono che potesse fare a entrambi era che né Will né Jem venissero mai a saperlo. — Non so — disse Jem, guardandola dal pavimento con un’espressione che era un misto di speranza e incredulità. — Il Consiglio non ha ancora approvato la nostra richiesta… e tu non hai un abito… — Non mi importa del Consiglio. E non mi importa di cosa indosserò, se non importa a te. Se lo vuoi davvero, ti sposerò quando vorrai. — Tessa… — Jem allungò la mano verso la fidanzata, quasi stesse annegando, e lei abbassò la testa in modo che le loro labbra si toccassero. Jem si alzò sulle ginocchia. La sua bocca sfiorò quella di lei, una volta, due, finché le labbra di Tessa non si aprirono e lei poté sentire il suo dolce sapore di zucchero bruciato. — Sei troppo lontana — mormorò Jem, e poi la cinse con le braccia, e non ci fu più alcuno spazio tra loro; la trascinò giù dalla sedia, e furono tutti e due in ginocchio sul pavimento, abbracciati. La stringeva a sé, e le mani di lei percorrevano la forma del suo viso, dei suoi zigomi appuntiti. Così appuntite, troppo appuntite, le ossa del suo viso, il battito del sangue troppo vicino alla superficie della pelle, le clavicole dure come una collana di metallo. La mani di Jem salirono dalla sua vita alle spalle; le sue labbra le sfiorarono prima una clavicola, poi l’incavo della gola, mentre le dita di Tessa si infilavano nella sua camicia, sollevandola in modo da toccare la pelle nuda. Era così magro, la colonna vertebrale così in rilievo sotto il suo tocco. Lo vedeva stagliato contro la luce del caminetto, dipinto in ombra e fuoco, mentre le fiamme davano una sfumatura d’oro ai suoi capelli bianchi. “Ti amo” le aveva detto. “Sei la cosa che amo di più al mondo.” Tessa sentì la pressione ardente della sua bocca contro l’incavo della gola, poi più in basso. I suoi baci finirono dove finiva il vestito. Sentì il proprio cuore pulsare sotto le labbra di Jem, come cercando di protendersi verso di lui, cercando di battere per lui. Sentì la sua mano timida scivolarle intorno al corpo, verso il punto in cui i lacci le chiudevano il vestito…

La porta si aprì con uno scricchiolio, e i due fidanzati si separarono di scatto, ansimando entrambi come se avessero fatto una corsa. Mentre fissava la soglia vuota, Tessa sentì il sangue rimbombarle forte nelle orecchie. Accanto a lei l’ansito di Jem si trasformò in uno scoppio di risa. — Cosa…? — Church — disse Jem. Tessa abbassò lo sguardo e scorse il gatto che, dopo aver aperto la porta con una spinta, gironzolava sul pavimento della sala della musica con un’aria molto soddisfatta. — Non ho mai visto un gatto tanto compiaciuto di sé — disse, mentre Church – ignorandola, come sempre – si avvicinava a passi felpati a Jem e gli dava dei colpetti con la testa. — Quando ho detto che forse avremmo avuto bisogno di uno chaperon, non intendevo questo. — Jem accarezzò la testa del gatto, sorridendo. — Tessa, dicevi sul serio? Davvero mi sposeresti domani? Lei sollevò il mento e lo guardò dritto negli occhi. Non sopportava l’idea di aspettare e di perdere un altro attimo della sua vita. Voleva essere legata a lui subito, ardentemente – in salute e in malattia, nella buona e nella cattiva sorte – essere legata a lui da una promessa e potergli dare la propria parola e il proprio amore senza esitazioni. — Sì — rispose. La sala da pranzo non era ancora del tutto piena, visto che non tutti erano ancora scesi a colazione, quando Jem fece il suo annuncio. — Io e Tessa ci sposiamo — disse con molta calma, passandosi il tovagliolo sul labbro. — Dovrebbe essere una sorpresa? — chiese Gabriel, che già indossava la tenuta da combattimento, come se dopo la colazione avesse intenzione di esercitarsi. Aveva appena preso tutto il bacon dal vassoio, ignorando lo sguardo biasimevole di Henry. — Non siete già fidanzati? — La data del matrimonio era stata fissata per dicembre, ma abbiamo cambiato idea — spiegò Jem, allungando la mano sotto il tavolo per stringere in maniera rassicurante quella di Tessa. — Intendiamo sposarci domani. L’effetto fu galvanizzante. A Henry andò di traverso il tè; Charlotte, che sembrava ammutolita, dovette dargli delle pacche sulla schiena. Gideon lasciò cadere rumorosamente la tazza sul piattino, e perfino Gabriel rimase con la forchetta a mezz’aria. Sophie, che era appena arrivata dalla cucina con un porta-toast, restò senza fiato. — Ma non potete! — disse. — L’abito della signorina Gray è un disastro, e il nuovo non è stato ancora cominciato. — Può indossare un abito qualunque — replicò Jem. — Non deve per forza portarne uno dorato come le Cacciatrici, perché non lo è. Ha parecchi bei vestiti; può scegliere il suo preferito. — Fece un timido cenno del capo verso Tessa. — Cioè, se per te va bene. Tessa non rispose, perché in quel momento Will e Cecily avevano varcato insieme la soglia. — Ho un tale torcicollo — stava dicendo Cecily con un sorriso. — Non posso quasi credere di essere riuscita ad addormentarmi in una simile posizione… — Si interruppe, mentre tutti e due sembravano percepire l’atmosfera nella stanza e si fermavano, guardandosi intorno. Will sembrava più riposato del giorno prima, sebbene il suo cauto buonumore stesse chiaramente scemando via via che si guardava intorno e coglieva le espressioni degli altri presenti. — Che c’è? — domandò. — È successo qualcosa? — Io e Tessa abbiamo deciso di anticipare la cerimonia di nozze — disse Jem. — Avrà luogo a

giorni. Will non disse nulla, ma impallidì. Non guardò Tessa. — Jem, l’Enclave non ha ancora approvato il vostro matrimonio — disse Charlotte, smettendo di dare pacche sulla schiena di Henry e alzandosi con un’espressione agitata sul viso. — Non potete mettervi contro di loro… — Non possiamo neppure aspettarli — replicò Jem. — Potrebbero volerci dei mesi, un anno… sai che preferiscono ritardare, piuttosto che dare una risposta che temono non sia gradita. — E poi, al momento, il nostro matrimonio non può essere al centro del loro interesse — disse Tessa. — Le carte di Benedict Lightwood, la ricerca di Mortmain… tutto ciò deve avere la priorità. Mentre questa è una faccenda privata. — Non ci sono faccende private per l’Enclave — affermò Will. La sua voce suonava vuota e strana, come se fosse lontanissimo. Sulla gola gli pulsava una vena. Tessa pensò al delicato rapporto che avevano cominciato a costruire nei giorni passati e si chiese se il matrimonio non l’avrebbe distrutto, mandandolo in pezzi come una fragile imbarcazione contro le rocce. — Mia madre e mio padre… — Ci sono disposizioni sul matrimonio con i mondani. Ma non ci sono disposizioni sul matrimonio tra un Nephilim e ciò che è Tessa — disse Jem. — E, se dovrò, rinuncerò – come tuo padre – a essere un Cacciatore. — James… — Avrei pensato che tu, tra tutti, mi avresti capito — continuò Jem, rivolgendo a Will uno sguardo confuso e ferito. — Non sto dicendo che non ti capisco. Ti sto solo esortando a riflettere… — Ho riflettuto abbastanza. — Jem appoggiò la schiena alla spalliera. — Ho una licenza di matrimonio mondana, ottenuta legalmente e firmata. Potremmo andare in una qualsiasi chiesa e sposarci oggi. Preferirei di gran lunga che voi tutti foste presenti ma, se non potete, lo faremo comunque. — Sposare una ragazza solo per farne una vedova — disse Gabriel Lightwood. — Molti non lo troverebbero un atto di gentilezza. Jem si irrigidì accanto a Tessa, con la mano tesa nella sua. Will si mosse in avanti, ma Tessa era già in piedi e trafiggeva Gabriel con lo sguardo. — Nessuno osi parlarne come se Jem avesse avuto tutte le possibilità di scegliere e io nessuna — disse la ragazza. — Questo fidanzamento non mi è stato imposto, e neppure mi faccio illusioni sulla salute di Jem. Scelgo di stare con lui per tutti i giorni o i minuti che ci saranno concessi, e mi reputo fortunata per averli avuti. Gli occhi di Gabriel erano freddi come il mare al largo delle coste della Terranova. — Ero soltanto preoccupato per il vostro bene, signorina Gray. — State piuttosto attento al vostro — ribatté Tessa. Gli occhi verdi si strinsero. — Che significa? — Credo che la signora voglia dire che non è stata lei a uccidere il padre — rispose Will, strascicando le parole. — O ti sei ripreso così in fretta da quella brutta storia, Gabriel, che non dobbiamo preoccuparci per i tuoi sentimenti?

Cecily si lasciò sfuggire un verso stupito. Gabriel si alzò e, nella sua espressione Tessa rivide il ragazzo che aveva sfidato Will a duello la prima volta che lo aveva incontrato, tutto arroganza, freddezza e odio. — Se oserai… — Basta! — disse Charlotte… e poi si interruppe, mentre dalle finestre giungeva il cigolio del cancello arrugginito dell’Istituto che si apriva e lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli sul lastricato. — Oh, per l’Angelo! Jessamine… — Charlotte si alzò di scatto, abbandonando il tovagliolo sul piatto. — Venite… dobbiamo scendere a darle il benvenuto. Pur essendo per altri aspetti un arrivo inopportuno, si dimostrò quantomeno un’eccellente distrazione. Ci fu un po’ di confusione, e un lieve smarrimento da parte di Gabriel e Cecily, nessuno dei quali in realtà capiva esattamente chi fosse Jessamine o quale ruolo avesse svolto nella vita dell’Istituto. Si avviarono lungo il corridoio in ordine sparso, e Tessa si tenne leggermente indietro; le mancava il fiato, come se il corsetto la stringesse troppo. Pensò alla notte precedente, quando, abbracciati nella sala della musica, lei e Jem si erano baciati e sussurrati l’un l’altra per ore a proposito della cerimonia di nozze, e del matrimonio che sarebbe seguito… come se avessero tutto il tempo del mondo. Come se, sposandosi, Jem potesse diventare immortale, pur se entrambi sapevano benissimo che non era così. Mentre iniziava a scendere la scala che conduceva all’ingresso, Tessa inciampò, sovrappensiero; una mano sul braccio la fece rimanere in equilibrio. Alzò lo sguardo e vide Will. Rimasero così per un momento, irrigiditi, come un gruppo marmoreo. Gli altri erano già in fondo alla scala, le loro voci salivano come fumo. Sebbene la mano di Will fosse delicata sul braccio di Tessa, il suo viso era quasi inespressivo, sembrava scolpito nel granito. — Non sei d’accordo con gli altri, vero? — disse lei, con una sfumatura più pungente di quanto avrebbe voluto. — Mi hai chiesto se lo amavo abbastanza da sposarlo e renderlo felice, e io ti ho risposto di sì. Non so se potrò renderlo del tutto felice, ma posso provarci. — Se c’è qualcuno che può farlo, sei tu — disse Will, con gli occhi fissi in quelli di lei. — Gli altri pensano che mi faccia illusioni sulla sua salute. — La speranza non è illusione. Le parole erano incoraggianti, ma c’era qualcosa nella sua voce, qualcosa di morto, che la spaventò. — Will… — Tessa lo prese per il polso. — Non vorrai abbandonarmi ora? Non vorrai lasciarmi da sola a cercare una cura? Non posso farlo senza di te. Will fece un profondo respiro, socchiudendo gli occhi. — Certo che no. Non rinuncerei mai a lui, a te. Ti aiuterò. Continuerò a farlo. È solo che… — Si interruppe e girò il viso. La luce che scendeva dalla finestra in alto gli illuminava la guancia, il mento e la curva della mascella. — Cosa? — Ricordi cos’altro ho detto allora nel soggiorno? Voglio che tu sia felice, e che lo sia Jem. Eppure, quando percorrerai il corridoio della chiesa per incontrarlo e unirti per sempre a lui, camminerai su un sentiero invisibile fatto dei frammenti del mio cuore, Tessa. Darei la vita per la tua felicità. Dopo che mi hai rivelato di non amarmi, ho sperato che i miei sentimenti si sarebbero attenuati e atrofizzati, ma non è stato così. Sono aumentati di giorno in giorno. Ora, in questo istante, ti amo più disperatamente di quanto ti abbia mai amata prima, e tra un’ora ti amerò ancora di più. È ingiusto dirtelo, lo so, visto che non puoi farci nulla. — Will fece un respiro spezzato. — Quanto

devi disprezzarmi… Tessa si sentì mancare il terreno sotto i piedi. Ricordò cosa si era detta la notte prima: che sicuramente i sentimenti di Will per lei si erano affievoliti, che con il passare degli anni avrebbe sofferto meno di lei. Ne era stata convinta. Ma ora… — Non ti disprezzo, Will. Ti sei comportato da vero uomo d’onore… più di quanto ti abbia mai chiesto di fare… — No — replicò lui, in tono amaro. — Credo che non ti aspettassi nulla da me. — Mi aspettavo tutto da te — sussurrò Tessa. — Più di quanto ti sia mai aspettato da te stesso. Ma hai dato perfino di più. — Le tremava la voce. — Dicono che non si possa dividere il proprio cuore, eppure… — Will! Tessa! — Charlotte li chiamava dall’ingresso. — Non perdete tempo! Uno di voi due può andare a chiamare Cyril? Potremmo avere bisogno di aiuto per la carrozza, se i Fratelli Silenti intendono fermarsi. Tessa rivolse uno sguardo impotente a Will, ma quell’attimo tra loro si era ormai infranto. L’animo di Will si era richiuso; la disperazione che lo aveva alimentato un attimo prima era svanita. Era lontano, come se tra loro si fossero frapposte mille porte chiuse. — Tu va’ giù. Io arrivo tra poco — disse in tono piatto. Poi si girò e corse su per la scala. Tessa appoggiò una mano al muro mentre scendeva i gradini, stordita. Cos’era stata per fare? Cos’era stata sul punto di dire a Will? Eppure io ti amo. Ma Dio del Cielo, a cosa sarebbe servito? Che vantaggio avrebbero mai potuto recare loro quelle parole? Per lui sarebbe stato un fardello tremendo, perché avrebbe conosciuto i suoi sentimenti, ma non avrebbe potuto farci niente. E poi così lo avrebbe legato a lei, non lo avrebbe lasciato libero di cercare qualcun’altra da amare… una ragazza che non fosse impegnata con il suo migliore amico. Qualcun’altra da amare. Tessa uscì sulla scala d’ingresso dell’Istituto e sentì il vento penetrarle nei vestiti come un coltello. Gli altri erano già tutti sui gradini, con l’aria un po’ imbarazzata; soprattutto Gabriel e Cecily, che sembravano chiedersi cosa ci stessero mai facendo là. Tessa quasi non li notò. Le faceva male il cuore e sapeva che non era il freddo. Era l’idea di Will innamorato di qualcun’altra. Ma il suo era puro egoismo. Se Will avesse trovato qualcun’altra da amare, lei l’avrebbe sopportato, mordendosi le labbra in silenzio, come lui aveva sopportato il suo fidanzamento con Jem. Glielo doveva, pensò, mentre una carrozza scura, guidata da un uomo con indosso la tonaca color pergamena dei Fratelli Silenti, varcava rumorosamente il cancello aperto. Doveva a Will un comportamento onorevole quanto il suo. Il veicolo arrivò ai piedi della scala e si fermò. Tessa sentì Charlotte muoversi a disagio alle sue spalle. — Un’altra carrozza? — disse la donna. Seguendo il suo sguardo, Tessa vide che in effetti c’era una seconda carrozza, tutta nera, senza insegne, che entrava silenziosamente appresso alla prima. — Una scorta — disse Gabriel. — Forse i Fratelli Silenti temono che provi a scappare. — No. — La voce di Charlotte era velata per lo smarrimento. — Non lo farebbe… Il Fratello Silente alla guida della prima carrozza depose le redini e smontò, quindi si avvicinò allo sportello. In quel momento, il secondo veicolo gli si fermò alle spalle, e lui si girò. Tessa non poteva scorgerne l’espressione, giacché aveva il viso nascosto dal cappuccio, ma

qualcosa – nella posizione del suo corpo – indicava sorpresa. Tessa socchiuse gli occhi… c’era qualcosa di strano nei cavalli che tiravano la seconda carrozza: i loro corpi non scintillavano come pelli di animali ma come metallo, e i loro movimenti erano veloci in maniera innaturale. Il guidatore della seconda carrozza balzò giù dalla cassetta atterrando con un tonfo inquietante, e Tessa scorse un bagliore metallico quando la sua mano salì al collo della tonaca color pergamena… e la strappò via. Sotto c’era uno scintillante corpo metallico munito di testa ovoidale, senza occhi, con rivetti di rame che tenevano insieme le giunture di gomiti, ginocchia e spalle. Il braccio destro, sempre che si potesse chiamarlo così, terminava con una rudimentale balestra di bronzo. Quel braccio si sollevò e si fletté. Una freccia di acciaio con un impennaggio di metallo nero volò attraverso l’aria e si conficcò nel petto del primo Fratello Silente, che fu scaraventato per parecchi metri attraverso il cortile prima che toccasse terra, con la tonaca zuppa di sangue.

9 SCOLPITO NEL METALLO

Versava il metallo liquido In stampi già pronti allo scopo, dai quali formava Innanzitutto i suoi strumenti; e cos’altro possa esser foggiato Nel metallo fuso o nel metallo scolpito. John Milton, Il paradiso perduto

Tessa, impietrita dallo shock, si rese conto che i Fratelli Silenti avevano il sangue rosso come qualsiasi comune mortale. Charlotte gridò qualcosa. Henry si precipitò giù dai gradini, correndo verso la prima carrozza, e spalancò lo sportello. Jessamine gli cadde tra le braccia; aveva il corpo inerte, gli occhi semichiusi. Indossava il vestito bianco lacero che Tessa le aveva visto quando era andata a trovarla nella Città Silente. I bei capelli biondi erano rasati a zero come quelli di un malato di febbre. — Henry… — singhiozzò, aggrappandosi ai risvolti della sua giacca. — Aiutami, Henry. Portami dentro l’Istituto, ti supplico… Henry si girò, con Jessamine in braccio, proprio mentre lo sportello dell’altra carrozza si spalancava e ne fuoriuscivano altri automi, che si unirono al primo. Sembravano dispiegarsi, mentre scendevano, come giocattoli di carta: uno, due, tre, e poi Tessa perse il conto mentre i Cacciatori intorno a lei mettevano mano alle armi appese alle cinture. Vide il balenio del metallo sprizzare fuori dal bastone-spada di Jem, sentì dei mormorii in latino mentre le lame angeliche si levavano scintillando intorno a lei in un circolo di fuoco sacro. E gli automi attaccarono. Uno di essi corse verso Henry e Jessamine, mentre gli altri si lanciavano verso i gradini. Tessa sentì Jem gridare il suo nome, e si rese conto di essere disarmata: quel giorno non aveva progettato di allenarsi. Si guardò intorno freneticamente in cerca di un oggetto qualsiasi, un sasso pesante, un bastone; poi ricordò che alle pareti dell’ingresso erano appese delle armi, come ornamento. Corse dentro e sganciò dal sostegno una spada, quindi si girò e si precipitò di nuovo fuori. Trovò il caos. Jessamine era a terra, accovacciata accanto a una ruota della carrozza, con le braccia sul viso. Henry, davanti a lei, agitava la lama angelica nel tentativo di ricacciare gli automi che cercavano di sopraffarlo protendendo le mani, munite di punte, verso la ragazza. Le altre creature meccaniche si erano sparpagliate sui gradini e stavano affrontando i Cacciatori.

Tessa sollevò la spada, girando freneticamente lo sguardo nel cortile. Gli automi erano diversi da quelli che aveva visto in precedenza: si muovevano con più rapidità, senza scatti, le giunture di rame si piegavano e si allungavano agevolmente. Sul gradino più basso, Gabriel e Gideon erano impegnati in un combattimento furibondo con un mostro meccanico alto tre metri che agitava contro di loro le sue mani armate di punte; Gabriel aveva già un largo taglio sulla spalla. Jem lasciò la posizione accovacciata per conficcare il suo bastone-spada nella testa di un altro automa, che agitò le braccia e cercò di arretrare, anche se la lama era ormai affondata nel cranio metallico. Jem la sfilò con uno strattone e, quando l’automa lo assalì di nuovo, menò un fendente alle gambe, tranciandone una. La creatura sbandò di lato e crollò sui ciottoli. Più vicino a Tessa, la frusta di Charlotte guizzò in aria come un fulmine, recidendo il braccio a balestra del primo automa, che tuttavia non arrestò il suo attacco. Mentre la creatura cercava di afferrare Charlotte con il restante braccio a spatola, munito anch’esso di artigli, Tessa si precipitò tra loro e roteò la spada come Gideon le aveva insegnato, usando tutto il corpo per indirizzare il colpo e calandolo poi dall’alto per sfruttare la forza di gravità. La lama si abbassò, troncando il secondo braccio metallico. Mentre dalla ferita sgorgava un fluido nerastro, l’automa continuò ad avanzare, chinandosi per colpire Charlotte con la testa (da cui spuntava una lama corta e affilata), ferendola alla parte superiore del braccio. La donna gridò e si lanciò in avanti con la frusta, la cui striscia di elettro argenteo-dorato si avvolse intorno alla gola della creatura, quindi tirò forte; infine diede uno strattone e la testa cadde di lato, recisa. Finalmente l’automa crollò a terra, mentre fiotti del fluido scuro fuoriuscivano dagli squarci del telaio metallico. Tessa ansimava per lo sforzo; il sudore le aveva incollato i capelli alla fronte e alle tempie, ma lei aveva bisogno di entrambe le mani per brandire la pesante spada e non poteva scostarli. Attraverso gli occhi che le bruciavano vide Gabriel e Gideon: avevano gettato a terra il loro automa e lo stavano facendo a pezzi. Dietro di loro, Henry fece una schivata, appena in tempo per evitare un colpo della creatura che lo aveva stretto contro la carrozza. Le mani simili a clave centrarono il finestrino e i vetri piovvero su Jessamine, che strillò. Henry sollevò la lama angelica e l’affondò nel torace dell’automa. Tessa era abituata a vedere le lame angeliche ardere all’interno dei demoni riducendoli in nulla, ma l’automa si limitò a barcollare per poi riprendere ad avanzare, con la spada che ardeva come una torcia affondata nel petto. Con un urlo, Charlotte si mise a correre giù dai gradini verso il marito. Tessa si guardò intorno… e non vide Jem. Ebbe un tuffo al cuore. Fece un passo avanti… E una sagoma scura le si parò di fronte, tutta vestita di nero. Guanti neri le coprivano le mani, e stivali neri i piedi. Tessa vide soltanto un viso bianco come la neve circondato dalle pieghe di un cappuccio nero, familiare e orribile come un incubo ricorrente. — Salve, signorina Gray — disse la signora Black. Pur avendo infilato la testa in ogni stanza che gli era venuta in mente, Will non era riuscito a trovare Cyril. Ciò l’aveva irritato ancor più di quanto avesse fatto il suo incontro con Tessa sulle scale. Dopo due mesi in cui era stato talmente cauto nei rapporti con lei da avere l’impressione di procedere sulla lama di un rasoio, aveva lasciato fuoriuscire i suoi sentimenti come sangue da una ferita aperta, e solo il richiamo di Charlotte aveva evitato che quella sciocchezza si trasformasse in un disastro.

Tuttavia, la replica di Tessa non gli dava requie mentre percorreva il corridoio e oltrepassava la cucina. Dicono che non si possa dividere il proprio cuore, eppure… Eppure cosa? Cos’era stata sul punto di dire? La voce di Bridget risuonò squillante dalla sala da pranzo, dove stava sparecchiando insieme a Sophie. «Oh, mamma, mamma, fammi il letto Fammelo soffice, fammelo stretto. Il mio William è morto d’amore per me, E io morirò di dolore.» La seppellirono nel vecchio cimitero. La tomba del dolce William era accanto alla sua, Dalla tomba di lui crebbe una rosa vermiglia, Dalla tomba di lei un rovo. Crebbero, crebbero sul campanile della vecchia chiesa Finché non poterono spingersi più in alto E là si intrecciarono in un nodo d’amore sincero, La rosa vermiglia e il rovo. Will si stava chiedendo oziosamente come facesse Sophie a trattenersi dal dare un piatto in testa a Bridget, quando si sentì attraversare da una scossa, come se lo avessero colpito in pieno petto. Inciampò all’indietro contro la parete ansimando brevemente e portandosi la mano alla gola; vi sentiva battere qualcosa, come un secondo cuore contro il proprio. La catenella del ciondolo datogli da Magnus era fredda al tocco, Will l’allontanò svelto dalla camicia e vide spuntarne fuori la pietra che vi era appesa… rosso scura e pulsante di una luce scarlatta simile alla parte interna di una fiamma. Si rendeva vagamente conto che Bridget aveva smesso di cantare, e che entrambe le ragazze erano accorse sulla soglia della sala da pranzo e lo stavano fissando con gli occhi sgranati dallo stupore. Mollò il ciondolo, lasciandolo ricadere sul petto. — Che c’è, signorino Will? — disse Sophie. Da quando era venuta fuori la verità sulla maledizione aveva smesso di chiamarlo signor Herondale, ma Will si chiedeva ancora se le andasse davvero a genio. — State bene? — Non sono io — rispose Will. — Dobbiamo andare di sotto, e alla svelta. Qualcosa dev’essere andato tremendamente storto. — Ma… voi siete morta — disse Tessa senza fiato, indietreggiando di un passo. — Vi ho vista morire… — Si interruppe con un urlo mentre due lunghe braccia metalliche la cingevano da dietro, facendole perdere l’equilibrio. La spada cadde rumorosamente a terra, Tessa si sentì stringere come in una morsa e vide la signora Black rivolgerle un sorriso terribilmente gelido. — Suvvia, signorina Gray. Non siete neppure un pochino felice di vedermi? Dopotutto, sono stata la prima a darvi il benvenuto in Inghilterra. Anche se suppongo che, da allora, vi siate ambientata piuttosto bene.

— Lasciatemi andare! — Tessa sferrò un violento calcio all’indietro, ma l’automa sbatté la testa contro la sua, facendole mordere il labbro. Tessa si sentì soffocare e sputò: saliva e sangue schizzarono il viso cereo della signora Back. — Preferirei morire piuttosto che venire con voi. La Sorella Oscura si ripulì con un guanto e una smorfia di disgusto. — Sfortunatamente, è impossibile. Mortmain vi vuole viva. — Schioccò le dita verso l’automa. — Portala alla carrozza. La creatura meccanica fece un passo avanti, con la ragazza in braccio… e cadde a faccia in giù. Tessa ebbe a malapena il tempo di allungare le braccia per attutire la caduta mentre colpiva il terreno con l’automa sopra di sé. Il dolore le trafisse il polso destro, ma ci si appoggiò comunque e si girò su un fianco con un urlo, quindi scivolò giù dai gradini mentre le risuonava nelle orecchie il grido di frustrazione della signora Black. Alzò lo sguardo, stordita. La Sorella Oscura era scomparsa. L’automa si inclinò sui gradini, con una parte del corpo metallico troncata via. Tessa gettò un rapido sguardo a quanto c’era al suo interno: dispositivi, meccanismi e tubicini che pompavano un liquido scuro. Jem stava sopra l’automa, respirando a fatica, sporco di quel sangue nero e viscoso; aveva un’espressione risoluta in volto. Guardò Tessa, un controllo veloce per accertarsi che stesse bene, e saltò giù dalla scala, colpendo di nuovo la creatura meccanica e staccandole una gamba dal tronco. L’automa fu percorso da spasmi, come un serpente agonizzante, ma il braccio che gli rimaneva si protese, afferrò il Cacciatore per una caviglia e diede un forte strattone. Jem finì rumorosamente a gambe all’aria, rotolando sui gradini avvinghiato all’automa in un abbraccio spaventoso. Il rumore del metallo contro la pietra, che risuonò mentre la creatura scivolava, era orribile. Quando toccarono terra, l’impatto della caduta li separò. Tessa osservò terrorizzata Jem rialzarsi barcollando, il suo sangue rosso mescolato al liquido nero che gli macchiava i vestiti. Il bastone-spada era rimasto su uno dei gradini di pietra, dove gli era caduto durante il ruzzolone. — Jem… — sussurrò la ragazza, e si tirò su in ginocchio. Cercò di trascinarsi in avanti, ma il polso le cedette; si appoggiò ai gomiti e allungò una mano verso il bastone… E in quel mentre, due braccia la cinsero e la tirarono su. — Non vi dibattete, signorina Gray, o ve la vedrete molto brutta, davvero molto brutta — minacciò la voce sibilante della signora Black. Tessa cercò di divincolarsi, ma qualcosa di soffice le coprì sia la bocca, sia il naso. Sentì un odore dolciastro e nauseabondo, poi le si oscurò la vista e perse i sensi. Impugnando la lama angelica, Will balzò fuori della porta aperta dell’Istituto e si ritrovò nel caos. Subito cercò con gli occhi Tessa, ma senza vederla da nessuna parte. Doveva avere avuto il buonsenso di nascondersi, si disse. Una carrozza nera era parcheggiata in fondo ai gradini; afflosciata contro una delle ruote, in un mare di frammenti di vetro, c’era Jessamine. Ai suoi lati c’erano Henry e Charlotte: l’uno con la spada e l’altra con la frusta, tenevano a bada tre automi dalle gambe lunghe, le braccia provviste di lame e le teste lisce, prive di lineamenti. Il bastone-spada di Jem giaceva sui gradini, inondati di nero liquido viscoso. Non lontano dalla porta, Gabriel e Gideon Lightwood affrontavano altri due automi con la perizia di guerrieri che si erano allenati insieme per anni. Cecily era in ginocchio accanto al corpo di un Fratello Silente, la cui tonaca era zuppa di sangue. Il cancello dell’Istituto era aperto, e ne stava uscendo a tutta velocità una seconda carrozza nera. Ma Will non le prestò quasi attenzione, perché in fondo ai gradini c’era Jem: pallido come un cencio ma in piedi, indietreggiava mentre un altro automa avanzava verso di lui. La creatura barcollava

quasi come un ubriaco, con metà del corpo e un braccio tranciati, ma Jem era disarmato. La fredda lucidità della battaglia invase Will, e tutto sembrò rallentare intorno a lui. Era consapevole che Sophie e Bridget, entrambe armate, si erano disposte ai suoi fianchi; poi Sophie era corsa accanto a Cecily, e Bridget, in un turbinio di capelli rossi e di lame che fendevano l’aria, iniziò a colpire un automa con una ferocia che in altre circostanze lo avrebbe sbalordito. Ma il mondo di Will si era ristretto a Jem e alla creatura metallica che costui stava affrontando. Alzando lo sguardo, Jem vide il parabatai e allungò una mano. Saltando quattro gradini e scivolando di lato, Will agguantò il bastone-spada e glielo lanciò. Jem lo prese al volo proprio mentre l’automa gli si scagliava contro: lo tagliò in due di netto. La parte di sopra cadde, ma le gambe e la parte inferiore del tronco, che pompavano una grande quantità di liquido scuro, continuò a barcollare verso il Nephilim. Jem ruotò di lato e menò un altro fendente tranciando le ginocchia dell’automa che finalmente crollò a terra. Gli sguardi dei due amici si incontrarono per un istante, e Will rivolse un sorriso a Jem… che tuttavia non glielo restituì; era bianco come un lenzuolo, e Will non poteva leggere nei suoi occhi. Si chiese se fosse ferito. Era coperto da tanto di quell’olio e di quel liquido che Will non avrebbe saputo dire se stesse sanguinando. Stravolto dall’ansia, fece per scendere i gradini diretto verso il parabatai… ma, prima che lui potesse fare più di pochi passi, Jem si girò e corse verso il cancello. Sotto gli occhi di Will, Jem lo varcò e sparì, dileguandosi nelle strade di Londra. Anche Will scattò… ma ai piedi della scala fu fermato da un automa che gli si parò davanti per bloccargli la strada. Le sue braccia terminavano con lunghe forbici; quando una di esse cercò di colpirlo al viso, Will fece una schivata e gli ficcò la lama angelica nel petto. Risuonò lo sfrigolio del metallo che fondeva, ma l’automa si limitò a indietreggiare di un passo, e poi si gettò di nuovo in avanti. Will si abbassò sotto le braccia munite di lame e sfilò un pugnale dalla cintura. Poi roteò all’indietro brandendo l’arma… e vide l’automa ridotto all’improvviso in strisce: larghe fette di metallo si staccavano dal corpo come la buccia di un’arancia. Il liquido nero ribollì e schizzò sul viso di Will mentre l’automa cadeva a terra in frammenti. Il Nephilim sgranò gli occhi. Bridget lo guardava placidamente al di sopra dell’avversario distrutto. Nonostante i capelli scompigliati che le circondavano la testa come una nuvola di riccioli rossi e il grembiule bianco coperto di sangue nero, il suo viso era inespressivo. — Dovreste stare più attento — disse. — Non vi pare? Will era senza parole. Fortunatamente, Bridget non sembrava aspettarsi una risposta; agitò i capelli e andò verso Henry, che stava combattendo contro un automa alto più di quattro metri dall’aria particolarmente spaventosa. Gli aveva già staccato un braccio, ma l’altro, una lunga mostruosità snodata che terminava con una lama curva simile a un kindjal, continuava a sferrare colpi. Bridget andò tranquillamente alle spalle dell’automa e gli conficcò la lama nella giuntura del tronco. Vi fu una pioggia di scintille, quindi la creatura si mise ad avanzare vacillando. Jessamine, ancora accovacciata contro la ruota della carrozza, urlò e si tolse dalla traiettoria letale strisciando a quattro zampe verso Will. Il Cacciatore la guardò sbalordito per un istante mentre, pur ferendosi a sangue mani e ginocchia sui frammenti del finestrino rotto, continuava a strisciare. Poi, come se lo avessero schiaffeggiato per strapparlo dal torpore, si mosse in avanti, aggirò fulmineo Bridget e fece scivolare le braccia sotto Jessie, sollevandola di peso da terra. La ragazza emise un verso soffocato – il suo nome, immaginò

Will – e poi gli si afflosciò addosso. Solo le mani gli si aggrappavano forte ai risvolti della giacca. La portò via dalla carrozza, osservando cosa succedeva nel cortile. Charlotte aveva liquidato il suo automa, Bridget e Henry erano impegnati a farne a pezzi un altro. Sophie, Gideon, Gabriel e Cecily ne circondavano due, già riversi a terra, pronti a farli a fette come un arrosto di Natale. Jem non era tornato. — Will… — disse Jessie, con un filo di voce. — Will, per favore, mettimi giù. — Devo portarti dentro, Jessamine. — No. — La ragazza tossì, e Will vide con orrore che il sangue le colava dagli angoli della bocca. — Non sopravviverò tanto a lungo. Will… se mi hai mai voluto bene, almeno un pochino, mettimi giù. Will si abbassò ai piedi della scala, con Jessie in braccio, facendo del suo meglio per sostenerle la testa contro la spalla. Il sangue le macchiava copiosamente la gola e il davanti del vestito bianco, incollando la stoffa al corpo. Era terribilmente magra: le clavicole sporgevano come le ali di un uccello, le guance erano profondamente incavate. Sembrava più un infermo che uscisse vacillando dal manicomio di Bedlam che non la bella ragazza che li aveva lasciati solo otto settimane prima. — Jess… — mormorò Will. — Jessie, dove sei ferita? Lei gli rivolse un sorriso spettrale. Aveva la punta dei denti orlata di rosso. — Uno degli artigli della creatura mi ha colpito alla schiena — sussurrò. Abbassando lo sguardo, Will vide che il dietro del vestito di Jessamine era zuppo di sangue. Il sangue gli macchiava le mani, i pantaloni, la camicia, riempiendogli la gola del nauseante gusto metallico. — Mi ha trafitto il cuore. Lo sento. — Un iratze... — Will si mise ad armeggiare con la cintura per prendere lo stilo. — Ormai non c’è iratze che possa aiutarmi. — Jessamine aveva la voce ferma. — Allora i Fratelli Silenti… — Neanche il loro potere può salvarmi. E poi non potrei sopportare di farmi toccare di nuovo da loro. Preferirei morire. Sto morendo, e ne sono contenta. Will abbassò lo sguardo su di lei, stordito. Ricordava quando Jessie era arrivata all’Istituto, a quattordici anni, perfida come una gatta arrabbiata con gli artigli sfoderati. Non era mai stato gentile con lei – non era mai stato gentile con nessuno se non con Jem – né lei lo era stata con lui. Eppure in in qualche modo l’aveva ammirata, aveva ammirato la forza del suo odio e la forza della sua volontà. — Jessie… — Le mise una mano sulla guancia, spandendo goffamente il sangue. — Non devi. — Jessamine tossì di nuovo. — Essere gentile con me, intendo. So che mi odi. — Non ti odio. — Non sei mai venuto a trovarmi nella Città Silente. Tutti gli altri sono venuti. Tessa e Jem, Henry e Charlotte. Ma non tu. Tu non perdoni, Will. — No. — Lo disse perché era vero, e perché uno dei motivi per cui non gli era mai piaciuta Jessamine era che per certi versi gli ricordava se stesso. — È Jem quello che perdona. — Eppure mi sei sempre piaciuto di più tu. — Gli occhi della ragazza guizzarono improvvisamente sul viso di Will, con aria pensosa. — Oh, no… non in quel senso. Non pensarlo. Ma il modo in cui odiavi te stesso… lo comprendevo. Jem voleva sempre darmi una possibilità, come Charlotte. Ma io non ho mai voluto i doni di cuori generosi. Io volevo essere considerata per quello che ero. E siccome tu non hai pietà di me, so che se ti chiederò di fare una cosa, la farai. —

Jessamine fece un respiro ansimante. Il sangue le aveva formato delle bolle intorno alla bocca. Will sapeva cosa significava: aveva i polmoni forati, che stavano cessando di funzionare, e stava soffocando nel suo stesso sangue. — Che c’è? — domandò in tono concitato. — Cosa vuoi che faccia? — Prenditi cura di loro — sussurrò Jessamine. — Di Baby Jessie e delle altre. Will impiegò un momento per capire che alludeva alle sue bambole. Buon Dio… — Non lascerò che distruggano nessuna delle tue cose, Jessamine. Sul viso della ragazza comparve l’ombra di un sorriso. — Pensavo che magari… non volessero nulla che mi ricordasse. — Nessuno ti odia, Jess. Qualunque mondo ci sia al di là di questo, non andarci con un simile pensiero. — Ah, no? — Gli occhi di Jessamine sbatterono e si chiusero. — Ma sicuramente tutti voi mi avreste apprezzato un po’ di più se vi avessi detto dov’era Mortmain. Allora magari non avrei perduto il vostro amore. — Dimmelo adesso — la incalzò Will. — Dimmelo, se puoi, e riconquista il nostro amore. — Idris… — Jess, sappiamo che non è vero. Gli occhi di Jessamine si spalancarono. Le sclere erano tinte di scarlatto, come acqua sporca di sangue. — Tu… — sussurrò. — Tra tutti, tu avresti dovuto capire. — D’un tratto le sue dita si strinsero spasmodicamente sui risvolti della giacca di Will. — Sei un pessimo gallese — disse con voce flebile, e poi il suo petto sussultò, e si fermò. Era morta, con gli occhi aperti, fissi sul viso di Will. Lui li toccò leggermente, chiudendo le palpebre. — Ave atque vale, Jessamine Lovelace. — No! — Era Charlotte. Will alzò lo sguardo e vide gli altri riuniti intorno a lui: Charlotte, inerte tra le braccia di Henry, Cecily con gli occhi sgranati e Bridget, con due spade macchiate di olio, impassibile. Dietro di loro, Gideon era seduto sui gradini dell’Istituto, con ai lati il fratello e Sophie, appoggiato sui gomiti, pallido, senza giacca; aveva un brandello lacero di stoffa legato intorno a una gamba, e Gabriel gli stava tracciando qualcosa sul braccio. Probabilmente una runa guaritrice. Henry premette il viso contro il collo di Charlotte e mormorò parole di conforto, mentre le lacrime rigavano il viso della moglie. Will li guardò per un momento, poi guardò la sorella. — Jem… — disse, e già il nome era una domanda. — È andato dietro a Tessa — rispose Cecily. Aveva lo sguardo abbassato su Jessamine, con un’espressione che era un misto di pietà e orrore. Una luce bianca sembrò balenare davanti agli occhi di Will. — È andato dietro a Tessa? Che vuoi dire? — Uno… uno degli automi l’ha afferrata e l’ha spinta in una carrozza — balbettò Cecily, colpita dal tono irruente del fratello. — Nessuno di noi ha potuto seguirla. Eravamo bloccati dalle creature. Poi Jem ha varcato di corsa il cancello. Ho immaginato che… Will scoprì che le sue mani si erano serrate, del tutto inconsapevolmente, sulle braccia di Jessamine, lasciandole dei segni lividi sulla pelle. — Qualcuno prenda Jess — disse con voce rotta. — Devo seguirli.

— Will, non… — cominciò Charlotte. — Charlotte. — La parola gli uscì a fatica dalla gola. — Devo andare… Risuonò un rumore metallico, il rumore del cancello dell’Istituto che sbatteva. Will alzò la testa di scatto, e vide Jem. Il cancello si era appena chiuso alle sue spalle, e Jem camminava verso di loro: si muoveva lentamente, come se fosse ubriaco o ferito. Will vide che era coperto di sangue. Il sangue nero come carbone degli automi, ma anche tanto sangue rosso… lo aveva sulla camicia, sui capelli, gli rigava il viso e le mani. Jem si avvicinò e si fermò di colpo. Sembrava Thomas, quando Will lo aveva trovato sui gradini dell’Istituto, sanguinante e in punto di morte. — James? C’era un mondo di domande in quell’unica parola. — È andata — disse Jem, con voce piatta. — Sono corso appresso alla carrozza… ma guadagnava velocità e non sono riuscito a starle dietro. Li ho persi dalle parti di Temple Bar. — I suoi occhi guizzarono verso Jessamine, ma non sembrò neppure vedere il suo corpo… né vide Will che la teneva, né qualsiasi altra cosa. — Se avessi corso più svelto… — disse Jem, e poi si piegò su se stesso come se avesse ricevuto un colpo, scosso da una tosse violenta. Crollò a terra sulle ginocchia e sui gomiti, e il sangue inondò il terreno. Le sue dita graffiarono la pietra. Poi si rovesciò sulla schiena e rimase immobile.

10 COME ACQUA SULLA SABBIA

Mi stupivo che gli altri mortali vivessero, se egli, che avevo amato come se non avesse mai dovuto morire, era morto; e più ancora mi stupivo che io vivessi se era morto colui del quale ero un altro se stesso. Bene definì un tale l’amico “la metà dell’anima sua”. Io sentii che la mia anima e la sua erano state “un’anima sola in due corpi”; perciò la vita mi faceva orrore, giacché non volevo vivere a metà, e perciò forse temevo di morire, per non far morire del tutto chi avevo molto amato. Sant’Agostino, Le confessioni, Libro IV

Cecily spinse la porta della stanza di Jem con la punta delle dita e vi fece capolino. La stanza era silenziosa, ma piena di animazione. Due Fratelli Silenti stavano accanto al letto. Charlotte era tra loro, con il viso serio e rigato di lacrime. Will era in ginocchio accanto al letto, immobile, con i vestiti sporchi di sangue dopo il combattimento nel cortile. Aveva la testa abbassata sulle braccia incrociate, e sembrava che stesse pregando; appariva giovane, vulnerabile e disperato. Nonostante i propri sentimenti contrastanti, una parte di Cecily avrebbe desiderato entrare nella stanza e confortarlo. Per il resto, guardò con sgomento la bianca figura immobile stesa sul letto. Le pareva di non fare altro che disturbare gli abitanti dell’Istituto… il loro dolore, la loro sofferenza. Ma doveva parlare con Will. Si fece avanti… E sentì una mano sulla spalla che la tirò via, facendole sbattere la schiena contro la parete del corridoio. Gabriel Lightwood la lasciò immediatamente. Cecily alzò lo sguardo su di lui, sorpresa. Sembrava esausto, con gli occhi verdi oscurati, i capelli e i polsini della camicia schizzati di sangue. Aveva il colletto bagnato. Veniva chiaramente dalla stanza del fratello. Gideon era stato ferito gravemente alla gamba dalla lama di un automa, e sebbene gli iratze fossero stati di giovamento, sembrava esservi un limite alle loro capacità curative. Sophie e Gabriel lo avevano portato nella sua stanza, sebbene Gideon avesse protestato lungo l’intero tragitto, sostenendo che tutte le attenzioni possibili dovevano andare a Jem. — Non entrate — disse Gabriel sottovoce. — Stanno provando a salvare Jem. Vostro fratello deve stare là per lui. — Stare là per lui? Ma cosa può fare? Will non è un dottore. — Anche privo di sensi, James attingerà forza dal suo parabatai. — Devo parlare a Will, soltanto un momento. Gabriel si passò le mani tra le ciocche di capelli scompigliati. — Non siete da molto con i Cacciatori. Forse non capite. La perdita del proprio parabatai… non è cosa da poco. La

consideriamo grave quanto quella di un marito o di una moglie, di un fratello o di una sorella. È come se ci foste voi, in quel letto. — A Will non importerebbe granché, se in quel letto ci fossi io. Gabriel sbuffò. — Vostro fratello non si sarebbe preso la briga di invitarmi a starvi alla larga se non gli importasse di voi, signorina Herondale. — Sì, non gli piacete molto. Come mai? E perché ora mi date consigli su di lui? Neanche lui piace a voi. — Le cose non stanno esattamente così — replicò Gabriel. —. È vero, non mi piace Will Herondale. Non ci piacciamo a vicenda da anni. In effetti, mi ha rotto un braccio. — Ah, sì? — Le sopracciglia di Cecily si sollevarono suo malgrado. — Eppure sto cominciando a rendermi conto che molte cose che avevo sempre dato per scontate non lo sono. E Will è una di quelle. Ero certo che fosse un furfante, ma Gideon mi ha parlato di lui, e comincio a capire che ha un senso dell’onore tutto particolare. — E provate rispetto per questo. — Desidero rispettarlo. Desidero capirlo. E James Carstairs è uno dei migliori di noi. Anche se odiassi Will, ora vorrei che fosse risparmiato, per il bene di Jem. — La cosa che devo dire a mio fratello… Jem vorrebbe che gliela dicessi. È piuttosto importante, ed è questione di un momento. Gabriel si strofinò la pelle delle tempie. Sembrava torreggiare su Cecily, sebbene fosse molto snello. Aveva un viso spigoloso, non bellissimo ma elegante, con il labbro inferiore che formava quasi un arco perfetto. — Va bene. Entro io, e lo mando fuori. — Perché voi? Perché non io? — Se è arrabbiato, se è sconvolto dal dolore, è meglio che me la veda io, che si infuri con me piuttosto che con voi — spiegò Gabriel, in tono pratico. — Mi sto fidando del fatto che si tratta di una cosa importante, signorina Herondale. Spero che non mi deluderete. Cecily non disse nulla, si limitò a guardare Gabriel che spingeva la porta della stanza del malato ed entrava. Si appoggiò alla parete, con il cuore che le batteva forte mentre un mormorio giungeva dalla stanza. Sentì Charlotte dire qualcosa sulle rune destinate al ricambio del sangue, che a quanto pare erano pericolose… Poi la porta si aprì e Gabriel uscì. Cecily si raddrizzò. — Will…? Gli occhi di Gabriel guizzarono verso di lei, e un attimo dopo apparve Will, che allungò una mano per chiudersi bene la porta alle spalle. Gabriel fece un cenno a Cecily e si allontanò lungo il corridoio, lasciandola sola con il fratello. In realtà, Cecily si era sempre chiesta come si potesse essere soli in compagnia di qualcuno. Se si è con qualcuno, non si è “non soli” per definizione? Eppure in quel momento si sentiva completamente sola, perché Will sembrava essere da tutt’altra parte. Non sembrava nemmeno arrabbiato. Era appoggiato alla parete accanto alla porta, vicino a lei, ma sembrava incorporeo come un fantasma. — Will… Non parve neppure sentirla. Fremeva, gli tremavano le mani per l’ansia e la tensione. — Gwilym Owain — disse di nuovo Cecily, più piano. Will girò finalmente la testa per guardarla, sebbene i suoi occhi fossero azzurri e freddi come l’acqua del Llyn Mwyngil dal lato sottovento della montagna. — Sono venuto qui per la prima volta a

dodici anni. — Lo so. — Cecily era confusa. Will pensava che avesse potuto dimenticare? Di avere perduto Ella, e poi lui, l’adorato fratello maggiore, nel giro di pochi giorni? Ma Will non sembrava neppure sentirla. — Per essere precisi, era il dieci novembre di quell’anno. E ogni anno successivo, in quella data, sprofondavo in uno stato d’animo nero, disperato. Era il giorno – insieme a quello del mio compleanno – in cui ricordavo con più intensità mamma e papà, e te. Sapevo che eravate vivi, che eravate laggiù, che volevate che tornassi, ma non potevo andarmene, non potevo neppure mandarvi una lettera. Ne scrivevo a dozzine, naturalmente, e poi le bruciavo. Dovete avermi odiato, e accusato della morte di Ella. — Non ti abbiamo mai accusato… — Dopo il primo anno, anche se avevo ancora paura dell’avvicinarsi di quella data, iniziai ad accorgermi che il dieci novembre Jem aveva sempre qualcosa da fare, sedute di addestramento o ricerche che ci portavano all’altro capo della città, nell’umidità e nel gelo invernali. E, si capisce, lo coprivo di ingiurie per questo. A volte il freddo umido lo faceva ammalare, oppure dimenticava di prendere la droga e si ammalava proprio quel giorno, sputando sangue e rimanendo confinato a letto, e anche quella era una distrazione. E solo dopo che accadde tre volte – perché sono molto stupido, Cecy, e penso solo a me stesso – mi resi conto che lo faceva per me. Aveva annotato la data e faceva tutto il possibile per strapparmi alla mia malinconia. Cecily lo fissava immobile. Nonostante le parole che le martellavano nella testa, ansiose di essere dette, rimase in silenzio, perché era come se il velo degli anni fosse caduto e vedesse finalmente suo fratello, com’era da bambino, quando la coccolava goffamente se si era fatta male, o si addormentava sul tappeto davanti al fuoco con un libro aperto sul petto, o si arrampicava fuori dello stagno ridendo e scuotendosi l’acqua dai capelli neri. Will, senza nessun muro tra lui e il mondo esterno. Will si abbracciò come se avesse freddo. — Non so chi essere senza di lui — disse. — Tessa è scomparsa, e ogni istante senza di lei è un coltello che mi lacera dal di dentro. È scomparsa, e non riescono a rintracciarla, e io non ho idea di dove andare o cosa fare, e l’unica persona a cui potrei immaginare di confidare il mio tormento è l’unica persona che non può conoscerlo. Anche se non stesse morendo. — Will… — Cecily gli mise una mano sul braccio. — Ti prego, ascoltami. Si tratta di Tessa. Credo di sapere dov’è Mortmain. A tali parole, gli occhi di Will si spalancarono di colpo. — E come potresti saperlo, tu? — Ti ero abbastanza vicina da udire che cosa ha detto Jessamine in punto di morte — disse Cecily, sentendo il sangue pulsare impetuosamente sotto la pelle del fratello. Il cuore gli batteva all’impazzata. — Ha detto che eri un pessimo gallese. — Jessamine? — Will sembrava sconcertato, ma Cecily lo vide socchiudere leggermente gli occhi. Forse, inconsapevolmente, stava cominciando a seguire lo stesso corso di pensieri che aveva seguito lei. — Ha continuato a dire che Mortmain era a Idris. Ma l’Enclave sa che non è così — continuò Cecily. — Tu non conoscevi Mortmain quando viveva in Galles, ma io sì. Conosce bene il Paese. E una volta lo conoscevi bene anche tu. Siamo cresciuti all’ombra della montagna, Will. Pensa. Lui la fissò, finalmente presente. — Non avrai in mente… il Cadair Idris? — Lui conosce quelle montagne, Will. Ed è il tipo che troverebbe la cosa divertente, un gran tiro

da giocare a te e a tutti i Nephilim. L’ha portata esattamente là da dove sei fuggito. L’ha portata a casa nostra. — Un posset *? — chiese Gideon prendendo la tazza fumante dalle mani di Sophie. — Mi sembra di essere tornato bambino. — Ci sono dentro spezie e vino. Vi farà bene. Vi rinvigorirà il sangue. — Sophie si affaccendava, deponendo il vassoio sul comodino senza guardare direttamente Gideon. Lui era seduto sul letto, con la gamba ferita avvolta nelle bende. Aveva i capelli ancora scompigliati dal combattimento e, sebbene gli avessero fatto indossare degli indumenti puliti, emanava ancora un lieve odore di sangue e sudore. — Queste mi rinvigoriranno il sangue — disse, allungando un braccio su cui erano state tracciate due sanglier, rune che favorivano il ricambio del sangue. — Questo significa forse che non vi piace neppure il posset? — replicò Sophie, con le mani sui fianchi. Ricordava ancora quanto si fosse arrabbiata con lui per gli scones, ma la notte prima lo aveva completamente perdonato, leggendo la sua lettera al Console (che non aveva avuto ancora occasione di imbucare… era rimasta nella tasca del proprio grembiule insanguinato). E quando l’automa gli aveva ferito la gamba sui gradini dell’Istituto e Gideon era caduto con il sangue che zampillava dalla ferita aperta, il cuore le si era fermato in preda a un terrore che l’aveva stupita. — A nessuno piace il posset — dichiarò lui, con un sorriso appena accennato ma affascinante. — Devo rimanere qui per assicurarmi che lo beviate, o lo getterete sotto il letto? Perché, in tal caso, verranno i topi. Gideon ebbe il garbo di assumere un’aria imbarazzata. Sophie avrebbe voluto essere presente quando Bridget era entrata a grandi passi nella stanza e aveva annunciato di essere lì per togliere gli scones da sotto il letto. — Sophie… — disse il Cacciatore, e alla sua occhiataccia si affrettò a bere un sorso di posset. — Signorina Collins, non ho ancora avuto modo di scusarmi a dovere con voi, perciò lasciate che lo faccia ora. Vi prego di perdonarmi per lo scherzo che vi ho giocato con gli scones. Non intendevo mancarvi di rispetto. Spero non immaginiate che abbia un’opinione men che ottima di voi per la vostra posizione all’interno della casa, perché siete una delle signore più belle e più brave che io abbia mai avuto il piacere di conoscere. Sophie si tolse le mani dai fianchi. — Be’… — Non sono molti i gentiluomini disposti a chiedere scusa a una cameriera. — Sono delle bellissime scuse. — E sono certo che gli scones siano molto buoni — si affrettò ad aggiungere Gideon. — È solo che a me gli scones non piacciono. Non mi sono mai piaciuti gli scones. Non si tratta dei vostri scones. — Vi prego, smettete di pronunciare la parola scones, signor Lightwood. — Va bene. — E poi non sono i miei scones; li ha fatti Bridget. — Va bene. — E non state bevendo il vostro posset. Gideon aprì la bocca, quindi la richiuse svelto e sollevò la tazza. Mentre la guardava al di sopra del bordo, Sophie si addolcì e sorrise. Gli occhi di Gideon si accesero. — Benissimo — disse la ragazza. — Gli scones non vi piacciono. E che mi dite del pan di

Spagna? Era metà pomeriggio e un fievole sole era alto nel cielo. Una dozzina circa di Cacciatori dell’Enclave londinese e parecchi Fratelli Silenti erano sparsi nell’Istituto. Avevano già portato via il corpo di Jessamine e quello del confratello ucciso dagli automi. Dal cortile si levavano voci e un clangore metallico: l’Enclave esaminava scrupolosamente quanto restava dell’attacco degli automi. Nel soggiorno, tuttavia, il rumore più forte era il ticchettio del grande orologio a pendolo nell’angolo. Le tende erano aperte, e il Console stava ritto con le sopracciglia aggrottate nella pallida luce del sole, con le grosse braccia incrociate sul petto. — È una follia, Charlotte. Una totale follia, basata sulle fantasie di una ragazzina. — Non sono una ragazzina — replicò Cecily. Era seduta in una poltrona accanto al caminetto, la stessa su cui Will si era addormentato la notte prima. Era passato così poco tempo? Will le stava accanto, con lo sguardo torvo; non si era cambiato d’abito. Henry era nella stanza di Jem, con i Fratelli Silenti. Jem non aveva ancora ripreso conoscenza, e solo l’arrivo del Console aveva strappato Charlotte e Will dal suo fianco. — I miei genitori conoscevano Mortmain, come ben sapete. Era amico della mia famiglia, di mio padre. Ci ha messo a disposizione Ravenscar Manor quando mio padre ha… quando abbiamo perso la nostra casa vicino Dolgellau. — È vero — confermò Charlotte, che era seduta alla scrivania sommersa di carte. — Questa estate vi ho parlato di quanto Ragnor Fell mi aveva riferito sugli Herondale. Will sfilò i pugni dalle tasche dei pantaloni e guardò il Console, con espressione irata. — È stato uno scherzo di Mortmain, dare quella casa alla mia famiglia! Si è trastullato con noi. Perché non dovrebbe continuare in tal modo lo scherzo? — Ecco, Josiah… — Charlotte indicò uno dei fogli sulla scrivania: una cartina del Galles. — C’è un Lago Lyn a Idris… e qui, il lago Tal-y-Llyn, ai piedi del Cadair Idris… — Llyn significa “lago” — disse Cecily, in tono esasperato. — E noi lo chiamiamo Llyn Mwyngil, sebbene alcuni lo chiamino Tal-y-Llyn… — E probabilmente al mondo ci sono altri posti con il nome Idris — saltò su il Console, quindi sembrò rendersi conto che stava discutendo con una ragazza di quindici anni e cercò di riacquistare il controllo. — Ma questo significa qualcosa — disse Will. — Si dice che i laghi intorno alla montagna siano senza fondo… che la montagna stessa sia cava, e che al suo interno dormano i Cwn Annwn, i Cani degli Inferi. Charlotte sgranò gli occhi. — La Caccia Selvaggia. — Sì. — Will si tirò indietro i capelli. — Siamo Nephilim. Crediamo alle leggende, ai miti. Tutte le storie sono vere. Quale luogo migliore di una montagna cava già associata alla magia e ai presagi di morte per nascondersi insieme a tutti gli aggeggi? Nessuno troverebbe strano se dalla montagna provenissero strani rumori, e nessun abitante del luogo indagherebbe. Perché altrimenti Mortmain dovrebbe stare in quei paraggi? Mi sono sempre chiesto perché nutrisse un particolare interesse per la mia famiglia. Forse era solo per la vicinanza… per l’opportunità di tormentare una famiglia di Nephilim. Non ha saputo resistere alla tentazione. Il Console era appoggiato alla scrivania, con gli occhi sulla cartina sotto le mani di Charlotte. — Non è abbastanza.

— Non è abbastanza? Non è abbastanza per cosa? — gridò Cecily. — Per convincere l’Enclave. — Il Console si raddrizzò. — Charlotte, tu comprendi, vero? Per mandare un gruppo contro Mortmain, presumendo che sia in Galles, dovremo convocare un’assemblea del Consiglio. Non possiamo impiegare un piccolo gruppo e rischiare di essere superati numericamente, soprattutto da quelle creature… Quante di esse hanno partecipato all’attacco di questa mattina? — Sei o sette, senza contare quella che ha preso Tessa — rispose Charlotte. — Crediamo che siano in grado di piegarsi su se stesse, e che perciò abbiano potuto stiparsi nello spazio esiguo di una carrozza. — E io credo che Mortmain non si sia reso conto che Gabriel e Gideon Lightwood sarebbero stati con voi, e perciò abbia sottovalutato il numero di automi di cui avrebbe avuto bisogno. Altrimenti, sospetto che potreste essere tutti morti. — Al diavolo i Lightwood! — borbottò Will. — Credo che abbia sottovalutato Bridget. Ha fatto a fette quelle creature come tacchini di Natale. Il Console sollevò le mani. — Abbiamo letto le carte di Benedict Lightwood. Asserisce che la roccaforte di Mortmain è alle porte di Londra, e che Mortmain intende mandare un gruppo contro l’Enclave londinese… — Benedict Lightwood stava impazzendo rapidamente quando ha scritto quelle cose — lo interruppe Charlotte. — Vi sembra plausibile che Mortmain condividesse con lui i suoi veri piani? — Ma che assurdità? — La voce del Console era stizzosa, ma anche mortalmente gelida. — Benedict non aveva motivo di mentire nei propri diari, che tu non avresti dovuto leggere, Charlotte. Se non fossi così convinta di dover sapere più cose del Consiglio, li avresti consegnati immediatamente. Simili dimostrazioni di disobbedienza non mi spingono certo a fidarmi di te. Se proprio vuoi, puoi sollevare la questione del Galles durante il Consiglio che si riunirà tra due settimane… — Due settimane? — gridò Will. Era pallido, con chiazze rosse che gli risaltavano sugli zigomi. — Tessa è stata rapita oggi. Non ha due settimane. — Il Magister voleva che non le fosse fatto del male. Lo sai, Will — disse Charlotte a voce bassa. — Ma vuole anche sposarla! Tessa preferirebbe morire piuttosto che diventare il suo giocattolo personale, non credi? Potrebbe essere sua moglie entro domani… — Al diavolo, e se anche fosse? — sbottò il Console. — Una ragazza che non è una Nephilim non può essere la nostra priorità! — È la mia priorità! — ribatté Will. Calò il silenzio, rotto soltanto dal rumore del legno umido che scoppiettava nel focolare. La nebbia che macchiava le finestre era di un giallo scuro. Il Console aveva il volto immerso nell’ombra. — Pensavo che fosse la fidanzata del tuo parabatai. Non la tua. Will sollevò il mento. — Se è la fidanzata di Jem, è mio dovere proteggerla come se fosse la mia. Questo significa essere parabatai. — Sì, sì. — La voce del console grondava sarcasmo. — Una simile lealtà è lodevole. — Scosse la testa. — Gli Herondale… testardi come muli. Ricordo quando tuo padre volle sposare tua madre. Nulla è valso a dissuaderlo, sebbene lei non fosse candidata all’Ascensione. Avevo sperato in una maggiore docilità nei suoi figli. — Perdonerete me e mia sorella se non siamo d’accordo — replicò Will. — Considerato che, se

mio padre fosse stato più “docile”, per usare le vostre parole, noi non esisteremmo. Il Console scosse la testa. — Questa è una guerra. Non una missione di salvataggio. — E lei non è soltanto una ragazza — intervenne Charlotte. — È un’arma nelle mani del nemico. Credetemi, Mortmain intende usarla contro di noi. — Basta così. — Il Console prese il cappotto dalla spalliera di una sedia e lo indossò. — Questa è una discussione infruttuosa. Charlotte, tieni a bada i tuoi Cacciatori. — Il suo sguardo sfiorò Will e Cecily. — Sembrano… sovreccitati. — Vedo che non possiamo indurvi a cooperare, Console. — Charlotte era scura in volto. — Ma ricordate che metterò nero su bianco che vi avevamo informato della situazione. Se alla fine verrà fuori che avevamo ragione, e questo ritardo provocherà un disastro, tutte le conseguenze ricadranno sulla vostra testa. Wayland si limitò a tirare su il cappuccio, nascondendo i propri lineamenti. — Proprio questo significa essere Console. Sangue. Sangue sulle lastre di pietra del cortile. Sangue che macchiava le scale della casa. Sangue sulle foglie del giardino. Quanto rimaneva di ciò che una volta era il cognato di Gabriel erano dense pozze di sangue che si andava seccando, getti caldi di sangue che schizzavano sulla tenuta da combattimento di Gabriel mentre la freccia che aveva tirato colpiva l’occhio del padre… — Ti sei pentito della tua decisione di rimanere all’Istituto, Gabriel? — La fredda voce familiare penetrò attraverso i pensieri febbrili del ragazzo, che alzò lo sguardo con un sussulto. Il Console gli stava sopra, stagliato contro la fievole luce del sole. Indossava un cappotto pesante e guanti, e aveva un’espressione come se il ragazzo avesse fatto qualcosa per divertirlo. Gabriel trattenne il respiro e costrinse le parole a venire fuori in maniera pacata. — No. Certo che no. Wayland sollevò un sopracciglio. — Dev’essere per questo che te ne stai accovacciato qui dietro l’angolo della chiesa, con i vestiti sporchi di sangue e l’aria di essere terrorizzato dall’idea che qualcuno possa trovarti. Gabriel si alzò svelto, felice di avere alle spalle il duro muro di pietra a sorreggerlo. Lanciò un’occhiata torva al Console. — State forse insinuando che non ho combattuto? Che sono scappato? — Non sto insinuando un bel niente — replicò Wayland, in tono pacato. — So che hai tenuto duro. So che tuo fratello è rimasto ferito… D’un tratto Gabriel emise un respiro ansimante, e gli occhi del Console si socchiusero. — Ah… Dunque è così! Hai visto morire tuo padre, e hai pensato che avresti visto morire anche tuo fratello? Gabriel avrebbe voluto raspare il muro alle proprie spalle, colpire il Console sul viso untuoso, falsamente partecipe. Avrebbe voluto correre di sopra e gettarsi accanto al letto di Gideon, rifiutare di andarsene, come Will aveva rifiutato di lasciare Jem finché non lo avevano fatto allontanare. Will era per Jem un fratello migliore di quanto lui non fosse per Gideon, aveva pensato amaramente, eppure loro due non avevano lo stesso sangue. In parte, era stato quel pensiero a condurlo fuori dell’Istituto, in un angolo nascosto dietro le stalle. Sicuramente lì non lo avrebbe cercato nessuno, si era detto.

Si era sbagliato. Ma si sbagliava così spesso, cosa poteva fare una volta di più? — Hai visto tuo fratello sanguinare — continuò il Console, con la stessa voce pacata. — E hai ricordato… — Ho ucciso mio padre — affermò Gabriel. — Gli ho conficcato una freccia nell’occhio… ho versato il suo sangue. Credete che non sappia cosa vuol dire? Il suo sangue griderà a me dalla terra, come il sangue di Abele gridava a Caino. Tutti dicono che non era più mio padre, ma era pur sempre ciò che rimaneva di lui. Un tempo era un Lightwood. E oggi avrebbe potuto rimanere ucciso Gideon. Avrei perso anche lui… — Ora capisci cosa intendevo, quando parlavo di Charlotte e del suo rifiuto di obbedire alla Legge. Il costo di vite che esso provoca. Avrebbe potuto essere la vita di tuo fratello a essere sacrificata per la sua arrogante superbia. — Non sembra superba. — Perciò avete scritto questo? — Il Console estrasse dalla tasca del cappotto la prima lettera inviatagli dai fratelli. La guardò con aria sprezzante e la lasciò svolazzare a terra. — Questa missiva ridicola, concepita per stuzzicarmi? — Ha funzionato? — Per un momento, Gabriel pensò che il Console lo avrebbe colpito. Ma l’espressione adirata svanì in fretta dagli occhi di Wayland. Quando parlò di nuovo, lo fece in tono tranquillo. — Avrei dovuto aspettarmi che un Lightwood non avrebbe reagito bene a un ricatto. Tuo padre non l’avrebbe fatto. Confesso di aver creduto che voi due foste fatti di una stoffa meno robusta. — Se intendete provare un’altra strada per persuadermi, non prendetevi la briga — disse Gabriel. — È inutile. — Davvero? Sei talmente leale a Charlotte Branwell, dopo tutto ciò che la sua famiglia ha fatto alla tua? Da Gideon avrei potuto aspettarmelo… ha preso da vostra madre. Ha troppa fiducia nella natura. Ma non da te, Gabriel. Da te mi aspettavo che avessi più orgoglio nelle vene. — Non c’era niente. — Il ragazzo appoggiò stancamente la testa al muro. — Nella corrispondenza di Charlotte non c’era niente che potesse interessarvi, che potesse interessare chiunque. Ci avete detto che, se non vi avessimo riferito le sue mosse, ci avreste distrutti completamente, ma non c’era nulla da riferire. Non ci avete dato scelta. — Avreste potuto dirmi la verità. — Non vi interessa la verità — replicò Gabriel. — Non sono uno stupido, e neppure mio fratello. Voi volete che Charlotte sia rimossa dalla guida dell’Istituto, ma non volete che sia troppo chiaro che lo sia per mano vostra. Volevate scoprirla coinvolta in qualche attività illegale. Ma la verità è che non c’è nulla da scoprire. — La verità è malleabile. La verità può essere rivelata, certo, ma può anche essere creata. Lo sguardo di Gabriel guizzò sul viso del Console. — Preferireste che vi mentissi? — Oh, no… non a me. — Wayland mise una mano sulla spalla del ragazzo. — I Lightwood sono sempre stati uomini d’onore. Tuo padre ha fatto degli errori, e non dovresti essere tu a pagare per essi. Lascia che io ti renda quanto hai perso. Lascia che ti restituisca Casa Lightwood, il buon nome della tua famiglia. Potresti vivere là con tuo fratello e tua sorella. Non dovrai più dipendere dall’elemosina dell’Enclave londinese. Elemosina. Una parola amara. Gabriel pensò al sangue del fratello sulle lastre di pietra dell’Istituto. Se Charlotte non fosse stata così sciocca, così determinata nell’accogliere la ragazza

mutaforma in seno all’Istituto, nonostante le obiezioni dell’Enclave e del Console, il Magister non avrebbe mandato i suoi automi contro l’Istituto. Il sangue di Gideon non sarebbe stato versato. In effetti, se non fosse stato per Charlotte, il segreto di tuo padre sarebbe rimasto tale , gli sussurrò una vocina in un recesso della mente. Benedict non sarebbe stato costretto a tradire il Magister. Non avrebbe perso la fonte della droga che teneva a bada l’astriola. Non si sarebbe mai trasformato. Forse i suoi figli non sarebbero mai venuti a conoscenza dei suoi peccati. I Lightwood avrebbero continuato a vivere in una beata ignoranza. — Gabriel, questa offerta vale solo per te — disse il Console. — Va tenuta segreta a tuo fratello. Lui è come vostra madre, troppo leale. Leale a Charlotte. La sua lealtà sbagliata può fargli onore, ma in questo caso non ci sarà d’aiuto. Digli che mi sono stancato delle vostre buffonate; digli che non desidero più la vostra collaborazione. — Wayland fece un sorriso malizioso. — Tu sai mentire bene, e sono sicuro che saprai convincerlo. Gabriel serrò le mascelle. — Cosa volete che faccia? Will cambiò posizione, nella poltrona accanto al letto di Jem. Era lì da ore, ormai, e gli si stava irrigidendo la schiena, ma si rifiutava di andarsene. C’era sempre la possibilità che Jem si svegliasse, e si sarebbe aspettato di trovarlo là. Almeno, non faceva freddo. Bridget aveva acceso il fuoco nel caminetto; la legna umida crepitava rumorosamente, sollevando di quando in quando una vampata di scintille. La notte al di là delle finestre era scura, senza un briciolo di blu o di nuvole, un velo nero che sembrava dipinto sui vetri. Il violino di Jem era appoggiato ai piedi del letto e il suo bastone-spada, ancora macchiato di sangue dopo il combattimento nel cortile, era posato lì accanto. Jem giaceva immobile, puntellato ai cuscini, pallido. A Will sembrava di vederlo per la prima volta dopo una lunga assenza, in uno di quei brevi istanti in cui si è inclini a notare i cambiamenti nei visi familiari prima che diventino di nuovo parte dello scenario della propria vita. L’amico era così magro – come aveva fatto a non notarlo prima? – tutto cavità e angoli, con la carne in eccesso che sembrava essere stata strappata dalle ossa delle guance, delle mascelle e della fronte. C’era un tenue splendore bluastro sulle palpebre chiuse e sulla bocca. Le clavicole erano curve come la prua di una nave. Will si rimproverò. Come aveva potuto, in tutti quei mesi, non rendersi conto che Jem stava morendo… così rapidamente, così presto? Come aveva potuto non vedere la falce e l’ombra? — Will… — Un sussurro dalla soglia. — C’è… qualcuno che vuole vederti. Il ragazzo alzò lo sguardo, con aria assente, e vide il viso di Charlotte fare capolino dalla porta. Sbatté gli occhi, mentre la donna faceva entrare nella stanza Magnus Bane. Per un momento, non gli venne in mente nulla da dire. — Sostiene che tu l’abbia fatto chiamare — disse Charlotte, in tono leggermente dubbioso. Lo stregone stava in piedi con aria indifferente, indossando un vestito grigio antracite. Si stava sfilando lentamente i guanti di pelle di capretto. — È vero, l’ho fatto chiamare. — Will annuì, con la sensazione di svegliarsi in quel momento. — Grazie, Charlotte. Lei gli rivolse uno sguardo in cui alla solidarietà si mescolava il messaggio non detto Te ne assumi la responsabilità, Will Herondale, e uscì dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle. — Sei venuto — disse Will, consapevole di sembrare sciocco. Non gli era mai piaciuto quando la gente esprimeva delle ovvietà ad alta voce, ed era proprio quello che stava facendo. Non poteva

scrollarsi di dosso la sensazione di scombussolamento. Vedere Magnus lì, nella stanza di Jem, era come vedere una creatura fatata seduta tra gli avvocati con le parrucche bianche al tribunale. Lo stregone lasciò cadere i guanti su un tavolo e si avvicinò al letto. Allungò una mano per aggrapparsi a una colonnina del baldacchino mentre abbassava lo sguardo su Jem, così immobile e bianco da sembrare una statua scolpita su un sepolcro. — James Carstairs — mormorò, come se quelle parole avessero un qualche potere incantatorio. — Sta morendo — disse Will. — Questo è evidente. — Avrebbe potuto apparire freddo, ma c’erano mondi di tristezza nella voce di Magnus, una tristezza che Will sentì con un sussulto di familiarità. — Pensavo fossi convinto che gli rimanessero alcuni giorni, forse una settimana. — Non è soltanto la mancanza di droga. — La voce di Will suonò roca; si schiarì la gola. — In effetti, ne abbiamo un po’, e gliel’abbiamo somministrata. Ma oggi pomeriggio c’è stato un combattimento, ha perso sangue e si è indebolito. Non è abbastanza forte, temiamo, per potersi riprendere. Magnus allungò un braccio e prese con molta delicatezza la mano di Jem. Le dita pallide erano coperte di lividi, le vene blu tracciavano una sorta di mappa di fiumi sotto la pelle del polso. — Soffre? — Non lo so. — Forse sarebbe meglio lasciarlo morire. Ogni vita è limitata. E, quando l’hai scelto, sapevi che sarebbe morto prima di te. Will guardò davanti a sé. Aveva l’impressione di precipitare in un tunnel buio, un tunnel senza fine e senza lati a cui aggrapparsi per rallentare la caduta. — Se pensi che sarebbe la cosa migliore per lui… — Will. — La voce di Magnus era gentile ma pressante. — Mi hai fatto venire qui perché speravi che potessi aiutarlo? Will alzò lo sguardo senza vedere. — Non so perché ti ho mandato a chiamare. Non credo di averlo fatto perché pensavo che potessi fare qualcosa. Credo piuttosto di aver pensato che tu fossi l’unico in grado di capire. Magnus sembrò sorpreso. — L’unico in grado di capire? — Sei vissuto tanto a lungo. Devi aver visto tante persone morire, tante persone che amavi. Eppure sei ancora vivo e prosegui il tuo cammino. Magnus continuava a sembrare meravigliato. — Mi hai fatto chiamare qui – uno stregone nell’Istituto, subito dopo un combattimento in cui c’è mancato poco che foste uccisi tutti – per parlare? — Trovo che sia facile parlarti. Non so dire perché. Magnus scosse lentamente la testa e si appoggiò alla colonnina del letto. — Sei così giovane — mormorò. — Ma, d’altra parte, non credo che prima d’ora un Cacciatore abbia mai fatto ricorso a me semplicemente perché gli facessi compagnia durante una veglia notturna. — Non so che fare. Mortmain ha rapito Tessa, e ora credo di sapere dove potrebbe essere. Una parte di me non vuole altro che andare a cercarla, ma non posso lasciare Jem. Ho fatto un giuramento. E se durante la notte si svegliasse e non mi trovasse qui? — Will sembrava smarrito come un bambino. — Penserebbe che lo abbia lasciato di mia volontà, senza curarmi del fatto che sta morendo. Non saprà come stanno le cose. Eppure, se potesse parlare, non mi direbbe forse di andare

a cercare Tessa? Non è questo che vorrebbe? — Will affondò il viso tra le mani. — Non lo so, e questo mi sta distruggendo. Magnus lo guardò in silenzio per un lungo istante. — Sa che sei innamorato di Tessa? — No. — Will sollevò il viso, sconvolto. — No. Non gliene ho mai fatto parola. Non stava a lui sopportare questo fardello. Magnus fece un profondo respiro e parlò con dolcezza. — Ti sei rivolto a me per la mia saggezza, come a qualcuno che ha vissuto molte vite e ha seppellito molti amori. Posso dirti che la fine di una vita è la somma dell’amore che vi è stato vissuto, che qualsiasi giuramento pensi di aver fatto, essere qui alla fine della vita di Jem non è ciò che conta. Lo è stato essere qui in ogni altro momento. Da quando lo hai incontrato, non l’hai mai lasciato e non hai mai cessato di amarlo. Questo è ciò che conta. — Lo pensi davvero — disse Will, stupito. — Perché sei così gentile con me? Ti devo ancora un favore, non è vero? Me lo ricordo, sai, anche se non l’hai mai sollecitato. Magnus sorrise. — Tu mi tratti come un essere umano, una persona come te; sono rari i Cacciatori che trattano così uno stregone. Non sono tanto insensibile da sollecitare la restituzione di un favore a un ragazzo dal cuore spezzato. E che tra l’altro, credo, un giorno diventerà un uomo molto in gamba. Perciò ecco cosa ti dico. Rimarrò qui quando te ne sarai andato e veglierò sul tuo Jem al posto tuo, e se si sveglierà gli dirò dove sei andato, e che l’hai fatto per lui. E farò il possibile per mantenerlo in vita: non ho lo yin fen, ma ho la magia, e forse in un vecchio libro di incantesimi mi riuscirà di trovare qualcosa che possa aiutarlo. — Lo considererei un immenso favore — disse Will. Lo stregone aveva lo sguardo fisso su Jem. Il suo viso, quel viso di solito così allegro o sardonico o incurante, era una maschera di tristezza, una tristezza che sorprese Will. — Perché del resto quel primo dolore era penetrato così facilmente nel mio intimo, se non perché avevo versato la mia anima sulla sabbia, amando una creatura destinata a morire? — citò Magnus. — Che cos’era? — domandò Will. — Le Confessioni di sant’Agostino — rispose lo stregone. — Mi hai chiesto come faccia, essendo immortale, a sopravvivere a tante morti. Non c’è un particolare segreto. Si vive ciò che è insopportabile, e lo si sopporta. Tutto qui. — Magnus si allontanò dal letto. — Ti darò un momento per stare da solo con lui, per dirgli addio come si deve. Mi troverai nella biblioteca. Will annuì, mentre l’altro recuperava i guanti per poi girarsi e uscire dalla stanza. La sua mente lavorava freneticamente. Guardò di nuovo Jem, immobile nel letto. Devo accettare che questa è la fine, si disse. Devo accettare che Jem non mi guarderà più, non mi parlerà più. Si vive ciò che è insopportabile, e lo si sopporta. Tutto qui. Eppure continuava a non sembrargli reale, quasi fosse un sogno. Si alzò e si chinò sulla sagoma immota di Jem. Ne sfiorò la guancia. Era fredda. — Atque in perpetuum, frater, ave atque vale — sussurrò. Le parole di Catullo non gli erano mai sembrate tanto adatte: E in perpetuo, fratello, salute e addio. Will stava per raddrizzarsi, per allontanarsi dal letto, quando si sentì stringere forte il polso. Abbassò lo sguardo e vide la mano di Jem che serrava la sua. Per un momento fu troppo turbato per fare altro che stare a guardare. — Non sono ancora morto, Will — disse Jem con voce sommessa, esile ma forte come fil di ferro. — Cosa voleva dire Magnus quando ti ha chiesto se sapevo che eri innamorato di Tessa?

*

Posset: bevanda a base di latte caldo, vino o birra e spezie, usata in passato come rimedio contro il raffreddore.

11 PAURA DELLA NOTTE

Pur se la mia anima tramonterà nelle tenebre, risorgerà in piena luce Ho amato troppo le stelle per avere paura della notte. Sarah Williams, Il vecchio astronomo

— Will? Dopo tanto silenzio, interrotto solo dal respiro irregolare di Jem, per un momento Will pensò di avere immaginato la voce del suo migliore amico che gli parlava dall’oscurità. Quando Jem allentò la presa sul polso, Will sprofondò nella poltrona accanto al letto. Il cuore gli batteva all’impazzata, in parte per il sollievo, in parte per una paura angosciosa. Jem girò la testa verso di lui, contro il cuscino. I suoi occhi erano scuri, il colore argenteo inghiottito dal nero. Per un momento i due ragazzi si limitarono a fissarsi a vicenda. Era come la calma subito dopo che si ingaggia una battaglia, pensò Will, quando il pensiero svanisce e subentra l’ineluttabilità. — Will — ripeté Jem, e tossì, premendosi la mano sulla bocca. Quando la allontanò, aveva le dita macchiate di sangue. — Ho… ho sognato? Will si raddrizzò bruscamente. La voce di Jem era suonata così chiara, così sicura – Cosa voleva dire Magnus quando ti ha chiesto se sapevo che eri innamorato di Tessa? – ma era come se quell’impeto di forza lo avesse abbandonato, e ora sembrava stordito, confuso. Jem aveva sentito davvero ciò che Magnus aveva detto? E, in tal caso, c’era una possibilità che potesse scambiarlo per un sogno, un’allucinazione dovuta alla febbre? Quel pensiero riempì Will di un misto di sollievo e delusione. — Sognato cosa? Jem abbassò lo sguardo sulla mano insanguinata e la chiuse lentamente a pugno. — Il combattimento nel cortile. La morte di Jessamine. E Tessa … l’hanno rapita, non è vero? — Sì — sussurrò Will, e ripeté le parole che Charlotte gli aveva detto poco prima. A lui non avevano recato alcun conforto, ma forse lo avrebbero recato a Jem. — Sì, ma non credo che le faranno del male. Mortmain desiderava che non le venisse torto un capello. — Dobbiamo trovarla. Lo sai, Will. Dobbiamo… — Jem cercò di mettersi seduto, e ricominciò subito a tossire. Il sangue schizzò il copriletto bianco. Will sostenne le spalle fragili e tremanti dell’amico finché la tosse non cessò di torturarlo, quindi prese una pezza umida dal comodino e si mise a pulirgli le mani. Quando fece per strofinargli via il

sangue dal viso, Jem gli tolse delicatamente la pezza di mano e gli rivolse uno sguardo grave. — Non sono un bambino. — Lo so. — Will ritrasse le mani. Non le aveva pulite dopo il combattimento nel cortile e, sulle dita, il sangue secco di Jessamine si mescolava a quello fresco del parabatai. Jem fece un profondo respiro. Entrambi aspettarono di vedere se avrebbe prodotto un altro accesso di tosse. — Magnus ha detto che sei innamorato di Tessa. È vero? — Sì — rispose Will, con la sensazione di precipitare giù da una scogliera. — Sì, è vero. Gli occhi di Jem erano grandi e luminosi nell’oscurità. — E lei ti ama? — No. — La voce di Will si incrinò. — Le ho detto che l’amavo, e non ha mai tentennato. Ama te. La presa spasmodica delle mani di Jem sulla stoffa del copriletto si allentò leggermente. — Gliel’hai detto… — Jem… — Quando è successo, e quale eccesso di disperazione può averti spinto a farlo? — È stato prima che sapessi che eravate fidanzati. Il giorno in cui ho scoperto che nessuna maledizione era stata gettata su di me. — Will parlava a scatti. — Sono andato da Tessa e le ho detto che l’amavo. Mi ha risposto, nel modo più gentile possibile che amava te e non me, e che eravate fidanzati. — Will abbassò lo sguardo. — Non so se farà qualche differenza per te, James, ma non avevo davvero idea che le volessi bene. Ero completamente ossessionato dalle mie emozioni. Jem si morse il labbro inferiore, facendovi affluire un po’ di colore. — Scusa se te lo chiedo, sei sicuro che non sia una passione momentanea, un sentimento passeggero? — Si interruppe, guardando il viso dell’amico. — No, vedo che non lo è. — La amo tanto che, quando mi ha assicurato che con te sarebbe stata felice, ho giurato a me stesso che non avrei più parlato dei miei desideri, non avrei mai più manifestato i miei sentimenti con una parola o con un gesto, non avrei mai infranto la sua felicità con un’azione o con un discorso. I miei sentimenti non sono cambiati, eppure voglio abbastanza bene sia a lei sia a te da non voler dire una sola parola per minacciare ciò che avete trovato. — Le parole si riversavano dalle labbra di Will; sembrava non esserci alcuna ragione per trattenerle. Se Jem lo avesse odiato, lo avrebbe fatto per la verità e non per una bugia. — Mi dispiace tanto, Will. — Jem sembrava straziato. — Tanto, davvero. Vorrei averlo saputo… Will si accasciò nella poltrona. — Cosa avresti potuto fare? — Avrei potuto annullare il fidanzamento… — E spezzare il cuore a tutti e due? E che vantaggio ne avrei tratto? Tu mi sei caro come un’altra metà della mia anima. Non potrei essere felice se tu non lo fossi. E Tessa… ama te. Che razza di orribile mostro sarei, se godessi nel causare dolore alle due persone che più amo al mondo, soltanto per avere la soddisfazione di sapere che se Tessa non può essere mia non può essere di nessun altro? — Ma tu sei il mio parabatai. Se soffri, io desidero alleviare il tuo dolore… — Questa è l’unica cosa su cui non puoi darmi conforto. Jem scosse la testa. — Ma come ho fatto a non accorgermene? Te l’ho detto, vedevo che il muro intorno al tuo cuore stava venendo giù. Pensavo… pensavo di sapere perché; ti ho detto che ho sempre saputo che portavi un fardello, e sapevo che eri andato a trovare Magnus. Avevo pensato che forse ti saresti servito della sua magia per liberarti di qualche immaginario senso di colpa. Se avessi saputo che era per via di Tessa, non le avrei mai rivelato i miei sentimenti.

— Come avresti potuto intuirlo? — Sebbene infelice, Will si sentiva libero, come se gli avessero tolto di dosso un pesante fardello. — Ho fatto tutto il possibile per nasconderlo e negarlo. Tu invece non hai mai nascosto i tuoi sentimenti. A ripensarci, erano evidenti, eppure non me ne ero accorto. Quando Tessa mi ha detto che eravate fidanzati, sono caduto dalle nuvole. Tu sei sempre stato la fonte di tutte le cose buone della mia vita, James. Non ho mai pensato che potessi essere una fonte di dolore, e così, erroneamente, non ho mai considerato i tuoi sentimenti. È per questo che sono stato tanto cieco. Jem chiuse gli occhi. Le palpebre erano soffuse di un’ombra azzurrina, simile a pergamena. — La tua sofferenza mi addolora, ma sono contento che tu la ami — commentò. — Sei contento? — Rende più facile chiederti di fare ciò che desidero tu faccia: lasciarmi e andare a cercare Tessa. — Adesso? Così? Jem sorrise. — Non è ciò che stavi per fare quando ti ho afferrato la mano? — Ma… non credevo che avresti ripreso conoscenza. Ora è diverso. Non posso lasciarti così, ad affrontare da solo… qualsiasi cosa dovrai affrontare… La mano di Jem si sollevò e, per un istante, Will pensò che si sarebbe spinta fino alla sua, invece gli strinse la stoffa della manica. — Sei il mio parabatai — disse Jem. — Hai detto che avrei potuto chiederti qualunque cosa. — Ma ho giurato di rimanere con te. “Se altra cosa che la morte mi separerà da te…” — La morte ci separerà. — Sai bene che queste parole del giuramento appartengono a un brano più lungo. “Non insistere perché ti abbandoni e rinunci a seguirti: perché dove andrai tu andrò anch’io.” — Non puoi andare dove vado io! — gridò Jem con tutta la forza che gli rimaneva. — E neppure vorrei che lo facessi! — Ma non posso andarmene e lasciarti morire! Ecco… l’aveva detto, aveva detto quella parola, aveva ammesso quella possibilità. Morire. — È un compito che non può essere affidato a nessun altro. — Gli occhi di Jem erano scintillanti, febbrili, quasi folli. — Credi che non sappia che se tu non vai a cercarla non lo farà nessun altro? Credi che non mi uccida il non poter venire con te? — La pelle di Jem era pallida come il vetro smerigliato di un paralume e, come in una di quelle lampade, la luce sembrava emanare attraverso di lui da una fonte interna. Fece scivolare le mani sul copriletto. — Prendimi le mani, Will. Con aria inebetita, Will chiuse le mani intorno a quelle di Jem. Gli parve di sentire un guizzo di dolore al petto, in corrispondenza della runa parabatai, come se quella runa sapesse ciò che lui non sapeva e lo avvertisse di un dolore imminente, un dolore così grande che Will non immaginava di poter sopportare e continuare a vivere. “Jem è il mio grande peccato” aveva detto a Magnus, e quella, adesso, era la punizione. Aveva pensato che perdere Tessa fosse la sua penitenza; non aveva pensato a come si sarebbe sentito nel momento in cui li avesse persi entrambi. — Will… per tutti questi anni ho provato a darti ciò che non potevi dare a te stesso. Le mani di Will si serrarono su quelle dell’amico, che erano sottili come un fascio di ramoscelli. — E cioè? — La fede — rispose Jem. — Perché eri migliore di quanto ti reputavi. L’indulgenza, perché non

bisogna sempre punire se stessi. Ti ho sempre amato, Will, qualunque cosa facessi. E adesso ho bisogno che tu faccia per me quello che non posso fare da solo. Che tu sia i miei occhi quando io non li avrò. Che tu sia le mie mani quando non potrò usare le mie. Che tu sia il mio cuore quando il mio avrà cessato di battere. — No — disse Will, con aria sconvolta. — No, no, e poi no. Non sarò nessuna di queste cose. I tuoi occhi vedranno, le tue mani toccheranno, il tuo cuore continuerà a battere. — Ma se così non fosse… — Se potessi strapparmi a metà, lo farei… Una metà di me potrebbe rimanere con te e l’altra seguirebbe Tessa… — Metà di te non servirebbe a nessuno dei due — disse Jem. — Non c’è nessun altro a cui potrei affidare il compito di andare a cercarla, nessun altro che darebbe la vita, come farei io, per salvare la sua. Ti avrei chiesto di intraprendere questa missione anche se non avessi conosciuto i tuoi sentimenti, ma essendo certo che la ami quanto la amo io… Will, mi fido di te al di sopra di ogni cosa, e credo in te al di sopra di ogni cosa, sicuro che, come sempre, il tuo cuore è unito al mio anche in questa circostanza. Wo men shi jie bai xiong di … siamo più che fratelli, Will. Intraprendi questo viaggio, e intraprendilo non solo per te, ma per entrambi. — Non posso lasciarti ad affrontare da solo la morte — sussurrò Will, ma sapeva di essere ormai a corto di argomenti. Aveva dato fondo a tutta la propria riserva di volontà. Jem si toccò la runa parabatai sulla spalla, attraverso la stoffa sottile della camicia da notte. — Non sono solo. Ovunque siamo, è come se fossimo un tutt’uno. Will si alzò lentamente. Non poteva credere di fare ciò che stava facendo, ma era chiaro che era così, chiaro come l’orlo argenteo intorno al nero degli occhi di Jem. — Se c’è una vita dopo questa, fa’ che possa incontrarti là, James Carstairs. — Ci saranno sicuramente altre vite. Jem allungò la mano e, per un momento, se le serrarono a vicenda, come avevano fatto durante il rituale dei parabatai, infilandole attraverso due anelli di fuoco gemelli e intrecciando le dita. — Il mondo è una ruota. Quando saliamo o cadiamo, facciamolo insieme — aggiunse solennemente. Will strinse la presa sulla mano di Jem. — E va bene — disse, con un nodo alla gola. — Se davvero sei convinto che avrò un’altra vita, preghiamo tutti e due che non ne faccia un pasticcio colossale, come ho fatto con questa. Jem gli sorrise, con quel sorriso che lo aveva sempre tranquillizzato, anche nelle giornate più nere. — Penso che ci sia ancora speranza per te, William Herondale. — Proverò a imparare ad averla senza la tua guida. — Tessa — disse Jem. — Lei conosce la disperazione, e anche la speranza. Potete insegnarvi a vicenda. Trovala, Will, e dille che l’ho sempre amata. La mia benedizione, per quello che conta, va a tutti e due. I loro occhi si incontrarono e rimasero allacciati. Will non riuscì a dire né addio, né altro. Strinse soltanto un’ultima volta la mano di Jem e la lasciò, quindi si girò e infilò la porta. I cavalli erano tenuti nelle stalle, dietro l’Istituto, che durante il giorno erano territorio di Cyril; un posto dove gli altri si avventuravano di rado. Un tempo erano state una vecchia canonica, e avevano il pavimento in pietra irregolare, scrupolosamente pulito. I box erano allineati lungo le pareti, sebbene solo due fossero occupati: uno

da Balios e l’altro da Xanthos, che erano profondamente addormentati. Le mangiatoie erano piene di fieno fresco; i finimenti scintillanti erano appesi lungo le pareti, lucidati a specchio. Will decise che, se mai fosse tornato vivo dalla missione, si sarebbe premurato di dire a Charlotte che Cyril stava facendo un ottimo lavoro. Svegliò Balios con dei sussurri gentili e lo fece uscire dal box. Gli avevano insegnato a sellare e a imbrigliare un cavallo da ragazzo, prima ancora che arrivasse all’Istituto, perciò lasciò vagare la mente mentre faceva scorrere le staffe sulle cinghie, controllando entrambi i lati della sella. Non aveva lasciato biglietti o messaggi a nessuno, nell’Istituto. Avrebbe pensato Jem a dire loro dov’era andato; inoltre, aveva scoperto che in quel momento, quando più avrebbe avuto bisogno delle parole che di solito gli venivano tanto facilmente, non riusciva proprio a trovarle. Non poteva neanche concepire di dire addio, e così continuava a ripetersi mentalmente cosa aveva messo nelle bisacce: una tenuta da combattimento, una camicia e un colletto puliti – chissà, magari avrebbe avuto bisogno di assomigliare a un gentiluomo –, due stili, tutte le armi che potevano entrarci, pane, formaggio, frutta secca e un po’ di denaro. Mentre Will fissava lo straccale, Balios sollevò il collo e nitrì. Il Cacciatore girò la testa. Nel vano della porta apparve una snella figura femminile che aveva la mano destra alzata: la stregaluce che sorreggeva divampò, illuminandole il viso. Era Cecily, avvolta in un mantello di velluto blu, con i capelli sciolti e liberi intorno al viso. I piedi nudi le spuntavano dall’orlo del mantello. — Cecy, che ci fai qui? — domandò Will. Lei fece un passo avanti, quindi si fermò sulla soglia, guardandosi i piedi nudi. — Potrei rivolgerti la stessa domanda. — Mi piace parlare ai cavalli, di notte. Fanno buona compagnia. E tu non dovresti andare in giro in camicia da notte. Ci sono dei Lightwood in giro nei paraggi. — Molto divertente. Dove vai, Will? Se stai andando a cercare altro yin fen, portami con te. — Poi Cecily ebbe un lampo di comprensione negli occhi. — Stai andando a cercare Tessa. Stai andando sul Cadair Idris. Il ragazzo annuì. — Portami con te, Will. Lui non riusciva a guardarla; andò a recuperare il morso e le redini, ma mentre li prendeva, per poi tornare da Balios, gli tremavano le mani. — Non posso portarti con me. Non sai montare Xanthos – non sei stata addestrata – e un cavallo comune non farebbe che rallentare il nostro viaggio. — I cavalli della carrozza di Mortmain sono creature meccaniche. Non puoi sperare di raggiungerli… — Non mi aspetto di farlo. Balios può essere il cavallo più veloce d’Inghilterra, ma ha bisogno di riposare e di dormire. Sono già rassegnato. Non raggiungerò Tessa lungo la strada. Posso solo sperare di arrivare sul Cadair Idris prima che sia troppo tardi. — Allora lascia che io ti segua, e non preoccuparti di distanziarmi… — Sii ragionevole, Cecy! — Ragionevole? — La ragazza prese fuoco. — Io vedo soltanto mio fratello che mi abbandona di nuovo. È durato anni, Will… anni, e sono venuta a cercarti a Londra. E adesso che siamo di nuovo insieme, te ne vai! Balios si agitò inquieto, mentre Will gli sistemava il morso e gli faceva scivolare le redini sopra

la testa. Al cavallo non piacevano le urla. Il Nephilim lo tranquillizzò mettendogli una mano sul collo. — Will… — Cecily aveva un’aria minacciosa. — Guardami, o sveglierò tutta la casa e ti fermerò. Giuro che lo farò. Will appoggiò la testa al collo di Balios e quindi chiuse gli occhi. Sentiva l’odore di fieno e cavallo, di stoffa e sudore, e quello dolciastro di fumo lasciatogli sui vestiti dal fuoco nella stanza di Jem. — Cecily, ho bisogno di saperti qui e più al sicuro possibile. Non posso stare in ansia per Tessa, che è la meta del mio viaggio, e per te, che mi vieni appresso, o la paura mi distruggerà. Già troppe persone che amo sono in pericolo. Ci fu un lungo silenzio. Will sentiva il battito del cuore di Balios sotto l’orecchio, ma nient’altro. Si chiese se Cecily se ne fosse andata, se fosse uscita mentre lui parlava, magari per svegliare la casa. Alzò la testa. Cecily era sempre lì, con la stregaluce ardente in mano. — Tessa ha detto che una volta mi hai invocata, quando stavi male. Perché me? — Cecily… — Will pronunciò la parola delicatamente, buttando fuori il fiato. — Per anni sei stata il mio… il mio talismano. Pensavo di avere ucciso Ella. Ho lasciato il Galles per tenerti al sicuro. Finché potevo immaginarti viva e vegeta, e felice, il dolore che mi procurava la tua mancanza, e quella di nostra madre e nostro padre, aveva un senso. — Non ho mai capito perché te ne fossi andato — disse la ragazza. — E credevo che i Cacciatori fossero dei mostri. Non riuscivo a capire perché fossi venuto qui, e pensavo – l’ho sempre pensato – che quando fossi stata abbastanza grande sarei venuta e avrei finto di voler essere anch’io una Cacciatrice, finché non ti avessi convinto a tornare a casa. Quando ho saputo della maledizione, non sapevo più cosa pensare. Ho capito perché te n’eri andato, ma non perché rimanevi. — Jem… — Anche se morirà, non verrai a casa da mamma e papà, vero? — continuò Cecily. — Sei un Cacciatore fino al midollo. Come nostro padre non è mai stato. Per questo sei stato così cocciuto nel non voler scrivere. Non sai come chiedere perdono e, al tempo stesso, dire che non tornerai ugualmente a casa. — Non posso tornare a casa, Cecy, non è più casa mia. Sono un Cacciatore. Ce l’ho nel sangue. — Sai che sono tua sorella, no? Anch’io ce l’ho nel sangue. — Hai detto che fingevi. — Will le studiò il viso per un istante. — Ma non è così, vero? Ti ho vista mentre ti esercitavi, mentre combattevi. Provi quello che provo io. Come se il pavimento dell’Istituto fosse il primo suolo solido che ti senti sotto i piedi. Come se avessi finalmente trovato il tuo posto. Tu sei una Cacciatrice. Cecily rimase in silenzio. Will sentì la bocca contrarsi in un sorriso sghembo. — Sono contento. Contento che ci sarà comunque una Herondale all’Istituto, anche se io… — Anche se tu non dovessi tornare? Will, lasciami venire con te, lascia che ti aiuti… — No, Cecily. Non basta che io accetti questa tua scelta – una vita di combattimenti e pericoli – sebbene io abbia sempre desiderato per te una vita più tranquilla e sicura della mia? No. Non posso lasciarti venire con me, anche se mi odierai per questo. La ragazza sospirò. — Non essere così melodrammatico. Devi sempre ribadire che le persone ti odiano, anche quando è evidente che non lo fanno?

— Io sono melodrammatico — replicò Will. — Se non fossi stato un Cacciatore, avrei avuto grande successo sul palcoscenico. Sarei stato senza dubbio salutato da acclamazioni. Cecily non sembrò trovarlo divertente. — Non mi interessa la tua interpretazione di Amleto. Se non mi lascerai venire con te, mi prometti che… tornerai? — Non posso prometterlo. Ma se potrò tornare da te, lo farò. E se tornerò, scriverò a nostra madre e a nostro padre — disse Will. — Questo posso prometterlo. — No, niente lettere — disse Cecily. — Promettimi che tornerai con me da nostra madre e nostro padre. E che dirai loro perché te ne sei andato, e che non hai nulla da rimproverare loro, e che li ami ancora. Non ti chiedo di andare a casa per rimanere. Né tu né io potremo più andare a casa per rimanere, ma confortarli non è chiedere troppo. E non dirmi che è contro le regole, perché so fin troppo bene che ti piace infrangerle. — Vedi? Dopotutto, conosci un po’ tuo fratello. — Will sorrise. — Ti dò la mia parola che, se tutte le condizioni saranno favorevoli, farò ciò che chiedi. Le spalle e il viso di Cecily si rilassarono. Sembrava piccola e indifesa, ora che la sua ira si era placata, ma il fratello sapeva che non lo era. — Cecy… prima di andare, vorrei darti una cosa. — Will infilò una mano nella camicia e si sfilò la collana che Magnus gli aveva dato. Quella dondolò, emanando intensi bagliori rossi alla luce fioca delle stalle. — Bella, ma non ti dona — osservò la ragazza. Will le fece passare al di sopra della testa la catenella scintillante. Il rubino si posò sulla sua gola quasi fosse fatto per lei. — Portala sempre. Ti metterà in guardia dai demoni — disse Will, con occhi seri. — Ti aiuterà a tenerti al sicuro, che è ciò che voglio io, e a essere una guerriera, che è ciò che vuoi tu. Cecily gli mise una mano sulla guancia. — Da bo ti, Gwilym. Byddaf yn dy golli di. — Mi mancherai molto anche tu — disse lui. Poi si girò verso Balios e saltò in sella. Cecily indietreggiò mentre il fratello incitava il cavallo verso la porta delle stalle e, piegando la testa per ripararsi dal vento, galoppava via nella notte. Tessa si svegliò con un sussulto dai suoi sogni di sangue e mostri metallici, respirando affannosamente. Era accucciata come un bambino sul sedile di una grande carrozza, i cui finestrini erano interamente nascosti da spesse tendine di velluto. Il sedile era duro e scomodo, le molle le si conficcavano nei fianchi attraverso la stoffa del vestito, che era lacero e macchiato. Le si erano sciolti i capelli, che le pendevano in flosce ciocche intorno al viso. Davanti a lei, rannicchiata nell’angolo opposto del veicolo, sedeva una figura rigida, completamente avvolta in uno spesso mantello da viaggio di pelliccia nero con il cappuccio abbassato. Tessa provò a sollevarsi, cercando di superare il capogiro e la nausea. Si mise le mani sullo stomaco e si sforzò di respirare profondamente, sebbene l’aria fetida nell’abitacolo contribuisse ben poco a calmarle la nausea. Si mise le mani sul petto, sentendo il sudore colarle lungo il corpetto del vestito. — Non starete male, per caso? — chiese una voce roca. — A volte il cloroformio fa questi brutti scherzi. La figura incappucciata si piegò verso la ragazza, cigolando, e Tessa vide il viso della signora Black. Sui gradini dell’Istituto era stata troppo sconvolta per studiare attentamente la sua vecchia

aguzzina, ma ora che poteva vederla da vicino rabbrividì. La pelle aveva una sfumatura verdastra, gli occhi erano venati di nero, le labbra erano infossate e lasciavano intravedere una lingua grigia. — Dove mi state portando? Era la stessa domanda che le eroine dei romanzi gotici ponevano, immancabilmente, quando venivano rapite. La cosa aveva sempre irritato Tessa ma, in quel momento, si rendeva conto che si trattava di una domanda sensata. — Da Mortmain — disse la signora Black. — Ed è l’unica informazione che otterrete da me, ragazza mia. Ho ricevuto istruzioni precise. Non che Tessa si fosse aspettata altro, ma la notizia le serrò il petto e le fece venire il fiato corto. D’impulso, si scostò dalla signora Black e aprì la tendina del finestrino. Fuori era buio, la luna seminascosta. La campagna era disseminata di colline, senza traccia di luci che indicassero abitazioni. Il paesaggio era disseminato di mucchi di nere rocce. Tessa afferrò il più furtivamente possibile la maniglia dello sportello e provò ad aprirlo: era chiuso a chiave. — Non affannatevi — disse la Sorella Oscura. — Non potete aprire lo sportello e comunque, anche se doveste scappare, vi riprenderei. Sono molto più veloce di quanto ricordiate. — È così che siete sparita sui gradini? All’Istituto? — Sparita ai vostri occhi — precisò la signora Black, con un sorriso di superiorità. — Mi sono allontanata velocemente per poi tornare. Mortmain mi ha concesso questo dono. — È per questo che lo fate? Per gratitudine nei confronti di Mortmain? Non teneva granché a voi. Ha mandato Jem e Will a uccidervi, quando ha creduto che gli intralciaste la strada. — Nel pronunciare quei due nomi, Tessa sbiancò, travolta dai ricordi. Era stata portata via mentre i Cacciatori stavano lottando disperatamente sui gradini dell’Istituto. Avevano resistito agli automi? Qualcuno di loro era stato ferito o, non volesse Dio, ucciso? Ma sicuramente avrebbe saputo, sarebbe stata in grado di sentire, se qualcosa di simile fosse accaduto a Jem o a Will, o no? Li percepiva entrambi come pezzi del suo cuore. — No — disse la signora Black. — Per rispondere alla domanda nei vostri occhi, non potreste sapere se uno di loro fosse morto, uno di quei bei Cacciatori che vi piacciono tanto. La gente lo immagina sempre, ma a meno che non esista un legame magico come quello tra parabatai, sono solo fantasie. Quando me ne sono andata, stavano combattendo per le loro vite. — La Sorella Oscura sogghignò, e i suoi denti scintillarono metallici nell’oscurità. — Se non avessi ricevuto da Mortmain l’ordine di condurvi da lui illesa, avrei lasciato che vi facessero a pezzi laggiù. — Perché vuole che mi conduciate da lui illesa? — Voi e le vostre domande… Avevo quasi dimenticato quanto fosse irritante. Vuole delle informazioni che solo voi potete fornirgli. E vuole ancora sposarvi. Che sciocco! Lasciarsi tormentare tutta la vita. Ma, per quel che me ne importa… Una volta ottenuto ciò che voglio, sparirò. — Non c’è niente di quanto so che possa interessare Mortmain. La signora Black sbuffò. — Siete così giovane e stupida. Non siete umana, signorina Gray, e potete capire ben poco di quanto siete capace di fare. Avremmo potuto insegnarvi di più, ma eravate recalcitrante. Troverete in Mortmain un istruttore meno indulgente. — Indulgente? Mi picchiavate a sangue! — Ci sono cose peggiori del dolore fisico, signorina Gray. Mortmain ha poca pietà. — Proprio così. — Tessa si sporse in avanti. L’angelo meccanico batteva due volte più svelto del normale sotto il corpetto del vestito. — Perché fate ciò che vi chiede? Sapete che non potete fidarvi

di lui, sapete che sarebbe felice di distruggervi… — Ho bisogno di ciò che può darmi — rispose la signora Black. — E farò quanto devo per ottenerlo. — E che cos’è? La Sorella Oscura scoppiò a ridere, quindi fece scivolare indietro il cappuccio e si slacciò il colletto del mantello. Tessa aveva letto, nei libri di storia, delle teste infilzate su lance ed esibite sul London Bridge, ma non aveva mai immaginato che spettacolo orribile fosse. Ovviamente, qualsiasi deterioramento la signora Black avesse subito dopo che era stata decapitata non era stato arrestato… perciò brandelli di pelle grigia pendevano intorno all’asta metallica su cui era infilata la sua testa. Non aveva corpo, solo una liscia colonna di metallo da cui sporgevano due braccia simili a bastoni munite di giunture. I guanti di pelle di capretto che coprivano chissà quali mani e spuntavano dalle estremità delle braccia aggiungevano un ultimo tocco macabro. La ragazza urlò di raccapriccio.

12 SPETTRI LUNGO LA STRADA

Oh, sempre leggiadra, sempre amabile! Di’, Esiste, in Paradiso, il crimine di amare troppo bene? Di avere un cuore troppo tenero, o troppo saldo, Di recitare la parte di un amante o di un antico Romano? Non c’è nessun ritorno luminoso in cielo, Per coloro che pensano nobilmente, o muoiono con coraggio? Alexander Pope, Elegia in memoria di una signora sfortunata

Will stava sulla cresta di una bassa collina, con le mani ficcate in tasca, e guardava impaziente la placida campagna del Bedfordshire. Aveva lasciato Londra cavalcando con tutta la velocità di cui lui e Balios erano capaci, diretto verso la Great North Road. Partendo quasi all’alba, aveva trovato le strade piuttosto sgombre mentre sfrecciava attraverso Islington, Holloway e Highgate; aveva superato alcuni carretti di venditori ambulanti di frutta e qualche pedone, ma per il resto non c’era stato quasi nulla a trattenerlo. Visto che Balios non si stancava in fretta come un qualunque cavallo, ben presto Will si era ritrovato fuori Barnet e aveva potuto attraversare al galoppo South Mimms e London Colney. Gli piaceva galoppare, appiattito sul dorso del cavallo, con il vento tra i capelli e gli zoccoli di Balios che divoravano la strada; nell’uscire da Londra, aveva provato al tempo stesso un dolore lancinante e una strana libertà. Vicino a Colney c’erano degli stagni, dove si fermò per farvi abbeverare Balios prima di proseguire. A una cinquantina di chilometri a nord di Londra, non poté fare a meno di ricordare quando anni prima aveva percorso quello stesso tragitto, in direzione opposta, diretto all’Istituto. Da principio, lasciando il Galles, aveva utilizzato uno dei cavalli del padre, ma poi, giunto nello Staffordshire e resosi conto di non avere denaro per pagare i pedaggi stradali, lo aveva venduto. Solo più tardi aveva capito di aver fatto un pessimo affare: era stato straziante dire addio a Hengroen, il cavallo su cui era cresciuto, e perfino più straziante camminare faticosamente per i chilometri che ancora lo

separavano da Londra. Quando infine aveva raggiunto l’Istituto, aveva i piedi doloranti, e anche le mani, che si era graffiato cadendo lungo la strada. Will abbassò lo sguardo sulle proprie mani, con il ricordo di quelle di allora sospeso sopra di esse. Mani sottili dalle lunghe dita… come quelle di tutti gli Herondale. Jem aveva sempre detto che era un peccato che non avesse il minimo talento musicale, perché aveva mani fatte per allargarsi sulle ottave di un pianoforte. Quel pensiero fu come la puntura di un ago; Will ricacciò il ricordo e tornò da Balios. Si era fermato lì non solo per abbeverarlo, ma anche per fargli mangiare una manciata di avena – buona per la velocità e la resistenza – e lasciarlo riposare. Aveva sentito parlare spesso di eserciti che sfiancavano le cavalcature fino a farle morire, ma, per quanto ansioso di raggiungere Tessa, non poteva immaginare di fare qualcosa di tanto crudele. C’era molto traffico: carri, cavalli da tiro con barrocci delle fabbriche di birra, furgoncini delle fattorie che producevano latte, di quando in quando perfino un occasionale omnibus a cavalli. Will si chiese se ci fosse davvero bisogno che tutta quella gente se ne andasse in giro nel bel mezzo di un mercoledì, percorrendo rumorosamente le strade. Almeno, non c’erano banditi; ferrovie, strade a pedaggio e una polizia vera e propria avevano posto fine alle rapine sulle vie maestre qualche decennio prima. Non avrebbe sopportato di dover perdere tempo a sistemare chicchessia. Aveva aggirato Saint Albans senza preoccuparsi di fermarsi a pranzare, nella fretta di raggiungere la Watling Street, l’antica strada romana che si biforcava a Wroxeter, da dove una metà risaliva verso la Scozia e l’altra tagliava attraverso l’Inghilterra diretta al porto di Holyhead, in Galles. C’erano spettri lungo la strada… Will colse sussurri di vecchi anglosassoni portati dal vento: chiamavano la strada Wæcelinga Stræt e parlavano dell’ultima battaglia delle truppe di Boadicea, che vi era stata sconfitta dai Romani tanti anni prima. Con le mani in tasca e lo sguardo fisso sulla campagna – erano le tre e il cielo stava cominciando a oscurarsi, il che significava che tra non molto lui avrebbe dovuto preoccuparsi del tramonto e trovare una locanda dove fermarsi per far riposare il cavallo e dormire – Will non poteva fare a meno di ricordare di quando aveva detto a Tessa che Boadicea aveva dimostrato come le donne potessero essere valide guerriere. Allora non le aveva confessato che aveva letto le sue lettere, che amava già l’anima della guerriera in lei, nascosta dietro quei quieti occhi grigi. Ricordò un sogno che aveva fatto: cieli azzurri e Tessa che gli si sedeva accanto su una collina verde. Tu verrai sempre per primo nel mio cuore. Una rabbia feroce gli sgorgò in petto. Come osava Mortmain toccarla? Era una di loro. Non apparteneva a Will – era troppo se stessa per appartenere a qualcuno, perfino a Jem – ma il suo posto era con loro, e dentro di sé maledisse il Console. L’avrebbe trovata. L’avrebbe trovata e riportata a casa, e anche se lei non lo amava non ci sarebbe stato problema. Tornò verso Balios, che lo guardò inquieto. — Avanti, vecchio mio — disse, saltando in sella.. — Il sole sta calando, e dovremmo raggiungere Hockliffe entro il tramonto, perché minaccia pioggia. — Will affondò gli speroni nei fianchi del cavallo e Balios, quasi avesse capito le parole del padrone, partì come una saetta. — È partito per il Galles, da solo? — chiese Charlotte. — Come avete potuto lasciargli fare una cosa tanto stupida? Magnus scrollò le spalle. — Non è mia responsabilità, e non lo sarà mai, domare i Cacciatori ribelli. Comunque non sono sicuro del perché sarei da biasimare. Ho passato la notte in biblioteca

aspettando che Will venisse a parlarmi, cosa che non ha fatto. Alla fine mi sono addormentato nella sezione “Idrofobia e Licantropia”. Di quando in quando a Woolsey scappa un morso, e sono preoccupato. Tutto sommato era stata una colazione tranquilla, disertata solo da pochi di loro. L’assenza di Will non era stata una sorpresa. Avevano supposto che fosse al fianco di Jem. Perciò soltanto dopo che Cyril aveva fatto irruzione nella stanza, ansimante e tutto agitato, per riferire che Balios era scomparso dal box, era stato dato l’allarme. Una ricerca all’interno dell’Istituto aveva portato alla scoperta di Magnus addormentato in un angolo della biblioteca. Charlotte lo aveva svegliato scuotendolo. Alla domanda di dove potesse essere Will, lo stregone aveva risposto con aria candida che pensava fosse già partito per il Galles allo scopo di scoprire dov’era Tessa e riportarla all’Istituto, di nascosto o con la forza. Tale informazione aveva gettato nel panico Charlotte, che aveva convocato una riunione in biblioteca alla quale erano stati obbligati a presenziare tutti i Cacciatori dell’Istituto tranne Jem. Anche Gideon era arrivato, zoppicando e appoggiandosi pesantemente a un bastone. — Qualcuno sa quando è partito Will? — chiese Charlotte, in piedi a un capo del lungo tavolo intorno al quale erano seduti gli altri. Cecily, con le mani giunte compostamente davanti a sé, si mostrò improvvisamente interessata al disegno del tappeto. — È un gioiello davvero bello quello che indossi, Cecily — disse Charlotte, fissando con gli occhi socchiusi il rubino al collo della ragazza. — Non ricordo che ieri portassi quella collana. In effetti, ricordo che era Will a portarla. Quando te l’ha data? Cecily incrociò le braccia sul petto. — Non dirò niente. Le decisioni di mio fratello sono solo sue, e abbiamo già provato a spiegare al Console cosa bisognava fare. Visto che l’Enclave non ci aiuterà, Will ha preso la faccenda nelle sue mani. Non so perché vi aspettaste qualcosa di diverso. — Non pensavo che avrebbe lasciato Jem — osservò Charlotte, quindi sembrò scioccata da quanto aveva appena detto. — Non posso nemmeno immaginare come dirglielo quando si sveglierà. — Jem lo sa… — cominciò Cecily con aria sdegnata, ma con sua sorpresa fu interrotta da Gabriel. — Certo che lo sa — disse il Nephilim. — Will sta solo facendo il proprio dovere di parabatai. Sta facendo quello che farebbe Jem, se potesse. È andato al posto di Jem. È solo ciò che dovrebbe fare un parabatai. — Tu stai difendendo Will? — disse Gideon al fratello. — Dopo il modo in cui l’hai sempre trattato? Dopo aver detto a Jem in decine di occasioni che aveva dato prova di pessimo gusto nella scelta del parabatai? — Will sarà anche una persona biasimevole, ma almeno ciò dimostra che non è un Cacciatore biasimevole. — Cogliendo lo sguardo di Cecily, Gabriel aggiunse: — E in fondo potrebbe anche non essere una persona così biasimevole. Nel suo complesso. — Un’affermazione molto generosa, Gideon — disse Magnus. — Io sono Gabriel. Lo stregone fece un gesto noncurante. — I Lightwood mi sembrano tutti uguali… Gideon lanciò uno sguardo ammonitore al fratello, prima che Gabriel potesse afferrare qualcosa e tirarla a Magnus. — A prescindere dalle qualità e dai difetti personali di Will o dall’incapacità di qualcuno nel distinguere un Lightwood dall’altro, la questione rimane aperta: andiamo dietro a Will?

— Se avesse voluto aiuto, non sarebbe partito nel cuore della notte senza farne parola a nessuno — osservò Cecily. — Certo, Will è ben noto per prendere decisioni ponderate e prudenti — replicò Gideon. — Ha preso il nostro cavallo più veloce — osservò Henry. — Questo, in un certo senso, è segno di lungimiranza. — Non possiamo permettere a Will di scontrarsi con Mortmain da solo. Verrà massacrato — disse Gideon. — Se davvero è partito in piena notte, potremmo essere in grado di raggiungerlo lungo la strada… — Il cavallo più veloce — ricordò Henry, e Magnus sbuffò piano. — In realtà, non è un massacro inevitabile — osservò Gabriel. — Potremmo metterci tutti all’inseguimento di Will, certo, ma il fatto è che un gruppo del genere, mandato contro il Magister, darebbe nell’occhio più di un ragazzo a cavallo. La migliore speranza, per Will, è quella di non essere individuato. Dopotutto, non sta andando in guerra. Sta andando a salvare Tessa. Circospezione e segretezza sono gli ingredienti migliori per una simile missione… Charlotte sbatté la mano sul tavolo con tale forza che il rumore echeggiò nella stanza. — State tutti zitti! — disse, in un tono talmente autoritario che perfino Magnus sembrò allarmato. — Gabriel, Gideon, avete ragione entrambi. È meglio per Will se non lo seguiamo, ma al tempo stesso non possiamo permettere a uno dei nostri di morire. È anche vero che il Magister è al di fuori della nostra portata; il Consiglio si riunirà per decidere sulla questione. Per ora non possiamo fare nulla al riguardo. Dunque, dobbiamo rivolgere tutte le nostre energie nel tentativo di salvare Jem. Sta morendo, ma non è ancora morto. Una parte della forza di Will dipende da lui, e lui è uno dei nostri. Ci ha finalmente autorizzati a cercargli una cura, perciò questo è quello che dobbiamo fare. — Ma… — cominciò Gabriel. — Silenzio — disse Charlotte. — Io sono il capo dell’Istituto. Ricorda chi ti ha salvato da tuo padre e mostrami rispetto. — E con questo Gideon è sistemato — disse Magnus, sorridendo. Charlotte si girò verso di lui, con occhi fiammeggianti. — Quanto a voi, stregone… Will può anche avervi convocato qui, ma vi rimanete soltanto perché io tollero la vostra presenza. Se ho ben capito, come mi avete detto questa mattina, avete promesso a Will che in sua assenza avreste fatto tutto il possibile per aiutare a trovare una cura per Jem. Direte a Gabriel e Cecily dov’è il negozio in cui potrebbero trovare gli ingredienti di cui avete bisogno. Gideon, visto che sei ferito, rimarrai in biblioteca e reperirai tutti i libri che serviranno a Magnus. Henry, forse Magnus può usare la tua cripta come laboratorio, a meno che non lo impedisca qualche progetto a cui stai lavorando? — Charlotte guardò il marito, con sguardo interrogativo. — In effetti, un progetto c’è — disse Henry, in tono esitante. — Ma potrebbe anche rivelarsi d’aiuto a Jem, e gradirei molto l’assistenza del signor Bane. In cambio, naturalmente, potrà usare a suo piacimento i miei strumenti scientifici. Magnus lo guardò con curiosità. — A cosa state lavorando, esattamente? — Be’, sapete che noi non facciamo ricorso alla magia, signor Bane, ma sto studiando un congegno che potrebbe ricordare la versione scientifica di un incantesimo di trasporto. — Henry era felice che qualcuno si dimostrasse interessato ai suoi esperimenti — Aprirebbe una porta su qualsiasi luogo si voglia… — Compreso magari un magazzino pieno di yin fen in Cina? — Gli occhi di Magnus scintillavano.

— Sembra molto interessante, davvero molto interessante. — Macché — borbottò Gabriel. Charlotte lo trafisse con lo sguardo. — Signor Lightwood, basta. Credo che tutti voi abbiate ricevuto dei compiti. Mettetevi al lavoro. Non voglio sentire altro, da alcuno di voi, finché non mi riferirete di qualche progresso. Io starò con Jem. — Una reazione davvero soddisfacente — commentò la Sorella Oscura. Tessa la guardò con astio. Era rannicchiata nel suo angolo della carrozza, il più lontano possibile dall’orribile vista della creatura che un tempo era stata la signora Black. Nel vederla, la ragazza aveva urlato e si era portata svelta le mani alla bocca; ma troppo tardi. La Sorella Oscura era stata chiaramente compiaciuta di quella reazione terrorizzata. — Siete stata decapitata — disse Tessa. — Come fate a vivere? — Magia. È stato vostro fratello a suggerire a Mortmain che, nella mia attuale forma, avrei potuto essergli d’aiuto. È stato vostro fratello a versare il sangue che mi ha permesso di continuare a vivere. Vite altrui per la mia vita. — La signora Black fece un sorriso orribile. Tessa pensò al fratello, che era morto tra le sue braccia. Tu non sai tutto quello che ho fatto, Tessie. Ingoiò la bile. Dopo la sua morte, aveva provato a trasformarsi in lui per attingere tutte le informazioni possibili su Mortmain dai suoi ricordi, ma non vi aveva trovato nulla di interessante, soltanto un vortice grigio di rabbia, amarezza e ambizione. Fu assalita da un nuovo impeto di odio per il Magister, che aveva scoperto le debolezze di Nate e le aveva sfruttate. Mortmain aveva fatto incetta dello yin fen di Jem nel crudele tentativo di sottomettere i Cacciatori al proprio volere. Perfino la signora Black, in un certo senso, era prigioniera delle sue manipolazioni. — Eseguite gli ordini di Mortmain perché pensate che vi darà un corpo — disse Tessa. — Non quella… quella cosa che avete, ma un corpo reale, umano. — Umano. — La Sorella Oscura sbuffò. — Mi aspetto qualcosa di meglio, qualcosa che mi permetterà di passare inosservata tra i mondani e praticare di nuovo la mia arte. Quanto al Magister, so che avrà il potere di farlo, grazie a voi. Ben presto sarà onnipotente, e voi lo aiuterete a diventarlo. — Siete sciocca a credere che vi ricompenserà. Le labbra grigie della signora Black tremolarono per le risa. — Oh, ma lo farà. L’ha giurato, e io ho fatto tutto ciò che avevo promesso. Ecco che sto per consegnargli una sposa perfetta… addestrata da me! Per Azazel, ricordo quando siete scesa dalla nave venuta dall’America. Sembravate così puramente umana, così assolutamente inutile, disperavo di potervi addestrare in modo che serviste a qualcosa. Ma, con sufficiente brutalità, si può plasmare chiunque. Ora ve la caverete benissimo. — Non tutto ciò che è mortale è inutile. — Lo dite per via del vostro legame con i Nephilim. Siete stata troppo a lungo con loro invece che con la vostra razza. — Quale razza? Io non ho nessuna razza. Jessamine ha detto che mia madre era una Cacciatrice… — Era una Cacciatrice — confermò la signora Black. — Ma vostro padre non lo era. Il cuore di Tessa saltò un battito. — Era un demone? — Non era un angelo. — La Sorella Oscura fece un sorriso compiaciuto. — Il Magister vi spiegherà tutto, a suo tempo… che cosa siete, e perché vivete, e a quale fine siete stata creata. — Si rimise comoda, con uno scricchiolio di giunture meccaniche. — Devo dire che sono rimasta alquanto

colpita quando siete scappata con quel giovane Cacciatore; avete dimostrato di avere grinta. In effetti, è tornato a vantaggio del Magister che abbiate passato tanto tempo con i Nephilim. Ora conoscete il Mondo Invisibile, e vi siete dimostrata alla sua altezza. Siete stata costretta a usare il vostro dono in circostanze difficili. Non avrei potuto creare per voi prove altrettanto impegnative e altrettanto capaci di darvi esperienza e fiducia in voi stessa. Vedo la differenza rispetto a prima. Sarete un’ottima sposa per il Magister. — Perché? — replicò Tessa. — A quanto pare, sono costretta a sposarlo. Che differenza fa se ho grinta o esperienza? Cosa gliene può importare? — Oh, voi siete destinata a essere ben più che la sua sposa, signorina Gray. Siete destinata a essere la rovina dei Nephilim. È per questo che siete stata creata. E più conoscenza di loro avrete, più le vostre simpatie andranno a loro, più sarete un’arma efficace per annientarli. Tessa ebbe l’impressione di avere ricevuto un colpo e di essere rimasta senza aria nei polmoni. — Non m’importa dei piani di Mortmain. Non contribuirò a fare del male ai Cacciatori. Preferirei morire, piuttosto, o essere torturata. — Non ha importanza quello che volete. Scoprirete di non potergli opporre alcuna efficace resistenza. E poi, per distruggere i Nephilim non dovrete fare nient’altro che essere quello che siete. Ed essere sposata a Mortmain, cosa che non richiede alcuna iniziativa da parte vostra. — Sono fidanzata con un altro — dichiarò Tessa. — James Carstairs. — Oh, cara… Temo che la richiesta del Magister soppianti la sua. E James Carstairs sarà morto entro martedì. Mortmain ha fatto incetta di tutto lo yin fen d’Inghilterra e bloccato qualsiasi nuova spedizione. Forse avreste dovuto pensare a questo genere di cose, prima di innamorarvi di uno schiavo della droga. Anche se pensavo che vi sareste innamorata di quello con gli occhi azzurri — disse la signora Black. — Le ragazze di solito non si innamorano dei loro salvatori? Tessa cominciò a sentirsi avvolta in un’atmosfera surreale. Non poteva credere di essere lì, intrappolata in una carrozza con quell’essere, e che la Sorella Oscura sembrasse compiaciuta di parlare delle sue tribolazioni amorose. Si girò verso il finestrino. La luna era alta, e stavano percorrendo una strada stretta… la carrozza era circondata da ombre; sotto di essa, un burrone roccioso scendeva a precipizio nell’oscurità. — Ci sono tanti modi di essere salvati. — Be’, potete star certa che ora nessuno verrà a salvarvi. — La signora Black fece balenare i denti in un sorriso. Siete destinata a essere la rovina dei Nephilim. — Allora dovrò salvare me stessa — disse Tessa. Le sopracciglia della signora Black si avvicinarono in un’espressione confusa mentre girava la testa verso la ragazza, con un ronzio e uno scatto. Ma Tessa si stava già concentrando, riunendo tutte le proprie energie nelle gambe e nel corpo come le avevano insegnato a fare, sicché quando si lanciò attraverso la carrozza verso lo sportello, fu con tutta la forza che possedeva. Sentì la serratura che si spaccava e l’urlo della signora Black, un alto lamento di rabbia. Un braccio metallico le sfiorò la schiena e afferrò il colletto del vestito, che si strappò, mentre Tessa rovinava sui sassi al lato della strada, scivolando poi nel burrone. Intanto, la carrozza continuava la sua corsa, con la signora Black che urlava al cocchiere di fermarsi. Durante la caduta il vento entrò nelle orecchie della ragazza, le sue braccia e le sue mani mulinarono impetuosamente nel vuoto, e ogni speranza che il burrone fosse poco profondo o che sarebbe sopravvissuta scomparve. Mentre precipitava, scorse uno stretto torrente che scintillava

sotto di lei, serpeggiando tra rocce frastagliate, e capì che al momento di colpire il suolo si sarebbe sfracellata come porcellana. Chiuse gli occhi e desiderò che la fine giungesse in fretta. Will era in cima a un’alta collina verde. Il cielo e il mare erano entrambi di un blu tanto intenso che sembravano fondersi l’uno nell’altro, sicché non c’erano punti fissi sull’orizzonte. Gabbiani e starne roteavano e gridavano sopra di lui, il vento salmastro gli scompigliava i capelli. Faceva caldo come in estate, e la sua giacca giaceva abbandonata sull’erba; era in maniche di camicia e bretelle, aveva le mani scure e abbronzate dal sole. — Will! — Nell’udire la voce familiare si girò e vide Tessa salire su per la collina verso di lui. Lungo il fianco dell’altura c’era un piccolo sentiero orlato di fiori bianchi, e Tessa sembrava lei stessa un fiore, con un vestito bianco come quello che aveva indossato al ballo, la notte che lui l’aveva baciata sul balcone di Benedict Lightwood. I suoi lunghi capelli castani si agitavano al vento. Si era tolta la cuffietta e la teneva in una mano, sventolandola verso Will e sorridendo come se fosse felice di vederlo. Più che felice. Come se vederlo fosse tutta la gioia del proprio cuore. — Tess… — Will allungò una mano, come per attirarla a sé. Ma la ragazza era ancora a una certa distanza, al tempo stesso molto vicina e molto lontana. Lui poteva vedere ogni dettaglio del suo bel viso, ma non toccarla, e perciò stava lì, in attesa, pieno di desiderio, e il cuore gli batteva come un frullio d’ali nel petto. Alla fine, Tessa fu abbastanza vicina perché il ragazzo potesse vedere il punto in cui l’erba e i fiori si piegavano sotto le suole delle sue scarpe. Will allungò una mano, e lei fece lo stesso. Le loro mani si chiusero l’una sull’altra e, per un momento, rimasero così, sorridendo, le dita di lei calde in quelle di lui. — Ti stavo aspettando — disse Will. Tessa alzò lo sguardo su di lui con un sorriso, che scomparve mentre i suoi piedi scivolavano facendola oscillare verso l’orlo del precipizio. Le sue mani si allontanarono da lui, e a un tratto Will si ritrovò a stringere l’aria mentre Tessa cadeva all’indietro, cadeva in silenzio, una macchia bianca contro l’orizzonte azzurro. Will si mise a sedere di scatto sul letto, con il cuore che gli martellava contro le costole. La sua stanza alla locanda Cavallo Bianco era rischiarata dalla luce della luna, che delineava distintamente le forme poco familiari dei mobili: il portacatino e il comodino con la copia intonsa dei Sermoni alle giovani donne di James Fordyce, la sedia imbottita accanto al caminetto, in cui le fiamme si erano consumate e ridotte in braci. Le lenzuola erano fredde, ma Will sudava. Andò verso la finestra. In un vaso, sul davanzale, c’era una composizione di fiori secchi: lo spinse via e aprì il vetro, con dita doloranti. Gli faceva male tutto il corpo. Non aveva mai cavalcato così lontano o con tale impeto in vita sua, ed era stanco e indolenzito. Avrebbe avuto bisogno di qualche iratze, prima di rimettersi in cammino l’indomani. La finestra si aprì verso l’esterno e l’aria fredda gli colpì il viso e i capelli, rinfrescandogli la pelle. Sotto le costole aveva una fitta che non dipendeva dalla cavalcata. Se si trattasse della separazione da Jem o dell’ansia per Tessa, non avrebbe saputo dirlo. Continuava a vederla cadere all’indietro mentre le loro mani si separavano. Non era mai stato tra coloro che credevano nel significato profetico dei sogni, eppure non riusciva a sciogliere il nodo stretto e gelido nello stomaco, né a regolare il respiro affannoso.

Nel vetro scuro della finestra vedeva il riflesso del proprio viso. Lo toccò lievemente, e le punte delle dita lasciarono dei segni sulla condensa. Si chiese cosa avrebbe detto a Tessa quando l’avesse trovata, come avrebbe fatto a spiegarle perché era stato lui a venirla a cercare, e non Jem. Se c’era un po’ di indulgenza nel mondo, almeno avrebbero potuto soffrire insieme. Se Tessa non aveva mai creduto seriamente al suo amore, se non aveva mai ricambiato il suo affetto, almeno la pietà poteva far sì che condividessero la tristezza. Quasi incapace di sopportare il pensiero di quanto bisogno avesse della forza serena di lei, Will chiuse gli occhi e appoggiò la fronte contro il vetro freddo. Mentre si inoltravano nei vicoli tortuosi dell’East End, diretti dalla Limehouse Station a Gill Street, Gabriel non poté fare a meno di essere consapevole della presenza di Cecily al suo fianco. Si erano resi invisibili, cosa utile, giacché altrimenti la loro comparsa in quella zona povera della città avrebbe senza dubbio suscitato inviti insistenti a entrare nelle botteghe per “dare uno sguardo alla merce in vendita”. Sta di fatto che Cecily era curiosissima, e si fermava spesso a guardare le vetrine, non solo di modiste e fabbricanti di cappellini, ma di negozi che vendevano di tutto, dal lucido da scarpe ai libri, dai giocattoli ai soldatini di stagno. Gabriel sapeva che la ragazza veniva dalla campagna e, probabilmente, non aveva mai visto una prospera città mercantile, e men che meno nulla che assomigliasse a Londra. Avrebbe desiderato portarla da qualche parte che si addicesse maggiormente a una signorina della sua condizione, nei negozi della Burlington Arcade o di Piccadilly, piuttosto che in quelle strade buie e soffocanti. Non sapeva cosa aspettarsi dalla sorella di Will Herondale. Che fosse sgradevole quanto il fratello? Che non gli assomigliasse in maniera così sconcertante pur essendo al tempo stesso tanto graziosa? Aveva guardato di rado il viso di Will senza avere voglia di colpirlo, ma il viso di Cecily era straordinariamente affascinante. Si sorprese a voler scrivere poesie su come i suoi occhi azzurri avessero uno sguardo divino e i suoi capelli un bagliore corvino, perché “divino” faceva rima con “corvino”, ma aveva la sensazione che ne sarebbero venuti fuori dei versi orribili, e poi Tatiana lo aveva già dissuaso abbastanza dalla poesia. Inoltre, c’erano cose che non si potevano comunque mettere in versi; ad esempio la sensazione per cui, quando una certa ragazza piegava la bocca in un certo modo, si provava una gran voglia di sporgersi in avanti e… — Signor Lightwood… — Il tono impaziente di Cecily indicava come non fosse la prima volta che provava ad attirarne l’attenzione. — Credo proprio che abbiamo già passato il negozio. Gabriel imprecò sottovoce e si girò. Effettivamente avevano passato il numero che Magnus aveva dato loro; tornarono sui propri passi finché non si trovarono davanti a un brutto negozio dalle vetrine oscurate. Attraverso il vetro opaco videro scaffali ingombri di una varietà di articoli insoliti: barattoli in cui galleggiavano serpenti morti dai bianchi occhi spalancati, bambole le cui teste erano state tolte e sostituite da piccole gabbie dorate, pile di bracciali fatti di denti umani… — Accidenti! È decisamente sgradevole — commentò Cecily. — Preferite non entrare? — le chiese Gabriel. — Potrei andare io… — E lasciarmi da sola su questo marciapiede gelido? Davvero indegno da parte di un gentiluomo. Certo che no. — Cecily aprì la porta, facendo tintinnare un piccolo campanello. — Dopo di me, prego, signor Lightwood. Gabriel la seguì, sbattendo gli occhi nella fievole luce del negozio. L’interno non era più accogliente dell’esterno. Lunghe file di scaffali polverosi conducevano

verso un banco in ombra, in fondo al locale. Le vetrine sembravano spalmate di un unguento scuro che impediva quasi del tutto alla luce del giorno di penetrare. Quanto agli scaffali, contenevano un’accozzaglia di roba: campanelli di ottone con manici a forma di ossa, grosse candele con insetti e fiori infilati nella cera, una bella corona dorata di forma e diametro talmente strani che non sarebbe mai entrata in una testa umana. C’erano scaffali di coltelli, e catini di rame e pietra il cui interno era segnato da inquietanti macchie brunastre. C’erano pile di guanti di tutte le misure, alcuni con più di cinque dita su ciascuna mano. Un intero scheletro umano scarnificato era appeso a una corda sottile e dondolava nonostante l’assenza di correnti d’aria. Gabriel gettò una rapida occhiata verso Cecily per vedere se fosse turbata, ma non lo era. Semmai, appariva irritata. — Qualcuno dovrebbe proprio dare una bella spolverata qui dentro — annunciò la ragazza, e avanzò a grandi passi verso il fondo del negozio, facendo sobbalzare i fiorellini sul cappello. Abbassò la mano inguantata sul campanello di ottone del bancone, traendone una scampanellata impaziente. — Ehilà, c’è nessuno? — Mi avete davanti, signorina — disse una voce irritata. I due ragazzi si sporsero dal bancone. Proprio sotto il bordo c’era il cocuzzolo della testa di un piccolo uomo. No, non proprio un uomo, pensò Gabriel annullando l’incantesimo che rendeva invisibili… un satiro. Indossava panciotto e pantaloni ma era senza camicia, e aveva gli zoccoli e le corna graziosamente ricurve di una capra. Aveva anche la barba spuntata, le mascelle appuntite e gli occhi gialli dalla pupilla rettangolare tipici delle capre, seminascosti dietro gli occhiali. — Accipicchia — mormorò Cecily. — Voi dovete essere il signor Sallows. — Nephilim… — Il satiro scosse la testa. — Io detesto i Nephilim. Gabriel sentì che era giunto il momento di intervenire. — Come fate a sapere che siamo Cacciatori? Sallows sollevò le sopracciglia. — I vostri marchi sono chiaramente visibili sulle mani e sulla gola, signore — spiegò, come se parlasse a un bambino. — Quanto alla ragazza, è identica al fratello. — E come mai conoscete mio fratello? — domandò Cecily. — Non riceviamo la visita di molti della vostra razza qui — disse Sallows. — Quando succede, è degno di nota. Vostro fratello è passato piuttosto spesso due mesi fa, sbrigando commissioni per conto di quello stregone, Magnus Bane. È stato anche al Cross Bones a importunare la Vecchia Mol. Will Herondale è ben conosciuto nel Mondo Invisibile, per quanto tenda a tenersi fuori dai guai. — Questa è davvero una notizia sorprendente — commentò Gabriel. Cecily gli gettò un’occhiata fosca. Poi tornò a rivolgersi a Sallows. — Siamo qui per incarico di Charlotte Branwell, che è a capo dell’Istituto di Londra. Il satiro fece un gesto sprezzante. — Non mi curo molto delle vostre gerarchie di Cacciatori; nessuno del Popolo Fatato lo fa. Ditemi solo quello che volete, e vi farò un buon prezzo. Gabriel aprì il foglio datogli da Magnus. — Aceto dei quattro ladri, radice testa di pipistrello, belladonna, angelica, foglie di damiana, squame di sirena in polvere e sei chiodi della bara di una vergine. — Be’, non abbiamo molta richiesta per questo genere di cose. Dovrò guardare nel retro — fece Sallows. — Se non avete molta richiesta per questo genere di cose, per che cosa avete richiesta? — chiese Gabriel, perdendo la pazienza. — Non siete mica un fioraio.

— Signor Lightwood — lo rimproverò Cecily sottovoce… ma non abbastanza, perché Sallows la sentì, e gli occhiali gli sobbalzarono sul naso. — Signor Lightwood? Siete voi il figlio di Benedict Lightwood? Gabriel sentì il sangue infiammargli le guance. Non aveva parlato quasi a nessuno del padre, dopo la sua morte… sempre che si potesse considerare suo padre la cosa che era morta nel giardino all’italiana. Una volta erano Benedict e la sua famiglia contro tutto il mondo, i Lightwood al di sopra di chiunque altro, ma ormai… nel nome dei Lightwood c’era tanta vergogna quanto prima c’era stato orgoglio, e Gabriel non sapeva come parlarne. — Sì — ammise infine. — Sono il figlio di Benedict Lightwood. — Magnifico! Ho alcune sue ordinazioni qui. Stavo cominciando a chiedermi se sarebbe mai venuto a ritirarle. — Il satiro trotterellò nel retro, e Gabriel si tenne occupato osservando la parete. C’erano appesi schizzi di paesaggi e mappe, poi guardando più attentamente, vide che si trattava di schizzi e mappe di luoghi sconosciuti. C’era Idris, naturalmente, con la Foresta di Brocelind e Alicante sulla sua collina, ma un’altra mappa mostrava continenti che non aveva mai visto prima… e che cos’era il Mar Argenteo? E le Montagne Spinose? E quale Paese aveva un cielo purpureo? — Gabriel… — sussurrò Cecily. Era la prima volta che lo chiamava per nome, e il Nephilim fece per girarsi verso di lei, proprio mentre il satiro emergeva dal retro del negozio. In una mano aveva un pacco legato che porse al ragazzo. Era piuttosto bitorzoluto, conteneva chiaramente i flaconi degli ingredienti per Magnus. Nell’altra stringeva un mucchio di riviste che depose sul banco. — L’ordinazione di vostro padre — disse Sallows, con un sorriso ammiccante. Gabriel abbassò gli occhi sulle riviste… e rimase a bocca aperta, inorridito. — Accidenti, ma non è possibile! — esclamò Cecily. Il satiro allungò la testa per vedere cosa stesse guardando. — Be’, non con una persona, certo, ma con un demone Vetis e una capra, è più che verosimile. — Si rivolse a Gabriel. — Avete o no i soldi per pagare questa roba? Vostro padre è indietro con i pagamenti, e non può comprare a credito all’infinito. Che facciamo, Lightwood? — Charlotte vi ha mai chiesto se volevate diventare una Cacciatrice? — domandò Gideon. Era seduto a uno dei lunghi tavoli della biblioteca, vicino a un bovindo che dava sul cortile. Sul tavolo erano sparsi libri e carte, che lui e Sophie avevano esaminato piacevolmente per parecchie ore, alla ricerca di liste e storie di incantesimi, dettagli sullo yin fen e rimedi erboristici. Sebbene la gamba stesse guarendo rapidamente, Gideon la teneva appoggiata, distesa su due sedie davanti a lui. Sophie si era offerta volentieri di arrampicarsi su e giù per le scalette, per prendere i libri più in alto. In quel momento ne aveva in mano uno intitolato Pseudomonarchia Daemonum, che aveva una copertina piuttosto viscida al tatto e che era ansiosa di posare, ma la domanda l’aveva sorpresa al punto da farla bloccare a metà della scala a pioli. — Cosa intendete dire? Perché Charlotte avrebbe dovuto chiedermi una cosa del genere? Gideon era pallido, o forse era semplicemente l’effetto della stregaluce sul suo viso. — Signorina Collins, voi siete una delle migliori combattenti che io abbia mai addestrato. Per questo lo chiedo. Mi sembra un peccato sprecare un simile talento. Ma forse non è cosa che possa interessarvi? Sophie scese dalla scala, depose il libro sul tavolo e si sedette di fronte a Gideon. Sapeva che avrebbe dovuto mostrarsi titubante, dare l’aria di pensarci su, ma la risposta le uscì di

bocca prima che potesse frenarsi. — Essere una Cacciatrice è tutto ciò che ho sempre desiderato. Gideon si sporse in avanti, e la stregaluce gli brillò negli occhi, lavandone via il colore. — Non siete preoccupata del pericolo? Più si è adulti al momento dell’Ascensione, più rischiosa è l’operazione. Ho sentito dire che vogliono abbassare i limiti dell’età consentita per l’Ascensione a quattordici o perfino a dodici anni. Sophie scosse la testa in segno di diniego. — Non ho mai temuto il rischio, lo correrei volentieri. C’è solo una cosa che temo: se facessi domanda per l’Ascensione, la signora Branwell potrebbe pensare che non le sono riconoscente per tutto il bene che mi ha fatto. Mi ha salvato la vita e mi ha risollevata. Mi ha dato sicurezza e una casa. Non la ricambierei mai, per tutto questo, abbandonando il suo servizio. Gideon scosse la testa. — Sophie… signorina Collins… voi siete una persona libera, seppure cameriera in una casa di Cacciatori. Avete la Vista. Sapete già tutto quello che c’è da sapere su Nascosti e Nephilim. Siete la candidata ideale all’Ascensione. — Il ragazzo mise la mano sul libro di demonologia. — Ho voce in capitolo nel Consiglio. Potrei parlare in vostro favore. — Non posso — replicò Sophie, con un filo di voce. Non capiva, Gideon, la tentazione cui la stava sottoponendo? — E di certo non ora. — No, non ora, si capisce, con James così malato — si affrettò a dire il Nephilim. — Ma in futuro? — I suoi occhi studiarono il viso di Sophie, che sentì il rossore montarle lentamente dal colletto. Il modo più ovvio e comune per un mondano di ascendere allo stato di Cacciatore era attraverso il matrimonio con uno di loro. La ragazza si chiese cosa significava il fatto che Gideon sembrasse assolutamente deciso a non toccare quel tasto. — Ma, quando ve l’ho chiesto, avete parlato con tale determinazione — continuò il Nephilim. — Avete detto che essere una Cacciatrice era tutto ciò che avete sempre desiderato. Perché? Può essere una vita brutale. — Tutta la vita può essere brutale — ribatté la ragazza. — Prima che venissi all’Istituto, la mia vita non era certo piacevole. Suppongo che, in parte, io desideri essere una Cacciatrice perché, se mai un altro uomo mi aggredisse con un coltello in mano, come ha fatto il mio precedente padrone, potrei ucciderlo all’istante. — Nel parlare, Sophie si toccò la guancia, un gesto inconsapevole dal quale non sapeva trattenersi, e sentì la ruvidità della cicatrice sotto i polpastrelli. — Non sapevo che vi foste procurata così la cicatrice — disse Gideon, con un’espressione di turbamento misto a disagio. Sophie lasciò ricadere la mano e distolse lo sguardo. — Adesso direte che non è poi così brutta, o che non si vede neanche, o qualcosa del genere. — La vedo — disse Gideon. — Non sono cieco, e noi siamo persone piene di cicatrici. La vedo, ma non è brutta. È solo un’altra bella parte della ragazza più bella che io abbia mai visto. Sophie si sentì le guance in fiamme e, mentre Gideon si sporgeva al di sopra del tavolo con gli occhi del verde intenso di un mare in tempesta, fece un profondo respiro risoluto. Lui non era come il suo precedente padrone. Era Gideon. Questa volta non lo avrebbe respinto. All’improvviso la porta della biblioteca si spalancò. Charlotte apparve sulla soglia, aveva delle chiazze umide sul vestito e gli occhi ombrati; sembrava esausta. Sophie scattò in piedi all’istante. — Signora Branwell? — Oh, Sophie — sospirò Charlotte. — Speravo che potessi stare un po’ con Jem. Non si è ancora

svegliato, ma Bridget deve preparare la cena, e credo che le sue canzoni terrificanti gli popolino il sonno di incubi. — Certo. — La ragazza corse verso la porta, senza guardare Gideon… tuttavia, mentre la porta si richiudeva alle sue spalle, fu quasi sicura di sentirlo imprecare piano e con gran frustrazione, in spagnolo. — Non dovevate scaraventare quell’uomo attraverso la vetrina — disse Cecily. — Non era un uomo — replicò Gabriel, guardando con espressione torva il mucchio di roba che aveva tra le braccia. Aveva preso il pacco di ingredienti per Magnus che il satiro aveva preparato, e qualche altro oggetto dall’aria utile dagli scaffali lì accanto. Aveva ostentatamente lasciato tutte le riviste ordinate dal padre sul banco dove Sallows le aveva posate … e infine aveva gettato il satiro attraverso una delle sue luride vetrine. Era stato di grande soddisfazione, con frantumi di vetro ovunque. L’impeto era stato tale da staccare lo scheletro appeso, che era andato fragorosamente in pezzi in un caos di ossa. — Era una creatura fatata della Corte Unseelie. Una di quelle cattive. — È per questo che lo avete inseguito lungo la strada? — Non doveva mostrare immagini come quelle a una signora — borbottò Gabriel, sebbene dovesse ammettere che la signora in questione non aveva battuto ciglio, e sembrava più arrabbiata con lui per quella reazione violenta che non colpita dalla sua cavalleria. — Penso comunque che sia stato eccessivo gettarlo nel canale. — Starà a galla. Gli angoli della bocca di Cecily si contrassero. — È stato assolutamente riprovevole. — State ridendo — osservò Gabriel, sorpreso. — Non è vero. — Cecily si girò, ma non prima che Gabriel vedesse allargarsi sul suo volto un sorriso. Il Nephilim era sconcertato. Dopo tutto lo sdegno mostrato nei suoi confronti, dopo tutti i discorsi sfacciati e impertinenti, era assolutamente certo che il suo ultimo scoppio d’ira l’avrebbe spinta a spiattellare tutto a Charlotte non appena fossero tornati all’Istituto, e invece Cecily sembrava divertita. Scrollò il capo mentre svoltavano su Garnet Street. Non avrebbe mai capito gli Herondale. — Per favore, passatemi la fiala su quello scaffale, signor Bane — disse Henry, che indossava due paia di occhiali di protezione, uno sulla testa e uno sugli occhi Magnus gli passò la fiala. Supponeva che le due paia di occhiali fossero dovute a una distrazione, ma decise di non approfondire, nel caso fossero invece un tentativo di seguire la moda. Guardava affascinato le sagome scintillanti disseminate sui tavoli del laboratorio. — Cosa sono tutti questi aggeggi, se mi è lecito chiederlo? Henry, compiaciuto nel sentirsi rivolgere quella domanda, prese un oggetto di ottone quadrato con numerosi pulsanti. — Questo qui è un sensore. Percepisce la vicinanza di demoni. — Si accostò a Magnus, e l’apparecchio emise un forte suono lamentoso. — Impressionante! —Magnus sollevò un aggeggio di stoffa, su cui era appollaiato un grosso uccello morto. — E questo che cos’è? — Il Cappellino Letale. — Ah… — Lo stregone sorrise. — In caso di bisogno, una signora può tirarne fuori delle armi con cui uccidere i nemici, immagino.

— Questa sembra un’idea di gran lunga migliore della mia. Magari foste stato presente quando mi è venuta — ammise Henry. — Purtroppo questo cappellino si stringe intorno alla testa dei nemici e li soffoca, purché essi lo indossino in quel momento. — Non sarà facile convincere Mortmain a mettersi un cappellino — osservò Magnus. — Anche se il colore potrebbe donargli. Henry scoppiò a ridere. — Molto buffo, signor Bane. — Per favore, chiamatemi Magnus. — D’accordo. — Henry gettò il cappellino su uno scaffale e prese un barattolo di vetro contenente una sostanza scintillante. — Questa è una polvere che, se sparsa in aria, rende visibili i fantasmi. Con aria ammirata, Magnus inclinò il barattolo alla luce della lampada e, quando Henry gli rivolse un sorriso a mo’ d’incoraggiamento, tolse il tappo. — Mi sembra molto bella. — Si versò un po’ di polvere sulla mano: la pelle scura fu avvolta in una luminescenza tremolante. — E oltre agli usi pratici, sembra funzionare anche per scopi cosmetici. Questa polvere farebbe scintillare la mia pelle in eterno. Henry aggrottò le sopracciglia. — Non in eterno, ma potrei preparartene un’altra partita quando vorrai. — Potrei risplendere a volontà! — Magnus gli fece un largo sorriso. — Sono oggetti affascinanti, Henry. Hai una visione del mondo diversa da quella di qualsiasi altro Nephilim che io abbia mai incontrato. Confesso che ritenevo la vostra gente in qualche modo carente di immaginazione, anche se ricca di drammi personali, ma tu mi hai dimostrato che non è sempre così. Di sicuro, la comunità dei Cacciatori deve onorarti e tenerti in grande considerazione, come un gentiluomo che ha davvero fatto progredire la propria razza. — No. — Henry scosse il capo, con aria triste. — Perlopiù si augurano che io la smetta di proporre nuove invenzioni e cessi di dare fuoco alle cose. — Ma tutte le invenzioni implicano un rischio! — replicò Magnus. — Ho visto le trasformazioni introdotte nel mondo dall’invenzione del motore a vapore, e la proliferazione di materiali stampati, le fabbriche e i mulini che hanno cambiato la faccia dell’Inghilterra. I mondani hanno preso il mondo nelle loro mani e lo hanno reso una cosa meravigliosa. Nel corso dei secoli, gli stregoni hanno sognato e perfezionato diverse formule magiche per creare un mondo diverso per se stessi. E i Cacciatori sarebbero gli unici a rimanere stagnanti e immutabili, e perciò condannati? Come possono arricciare il naso davanti al genio di cui hai dato prova? È come girarsi verso l’ombra allontanandosi dalla luce. Henry diventò paonazzo. Era chiaro che, prima di allora, nessuno si era mai complimentato con lui per le sue invenzioni, tranne forse Charlotte. — Voi mi imbarazzate, signor Bane. — Magnus — gli ricordò lo stregone. — Ora posso vedere il tuo lavoro sul portale di cui mi parlavi? L’invenzione che può trasferire un essere vivente da un luogo all’altro? — Certamente. — Henry tirò via una pesante pila di carta per appunti da un angolo del tavolo e la spinse verso Magnus. Lo stregone inizio a scorrere i fogli, con interesse. Su ogni pagina, in una sottile scrittura contorta, erano tracciate decine di equazioni in cui simboli matematici e rune si mescolavano con sorprendente armonia. Magnus sentì il cuore battergli più forte via via che sfogliava le pagine… quello era genio, vero genio. C’era solo un problema. — Vedo cosa stai cercando di fare — disse. — E ci sei quasi, ma…

— Già, quasi. — Henry si passò le mani tra i capelli, buttando all’aria gli occhiali di protezione. — Il portale può essere aperto, ma non c’è modo di orientarlo. Non c’è modo di sapere se, varcandolo, si finisce nella destinazione stabilita, in questo mondo o in un mondo completamente diverso, se non addirittura all’Inferno. È troppo rischioso, e perciò inutile. — Non puoi farlo con queste rune — affermò Magnus. — Ti servono rune diverse da quelle che usi. Henry scosse la testa. — Posso servirmi soltanto delle rune del Libro Grigio. Qualsiasi altra cosa è magia. E la magia non rientra nel codice di comportamento dei Nephilim. È qualcosa che non ci è lecito fare. Magnus guardò pensieroso Henry, per un lungo istante. — Ma io posso — dichiarò.

Le creature fatate della Corte Unseelie non andavano certo pazze per la luce… La prima cosa che Sallows – che in realtà, poi, neanche si chiamava così – aveva fatto tornando al negozio, era stato mettere della carta oleata sulla vetrina che il Nephilim aveva rotto così sventatamente. Anche i suoi occhiali erano andati persi nelle acque del Limehouse Cut. E, a quanto pare, nessuno gli avrebbe pagato le costosissime riviste ordinate da Benedict Lightwood. Nel complesso, era stata una giornata disastrosa. Quando il campanello del negozio tintinnò, avvertendo che la porta veniva aperta, Sallows alzò stizzosamente lo sguardo e aggrottò le sopracciglia. — Di nuovo voi, Nephilim? Avete deciso di buttarmi nel fiume non una, ma due volte? Mi vedo costretto ad avvertirvi che ho amici potenti… — Non ne dubito, imbroglione. — L’alta figura incappucciata sulla soglia allungò un braccio e si chiuse la porta alle spalle. — E sono molto interessato a saperne di più — soggiunse. Una fredda lama d’acciaio balenò nell’oscurità, e gli occhi del satiro si spalancarono per la paura. — Ho qualche domanda da farti — disse l’incappucciato. — Se fossi in te, non proverei a scappare. Sempre che tu ci tenga a rimanere tutto intero…

13 LA MENTE HA MONTAGNE

Oh, la mente, la mente ha montagne; alti dirupi Spaventosi, a picco, inesplorati dall’uomo. Li tiene in poco conto Chi non vi rimase mai sospeso. Né a lungo regge la nostra breve Resistenza quei precipizi scoscesi o profondi. Qui! Striscia, Misero, sotto il conforto che ti offre il vortice: a tutta la vita Pone fine la morte e ogni giorno muore nel sonno. Gerard Manley Hopkins, Il peggio no, non c’è

In seguito, Tessa non riuscì a ricordare se avesse gridato mentre precipitava. Rammentava solo una caduta lunga e silenziosa, il fiume e le rocce che le piombavano addosso, il cielo ai suoi piedi. Mentre mulinava in aria, con il vento che le sferzava il viso e i capelli, sentì un secco strattone al collo. Le braccia scattarono verso l’alto. La collana con l’angelo era sollevata sopra la testa, come se un’enorme mano si fosse allungata dal cielo per ghermirla. Tessa fu avvolta da una vaga forma metallica; un paio d’ali si aprirono come una porta e qualcosa l’afferrò, arrestandone la caduta. La ragazza spalancò gli occhi – era impossibile, inimmaginabile – ma l’angelo, il suo angelo meccanico, era cresciuto fino ad assumere le dimensioni di una persona e si librava sopra di lei, con le grandi ali metalliche che battevano per superare l’impeto del vento. Tessa alzò lo sguardo su un viso bello e vacuo, il viso di una statua fatta di metallo, privo di espressione… ma l’angelo aveva mani articolate come le sue, che la tenevano sollevata mentre le ali battevano e battevano e battevano e lei scendeva lentamente, delicatamente, come un soffione portato dalla brezza. Forse sto morendo, pensò Tessa. Non può essere. Ma mentre l’angelo la teneva e fluttuavano insieme verso terra, il suolo si faceva sempre più nitido. Ormai vedeva le singole rocce accanto al torrente, le correnti che scendevano a valle, il riflesso del sole sull’acqua. L’ombra delle ali si proiettava a terra e diventava sempre più ampia, finché Tessa non entrò in quell’ombra, e atterrò sul terriccio e sui sassi sparsi a lato del torrente.

Rimase senza fiato, più per l’emozione che per l’impatto, e sollevò le braccia, quasi per attutire con il corpo la caduta dell’angelo… ma quello si stava già restringendo, diventando sempre più piccolo e ripiegando le ali, finché non le cadde accanto, ridotto nuovamente alle dimensioni di un ciondolo. Tessa allungò una mano tremante e lo afferrò. Era stesa su sassi irregolari, mezza dentro e mezza fuori dall’acqua gelida, che le stava già inzuppando le gonne. Si arrampicò sulla sponda del torrente con quanta forza le rimaneva, quindi crollò finalmente sulla terra asciutta, con l’angelo premuto sul petto, sentendone il ticchettio familiare contro il cuore. Sophie era seduta nella poltrona accanto al letto di Jem, in quello che era sempre stato il posto di Will, e lo guardava dormire. C’era stato un tempo, pensò, in cui sarebbe stata quasi felice di tale opportunità, della possibilità di stargli così vicina, di mettergli le pezze fredde sulla fronte quando si muoveva e mormorava, ardente di febbre. E, sebbene non lo amasse più come aveva fatto un tempo – così come si ama qualcuno che non si conosce affatto, ormai ne era consapevole, con ammirazione e distacco –, a vederlo in quello stato le si stringeva il cuore. Una delle ragazze della città in cui Sophie era cresciuta era morta di tubercolosi, e lei ricordava che tutti avevano sottolineato come, prima di ucciderla, la malattia l’aveva resa ancora più bella… l’aveva resa pallida e sottile, le aveva soffuso il viso del colorito roseo tipico dei tubercolotici. In quel momento, mentre si agitava sui cuscini, Jem aveva quello stesso rossore sulle guance; i capelli argentei erano simili a brina, le dita inquiete si stringevano sulla coperta. Ogni tanto parlava, ma le parole erano in mandarino, e Sophie non le capiva. Gridò il nome di Tessa. Wo ai ni, Tessa. Bu lu run, he qing kuang fa sheng, wo men dou hui zai yi qi. E gridò anche il nome di Will – sheng si zhi jiao – in un modo che le fece venire voglia di prendergli la mano e tenerla, ma, quando fece per toccarlo, Jem ardeva di febbre. Sophie si ritrasse contro la spalliera della poltrona, chiedendosi se non fosse il caso di chiamare Charlotte per avvertirla che le condizioni di Jem erano peggiorate. Stava per alzarsi, quando all’improvviso Jem ansimò e spalancò gli occhi. Sophie si lasciò cadere di nuovo nella poltrona. Il malato aveva le iridi di un argento talmente chiaro da essere quasi bianche. — Will… sei tu? — No — rispose lei, quasi timorosa di muoversi. — Sono Sophie. Jem esalò piano l’aria e girò la testa sul cuscino, per guardarla. Sophie lo vide mettere a fuoco il suo viso a fatica… e poi, incredibilmente, sorridere, quel sorriso tanto dolce che, all’inizio, aveva conquistato il suo cuore. — Certo, Sophie. Will non è… ho mandato via Will. — È andato a cercare Tessa. — Bene. — Le mani affusolate di Jem serrarono la coperta, si strinsero una volta a pugno… e poi si allentarono. — Sono… contento. — Vi manca, vero? Jem annuì. — Posso percepire la sua lontananza, come una corda tesa, molto tesa dentro di me. Non me l’aspettavo. Non ci siamo mai separati da quando siamo diventati parabatai. — Cecily ha detto che lo avete mandato via. — Sì. È stata dura convincerlo. Credo che, se non fosse stato anche lui innamorato di Tessa, non sarei riuscito a farlo andare.

Sophie rimase a bocca aperta. — Lo sapevate? — Non da molto — rispose Jem. — No, non sono così crudele. Se l’avessi saputo, non avrei mai chiesto la mano di Tessa. Mi sarei fatto da parte. Non lo sapevo. Eppure, ora che tutto si sta allontanando da me, ogni cosa appare in una luce così chiara che penso avrei finito per capirlo, anche se non me l’avesse detto. Col tempo, l’avrei capito. — Jem sorrise lievemente nel vedere l’espressione turbata di Sophie. — Sono contento di non aver dovuto aspettare fino alla fine. — Non siete arrabbiato? — Sono contento. Quando me ne sarò andato, sapranno prendersi cura l’uno dell’altra, o almeno spero. Will dice che Tessa non lo ama, ma… col tempo finirà certamente col farlo. Will è facile da amare, e poi le ha dato tutto il suo cuore. Lo vedo. Spero che lei non glielo spezzi. A Sophie non venne in mente nulla da dire. Non sapeva cosa avrebbe potuto dire di fronte a un simile amore, fatto di tolleranza, di pazienza, di speranza. Nei mesi passati erano state tante le occasioni in cui si era pentita di aver pensato male di Will Herondale, quando lo aveva visto tirarsi indietro e permettere a Tessa e a Jem di essere felici insieme; e sapeva quale dolore avesse provato Tessa, insieme alla felicità, rendendosi conto che stava facendo del male a Will. Soltanto Sophie sapeva che a volte Tessa chiamava Will nel sonno; solo lei sapeva che la cicatrice che aveva sul palmo non era stata provocata da un contatto casuale con un attizzatoio, ma era una ferita voluta, che si era inferta per poter in qualche modo soffocare, con una sofferenza fisica, quella emotiva causatale dal dover rifiutare Will. Sophie aveva abbracciato Tessa mentre questa aveva pianto e si era strappata dai capelli i fiori del colore degli occhi di Will, e sempre Sophie aveva nascosto con la cipria le tracce delle lacrime e delle notti insonni. In quel momento si chiese se avrebbe dovuto rivelare a Jem la verità. Avrebbe significato sul serio fargli un favore e dire “Sì, anche Tessa lo ama; ha provato a non farlo, ma lo ama?” Poteva davvero un qualsiasi uomo volerlo sentir dire a proposito della ragazza che stava per sposare? — La signorina Gray ha grande stima per il signor Herondale, e non credo che spezzerebbe alla leggera il cuore a nessuno — disse Sophie. — Ma vorrei che non parlaste come se la vostra morte fosse inevitabile, signor Carstairs. Anche ora la signora Branwell e gli altri sperano di trovare una cura. Io credo che vivrete fino a tarda età, con la signorina Gray, e che sarete entrambi molto felici. Jem sorrise, come se sapesse qualcosa che lei ignorava. — È gentile da parte tua dirlo, Sophie. So che sono un Cacciatore, e che noi non lasciamo facilmente questa vita. Lottiamo fino all’ultimo. Veniamo dal regno degli angeli, eppure ne abbiamo paura. Credo però che si possa affrontare la fine e non avere paura, non sottomettersi alla morte. La morte non avrà mai la meglio su di me. Sophie lo guardò un po’ preoccupata; le sembrava che in parte delirasse. — Signor Carstairs? Devo andare a chiamare Charlotte? — Tra un momento, ma, Sophie… dalla tua espressione, prima, mentre parlavo… — Jem si sporse in avanti. — Allora è vero? — È vero cosa? — replicò lei, ma sapeva quale sarebbe stata la domanda, e non poteva mentire a Jem. Will era in uno stato d’animo pessimo. All’alba la giornata si era preannunciata nebbiosa e umida. Lui si era svegliato con il mal di stomaco, ed era riuscito a stento a mandare giù le uova e il bacon freddo che la moglie del padrone della locanda gli aveva servito nella sala soffocante; ogni parte del suo corpo fremeva dalla voglia di tornare sulla strada e continuare il viaggio.

Scrosci di pioggia lo avevano lasciato tremante nei vestiti, nonostante un generoso impiego di rune riscaldanti, e Balios era infastidito dal fango che gli risucchiava gli zoccoli mentre cercava di avanzare lungo la strada, con Will che meditava su come fosse possibile che la nebbia si condensasse per davvero sulla parte interna degli abiti. Ormai erano nel Northamptonshire, il che era già qualcosa, ma avevano percorso appena trenta chilometri e Will si rifiutava recisamente di fermarsi, sebbene Balios lo guardasse con aria implorante mentre attraversavano Towcester, come pregando per un posto caldo in una stalla e un po’ d’avena. Will era quasi propenso ad accontentarlo. Un senso di disperazione gli si era insinuato nelle ossa, freddo e inevitabile come la pioggia. Cosa poteva fare? Pensava davvero che in quel modo avrebbe trovato Tessa? Era uno sciocco? Stavano attraversando una regione ostile, dove il sentiero sassoso era reso insidioso dal fango. Un poderoso dirupo si levava su un lato della strada, nascondendo il cielo. Sull’altro lato, la strada dava su uno spettacolare burrone irto di rocce acuminate. L’acqua lontana di un torrente fangoso scintillava fievolmente in fondo al burrone. Will girò la testa di Balios in modo che non vedesse il precipizio, ma il cavallo sembrava comunque ombroso e timoroso di cadere. Anche Will teneva la testa abbassata, infilata nel colletto per evitare la pioggia gelida; fu solo per caso che, girando un momento lo sguardo, colse un balenio verde e dorato tra i sassi sull’orlo della strada. Fermò immediatamente Balios, smontò e si allontanò dal cavallo così in fretta che quasi scivolò nel fango. Pioveva più forte ormai, mentre si avvicinava e si inginocchiava per esaminare la catenella dorata che si era impigliata intorno a una roccia appuntita che affiorava dal terreno. Era un ciondolo di giada, circolare, con dei caratteri incisi sul retro. Sapeva perfettamente cosa significavano. Quando due persone sono unite nel profondo dei loro cuori, superano perfino la resistenza del ferro o del bronzo. Il dono di nozze di Jem. La mano di Will vi si strinse intorno, mentre il ragazzo ricordava quando aveva affrontato Tessa sulle scale… la catenella del ciondolo di giada intorno al suo collo gli aveva ammiccato, quasi a ricordargli brevemente Jem, quando lei aveva detto: “Dicono che non si possa dividere il proprio cuore, eppure…” — Tessa! — gridò Will all’improvviso, e la sua voce echeggiò al di sopra delle rocce. — Tessa! Rimase un istante così, rabbrividendo, al lato della strada. Non sapeva cosa dovesse aspettarsi… una risposta? Non poteva essere certo lì, tra le rade rocce. C’era solo silenzio, interrotto dal rumore del vento e della pioggia. Eppure Will sapeva, senza ombra di dubbio, che quella era la collana di Tessa. Forse se l’era strappata dal collo e l’aveva gettata dal finestrino della carrozza per indicargli il cammino, come la traccia di briciole di Hansel e Gretel. Era ciò che avrebbe fatto l’eroina di un libro di fiabe, e dunque ciò che avrebbe fatto Tessa. Forse ci sarebbero stati altri segnali, se avesse proseguito lungo quella strada. Per la prima volta, la speranza tornò ad affluirgli nelle vene. Will si avviò con nuova determinazione verso Balios e balzò in sella. Non avrebbe rallentato; sarebbero arrivati nello Staffordshire per sera. Mentre girava la testa del cavallo verso la strada, si infilò il ciondolo in tasca, dove le parole d’amore e di impegno reciproco che vi erano incise sembrarono ardere come un tizzone. Charlotte non si era mai sentita così esausta. Il nascituro l’aveva stancata molto, e aveva passato tutta la notte in bianco e tutto il giorno a correre di qua e di là. Si era macchiata il vestito nella cripta di

Henry e aveva le caviglie doloranti per aver salito e sceso più volte le scale, oltre a essersi arrampicata sugli scaffali della biblioteca. Ciononostante, quando aprì la porta della stanza di Jem e lo vide non solo sveglio, ma anche seduto e intento a chiacchierare con Sophie, dimenticò la propria stanchezza e sentì il viso aprirsi in uno spontaneo sorriso di sollievo. — James! — esclamò. — Mi ero chiesta… cioè, sono felice che ti sia svegliato. Sophie, stranamente rossa in viso, si alzò. — Devo andare, signora Branwell? — Oh, sì, per favore, Sophie. Bridget ha la luna storta; dice che non riesce a trovare la Bang Mary, e io non ho la più pallida idea di ciò a cui si riferisce. Sophie sorrise, quasi… l’avrebbe fatto, se non avesse avuto il cuore che le batteva all’impazzata per la paura di avere appena commesso qualcosa di davvero terribile. — La bain-marie — disse. — La pentola per il bagnomaria. Ora gliela trovo io. — Andò verso la porta, esitò un istante e lanciò un’occhiata molto strana a Jem, prima di uscire. Di nuovo appoggiato ai cuscini, pallido ma composto, con un sorriso stanco il ragazzo fece cenno a Charlotte di avvicinarsi. — Se non ti dà troppo disturbo… potresti portarmi il violino? — Certo. — La donna andò al tavolo accanto alla finestra, dove c’erano l’astuccio di palissandro, l’archetto e una scatoletta rotonda contenente colofonia. Sollevò lo strumento e lo portò verso il letto, dove Jem lo prese con cautela dalle sue braccia, quindi si lasciò cadere soddisfatta sulla poltrona lì accanto. — Oh… scusa. Ho dimenticato l’archetto. Volevi suonare? — Va bene così. — Jem pizzicò delicatamente le corde, producendo un suono sommesso e vibrante. — Questo è un pizzicato… la prima cosa che mio padre mi ha insegnato quando mi ha mostrato il violino. Mi ricorda quando ero bambino. “Sei ancora un bambino”avrebbe voluto dire Charlotte, ma non lo fece. In fondo, gli mancavano solo poche settimane per compiere diciotto anni, la maggiore età dei Cacciatori. Se, quando lo guardava, vedeva ancora il ragazzino dai capelli scuri arrivato da Shanghai stringendo il proprio violino, con i grandi occhi nel viso pallido, ciò non significava che non fosse cresciuto. Allungò la mano verso la scatola dello yin fen sul comodino. Ne era rimasta solo una pallida spolveratina sul fondo, un cucchiaino da tè. Mise la polvere in un bicchiere, quindi vi versò dell’acqua, lasciando che lo yin fen si sciogliesse come zucchero, e lo porse a Jem. Il ragazzo mise da parte il violino e prese il bicchiere. Ci guardò dentro, con espressione pensierosa. — È finito? — Magnus sta lavorando a una cura — disse Charlotte. — Tutti noi lo stiamo facendo. Gabriel e Cecily sono andati a comprare gli ingredienti per una medicina che ti tenga in forze; io, Sophie e Gideon stiamo facendo delle ricerche. Non lasciamo nulla di intentato. Nulla. Jem sembrò un po’ sorpreso. — Non me n’ero reso conto. — Non potremmo fare altrimenti. Siamo la tua famiglia; faremmo qualsiasi cosa per te — disse Charlotte. — Ti prego, non perdere la speranza. Ho bisogno che ti mantenga in forze. — La forza che ho è la vostra — dichiarò Jem, in modo enigmatico. Quindi ingurgitò la soluzione di yin fen, restituendo il bicchiere vuoto. — Charlotte? — Sì? — Hai già vinto la battaglia sul nome del bambino? La donna rise, sorpresa. Sembrava strano pensare al bambino, in quel momento, ma in fondo perché no? Pur morendo, viviamo. Era qualcosa a cui pensare, oltre alla malattia o alla scomparsa di Tessa, o alla pericolosa missione di Will. — Non ancora — rispose. — Henry insiste su Buford.

— Vincerai tu, come sempre. Sì, saresti un eccellente Console. Charlotte arricciò il naso. — Un Console donna? Dopo tutti i problemi che ho avuto a candidarmi per l’Istituto! — C’è sempre una prima volta. Non è facile essere i primi, e non sempre è gratificante, ma è importante. — Jem abbassò la testa. — Porti con te uno dei miei pochi rimpianti. Charlotte aggrottò la fronte, confusa. — Mi sarebbe piaciuto vedere il bambino. Quelle parole si piantarono nel cuore di Charlotte come schegge di vetro. Si mise a piangere, le lacrime le scivolavano lente sul viso. — Ti sei sempre presa cura di me. Ti prenderai magnificamente cura del bambino — aggiunse Jem, quasi per confortarla. — Sarai una madre meravigliosa. — Non puoi rinunciare — disse Charlotte, con voce soffocata. — Quando ti portarono da me, all’inizio dissero che saresti vissuto soltanto un anno o due. Ne sono passati quasi sei. Ti prego, vivi solo qualche altro giorno. Qualche altro giorno, per me. Jem le rivolse uno sguardo dolce e misurato. — Sono vissuto per te, e sono vissuto per Will. E poi sono vissuto per Tessa… e per me stesso, perché volevo stare con lei. Ma non posso vivere all’infinito per gli altri. Nessuno potrà dire che la morte avrà trovato in me un compagno bendisposto, o che me ne sarò andato facilmente. Se dici che hai bisogno di me, rimarrò finché potrò. Vivrò per te e per i tuoi, e continuerò a combattere la morte finché di me non rimarranno che ossa e schegge. Ma non sarà la mia scelta. — Allora… — Charlotte gli rivolse uno sguardo esitante. — Quale sarebbe la tua scelta? Jem deglutì, e la sua mano scese a toccare il violino. — Ho preso una decisione. L’ho presa quando ho detto a Will di andare. — Abbassò la testa, e poi alzò lo sguardo su Charlotte, gli occhi chiari e ombrati di blu fissi sul suo viso come se volesse assolutamente che capisse. — Voglio che smettiate. Sophie dice che sono ancora tutti alla ricerca di una cura per me. So che ho dato il mio permesso a Will, ma ora voglio che tutti smettano di cercare, Charlotte. È finita. Si stava facendo buio quando Cecily e Gabriel tornarono all’Istituto. Girare per la città con qualcuno che non fosse Charlotte o suo fratello era stata un’esperienza unica per Cecily, che era stupita di quale piacevole compagnia si fosse rivelato Gabriel Lightwood. L’aveva fatta ridere, sebbene lei si fosse sforzata di nasconderlo, ed era stato tanto cortese da portare tutti i pacchi, sebbene si fosse aspettata di sentirlo protestare nel vedersi trattare come un servitore tiranneggiato. Era vero che, probabilmente, non avrebbe dovuto scagliare il satiro contro la vetrina, e poi nel canale di Limehouse. Ma non poteva certo biasimarlo. Sapeva perfettamente che non era assolutamente perché Sallows le aveva mostrato delle immagini indecenti che aveva perso la bussola, ma perché aveva nominato il padre. Era molto diverso dal fratello, si disse mentre salivano i gradini dell’Istituto. Gideon le era piaciuto fin da quando era arrivata a Londra, ma lo trovava tranquillo e controllato. Non parlava molto e, sebbene a volte aiutasse Will negli addestramenti, era distante e pensieroso con tutti tranne che con Sophie. Quando era con lei, era possibile scorgere in lui sprazzi di umorismo. Quando voleva, sapeva essere divertente in maniera piuttosto caustica, e oltre a uno spirito calmo era dotato di una natura osservatrice. Attraverso informazioni sparse raccolte tra Tessa, Will e Charlotte, Cecily aveva ricomposto la

storia dei Lightwood e aveva cominciato a capire perché Gideon fosse così calmo. In un certo senso, come avevano fatto lei e Will, aveva voltato deliberatamente le spalle alla propria famiglia, e portava le cicatrici di quella perdita. La scelta di Gabriel era stata differente. Era rimasto a fianco del padre e aveva osservato il lento deterioramento del suo corpo e della sua mente. Cosa aveva pensato, mentre questo accadeva? A che punto si era reso conto di avere fatto la scelta sbagliata? Gabriel aprì la porta dell’Istituto, e Cecily la varcò; furono accolti dalla voce di Bridget che giungeva dalle scale. Oh, non vedi quella strada stretta, Così fitta di spine e rovi? Quello è il sentiero della virtù, Ma pochi ne chiedono notizie. E non vedi quella strada larga, Che passa attraverso la luce candida? Quello è il sentiero della malvagità, Ma alcuni lo chiamano strada per il Paradiso. — Sta cantando — disse Cecily, avviandosi su per la scala. — Come sempre. Gabriel, tenendo abilmente in equilibrio i pacchi, fece un verso sommesso. — Ho una fame da lupo. Chissà che non mi trovi del pollo freddo e del pane in cucina, se non le dico che le sue canzoni mi disturbano. — Le sue canzoni disturbano tutti. — Cecily lo guardò di traverso: aveva un profilo terribilmente bello. Anche Gideon era attraente, ma Gabriel era tutto angoli aguzzi, sia il mento sia gli zigomi, cosa che Cecily trovava nel complesso più elegante. — Non è colpa vostra, sapete — disse di punto in bianco. — Cosa, non è colpa mia? Lasciate le scale, svoltarono nel corridoio del secondo piano. A Cecily sembrò scuro, con le stregaluci abbassate. Sentiva Bridget che continuava a cantare: Era una notte buia, buia, senza la luce delle stelle, E loro avanzavano nel sangue vermiglio fino al ginocchio; Perché tutto il sangue che viene versato sulla terra Scorre attraverso le sorgenti di quel Paese. — Vostro padre — rispose la ragazza. Il viso di Gabriel si irrigidì. Per un momento Cecily pensò che le avrebbe replicato in tono irritato, invece si limitò a dire: — Può essere o meno colpa mia, ma ho scelto di non vedere i suoi crimini. Credevo in lui quando era sbagliato farlo, e lui ha disonorato il nome dei Lightwood. Cecily rimase in silenzio per qualche istante. Poi disse: — Sono venuta qui perché credevo che i Cacciatori fossero dei mostri che si erano presi mio fratello. Lo credevo perché lo credevano i miei genitori. Ma si sbagliavano. Noi non siamo i nostri genitori, Gabriel. Non dobbiamo portare il fardello delle loro scelte o dei loro peccati. Voi potete far risplendere di nuovo il nome dei

Lightwood. — Questa è la differenza tra voi e me — affermò il ragazzo, con non poca amarezza. — Voi avete scelto di venire qui. Io sono stato mandato via dalla mia casa… cacciato qui dal mostro che un tempo era mio padre. — Be’, non proprio fin qui — disse Cecily, in tono gentile. — Solo fino a Chiswick, pensavo. — Cosa…? Lei gli sorrise. — Sono la sorella di Will Herondale. Non potete aspettarvi che sia seria tutto il tempo. L’espressione di Gabriel era talmente buffa che Cecily ridacchiò; e stava ancora ridacchiando quando aprirono la porta della biblioteca ed entrarono… per arrestarsi entrambi di colpo. Charlotte, Henry e Gideon erano seduti intorno a uno dei lunghi tavoli. Magnus era poco lontano, alla finestra, con le mani strette dietro la schiena, rigida e dritta. Henry aveva un’aria smunta e stanca; sul viso di Charlotte c’erano tracce di lacrime. Il viso di Gideon era una maschera. Il riso morì sulle labbra di Cecily. — Che c’è? Si è saputo qualcosa? Will… — Non si tratta di Will, ma di Jem — disse Charlotte. Cecily si morse il labbro, mentre il cuore le rallentava, in preda a un sollievo colpevole. Aveva pensato subito al fratello ma, naturalmente, era il suo parabatai a correre un pericolo più immediato. — Jem…? — È ancora vivo — disse Henry, rispondendo alla sua domanda non detta. — Allora va bene. Abbiamo trovato tutto — intervenne Gabriel, posando i pacchi sul tavolo. — Tutto quello che Magnus aveva chiesto: la damiana, la radice testa di pipistrello… — Grazie. — Magnus parlò dalla finestra, senza girarsi. — Sì, grazie — gli fece eco Charlotte. — Avete fatto tutto ciò che avevo chiesto, e ve ne sono grata. Ma temo che la vostra commissione sia stata inutile. — Abbassò lo sguardo sui pacchi e lo alzò di nuovo. Era chiaro che parlare le costava un grande sforzo. — Jem ha preso una decisione: desidera che smettiamo di cercare una cura. Ha preso quanto rimaneva dello yin fen; non ce n’è più, e ormai è questione di ore. Ho convocato i Fratelli Silenti. È tempo di dirgli addio. La sala delle esercitazioni era buia. Le ombre si allungavano sul pavimento, e la luce della luna entrava dalle alte finestre ad arco. Cecily era seduta su una delle panche consumate e fissava i motivi creati dal chiarore lunare sul pavimento di legno scheggiato. La sua mano destra tormentava il ciondolo rosso che portava al collo. Non poteva fare a meno di pensare a Will. Una parte della sua mente era là all’Istituto, ma il resto era con il fratello: in sella al cavallo, curvo per ripararsi dal vento, cavalcava a spron battuto sulle strade che separavano Londra da Dolgellau. Si chiese se fosse spaventato. Si chiese se lo avrebbe rivisto. Era talmente immersa in quei pensieri che sussultò nel sentire lo scricchiolio della porta che si apriva. Una lunga ombra si proiettò sul pavimento. Gabriel Lightwood sbatté le palpebre, sorpreso. — Vi nascondete qui, eh? È alquanto… imbarazzante. — Perché? — Cecily era stupita di quanto suonasse normale e calma la propria voce. — Perché avevo intenzione di farlo anch’io. Cecily rimase zitta per un momento. Effettivamente, Gabriel sembrava un po’ esitante… era strano vederlo così; di solito sembrava sempre sicuro di sé. Anche se la sua era una sicurezza più fragile di

quella del fratello. Era troppo buio perché si potesse scorgerne il colore degli occhi o dei capelli e, per la prima volta, Cecily si rese davvero conto di quanto somigliasse a Gideon: avevano la stessa piega decisa del mento, gli stessi occhi molto distanziati e lo stesso atteggiamento cauto. — Potete nascondervi con me — disse la ragazza. — Se volete. Gabriel annuì, e attraversò la stanza verso il punto in cui era seduta Cecily ma, invece di mettersi accanto a lei, andò alla finestra e guardò fuori. — La carrozza dei Fratelli Silenti è qui. — Sì. — Cecily aveva letto il Codice, e sapeva che i Fratelli Silenti erano sia i dottori sia i sacerdoti del mondo dei Cacciatori; ci si poteva aspettare di trovarli a un parto, al capezzale di un malato, oppure a un letto di morte. — Pensavo di dover vedere Jem. Per Will. Ma non… non ce l’ho fatta. Sono una codarda. — Era una cosa che prima di allora non aveva mai pensato di sé. — Allora lo sono anch’io. — Il chiaro di luna illuminava un lato del viso di Gabriel, dando l’impressione che portasse una mezza maschera. — Ero venuto qui per stare da solo e, sinceramente, per stare lontano dai Fratelli Silenti, perché mi danno i brividi. Pensavo di poter fare un solitario. Se vi va, potremmo fare una partita a stracciacamicia. — Come Pip ed Estella in Grandi speranze — disse la ragazza, con un guizzo di divertimento. — Ma no… non so giocare a carte. Mia madre cercava di tenerle alla larga, perché mio padre… aveva un debole per quei piccoli pezzi di carta. — Cecily alzò lo sguardo su Gabriel. — Sapete, per certi versi siamo uguali. I nostri fratelli se ne sono andati e noi siamo rimasti soli, senza un fratello o una sorella, e con un padre che dava segni di squilibrio. Il mio è mezzo ammattito dopo che Will se n’è andato e mia sorella è morta. Ha impiegato anni per riprendersi, e nel frattempo abbiamo perso casa nostra. Proprio come voi avete perso Chiswick. — Chiswick ci è stata tolta — precisò Gabriel, con un lampo di amarezza venata di polemica. — E, per essere onesto, mi dispiace e non mi dispiace. I miei ricordi di quel posto… — Rabbrividì. — Mio padre si è chiuso nel suo studio due settimane prima che venissi a chiedere aiuto qui. Sarei dovuto venire prima, ma ero troppo orgoglioso. Non volevo ammettere di essermi sbagliato sul suo conto. Nel corso di quelle due settimane non ho quasi dormito. Bussavo alla porta dello studio e supplicavo mio padre di uscire, di parlarmi, ma sentivo soltanto suoni inumani. Di notte mi chiudevo a chiave nella mia stanza, e la mattina trovavo del sangue sulle scale. Mi dicevo che la servitù era fuggita, ma sapevo come stavano le cose. Perciò no, non siamo uguali, Cecily, perché voi ve ne siete andata. Siete stata coraggiosa. Io sono rimasto finché non ho avuto altra scelta che andarmene. Sono rimasto anche se sapevo che era sbagliato. — Siete un Lightwood. Siete rimasto per lealtà verso il nome della vostra famiglia. Non è stata codardia la vostra. — Davvero? La lealtà rimane una qualità lodevole anche quando è mal riposta? Cecily aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse. Gabriel la guardava, con gli occhi scintillanti nel chiarore lunare. Sembrava sinceramente ansioso di sentire la sua risposta. Cecily si chiese se avesse qualcun altro con cui parlare. Si rendeva conto di quanto potesse essere terribile confessare i propri dubbi morali a Gideon; lui sembrava così solido, quasi non si fosse mai messo in discussione in vita sua e non capisse chi lo faceva. — Credo che ogni buon impulso possa essere distorto in qualcosa di malvagio — disse, scegliendo con cura le parole. — Prendete il Magister. Fa quello che fa perché odia i Cacciatori, per lealtà verso i suoi genitori, che gli volevano bene e sono stati uccisi. Non è poi così incomprensibile. Eppure nulla giustifica il risultato. Penso

che quando facciamo delle scelte – perché ogni scelta è diversa da quelle che la precedono – dobbiamo esaminare non solo le ragioni che ci inducono a prenderle, ma anche le conseguenze che avranno, e se delle brave persone saranno danneggiate dalle nostre decisioni. Ci fu un attimo di silenzio. — Siete molto saggia, Cecily Herondale. — Non pentitevi troppo delle scelte che avete fatto in passato. Semplicemente, fate quelle giuste in futuro. Siamo sempre capaci di cambiare e di dare il meglio di noi stessi. — Ciò che sono ora non è ciò che mio padre avrebbe voluto che fossi. Nonostante tutto, sono restio ad abbandonare la speranza della sua approvazione. Cecily sospirò. — Possiamo fare del nostro meglio, Gabriel. Io ho provato a essere la bambina che i miei genitori volevano che fossi, la perfetta signorina che volevano che fossi. Me ne sono andata per riportare Will a casa, perché pensavo fosse la cosa giusta da fare. Sapevo che erano addolorati che avesse scelto una strada diversa… ma questa, nonostante ci sia arrivato in maniera strana, è la strada giusta per lui. È la sua strada. Non scegliete la strada che avrebbe scelto vostro padre o quella che sceglierebbe vostro fratello. Siate il Cacciatore che volete essere. — Come fate a sapere che farò la scelta giusta? Fuori della finestra, gli zoccoli dei cavalli risuonavano sulle lastre di pietra del cortile. I Fratelli Silenti se ne stavano andando. Jem, pensò Cecily, con una fitta al cuore. Will aveva sempre guardato a lui come a una sorta di stella polare, una bussola che gli avrebbe sempre indicato la decisione giusta. Cecily non aveva mai pensato a suo fratello come a una persona fortunata prima di allora, e certo non si sarebbe aspettata di farlo in quel momento, eppure… in un certo senso lo era stato. Avere sempre qualcuno a cui rivolgersi e non preoccuparsi costantemente di guardare le stelle sbagliate… Provò a rendere la sua voce più ferma e forte possibile, per se stessa e per il ragazzo alla finestra. — Forse perché ho fiducia in voi, Gabriel Lightwood.

14 PARABATAI

Pace, pace! Non è lui che è morto, che dorme, No, si è risvegliato dal sogno della vita; Siamo noi che, perduti in tempestose visioni, conduciamo Una vana lotta con gli spettri, E in una folle trance con il coltello dello spirito colpiamo Invulnerabili nulla. Noi ci decomponiamo Come cadaveri in un ossario; paura e dolore Ci sconvolgono e consumano giorno dopo giorno, E gelide speranze brulicano come vermi nella nostra viva creta. Percy Bysshe Shelley, Adonais: elegia per la morte di John Keats

Il cortile della Green Man Inn era un caos di fango calpestato, quando Will vi fermò il cavallo esausto e scivolò giù dalla sella. Era stanco, intorpidito e dolorante; a causa dello stato delle strade e della stanchezza sua e di Balios, le ultime ore di viaggio erano state un tormento. Era già quasi buio, e fu sollevato nel vedere un garzone di stalla corrergli incontro con una lanterna che emanava un caldo bagliore giallo. — Davvero una sera bagnata, signore — disse allegramente il garzone mentre si avvicinava. Sembrava normalissimo, ma aveva un che di malizioso, ricordava un folletto… Il sangue delle fate, a volte, si trasmetteva a distanza di generazioni, e poteva manifestarsi negli umani e perfino nei Cacciatori, nella curva di un occhio o nel vivido scintillio di una pupilla. Evidentemente, il ragazzo aveva la Vista. La Green Man Inn era una nota stazione di sosta di Nascosti. Will aveva sperato di raggiungerla entro il tramonto. Era stanco di fingere davanti ai mondani, stanco di doversi rendere invisibile, stanco di nascondersi. — Bagnata, davvero? — borbottò mentre l’acqua gli colava dai capelli e nelle ciglia. Aveva lo sguardo fisso sulla porta d’entrata della

locanda, dalla quale si riversava un’accogliente luce gialla. In alto, quasi tutta la luce era defluita dal cielo. Massicci nuvoloni neri incombevano, promettendo altra pioggia. Il garzone prese Balios per le redini. — Avete uno di quei cavalli magici! — esclamò. Will diede dei colpetti sul fianco coperto di schiuma di Balios. — Ha bisogno di una bella strigliata, e di cure speciali. Il ragazzo annuì. — Siete un Cacciatore? Non ne capitano molti da queste parti. Un po’ di tempo fa ne è passato uno, ma era vecchio e antipatico… — Ci sono stanze libere? — chiese Will. — Non so se ce ne siano di singole, signore. — Be’, io la voglio singola, perciò meglio che ci sia. E una stalla per il cavallo, un bagno e un pasto. Corri a sistemare il cavallo, e io vedrò cosa dice il tuo padrone. Il locandiere era di una cortesia squisita e, a differenza del garzone, non commentò i marchi sulle mani o sulla gola di Will, limitandosi a fare le solite domande: — Volete cenare in un salottino privato o nella sala comune, signore? E volete fare il bagno prima di cena o dopo? Will, che si sentiva incrostato di fango, optò per fare prima il bagno, ma acconsentì a cenare nella sala comune. Aveva portato con sé una discreta quantità di soldi mondani, ma un salottino privato per mangiare era una spesa inutile, soprattutto quando non ci si curava di cosa si mangiava. Il cibo era carburante per il viaggio, nient’altro. Se il padrone aveva prestato poca attenzione al fatto che Will fosse un Nephilim, lo stesso non poteva dirsi di altri che si trovavano nella zona comune. Mentre Will era appoggiato al bancone, un gruppo di giovani licantropi, che avevano trascorso quasi tutto il giorno a bere birra a buon mercato, cominciarono a parlare di lui. Will cercò di non farci caso, mentre ordinava un pastone di crusca per Balios, ma i loro occhi penetranti lo guardavano avidamente e assimilavano ogni dettaglio, dagli stivali infangati al pesante cappotto che non lasciava capire se sotto di esso Will indossasse le armi tipiche dei Nephilim. — Calma, ragazzi — disse il più alto del gruppo. Era seduto con la schiena rivolta al grande camino, il viso completamente in ombra, ma il fuoco tracciava i contorni delle sue lunghe dita mentre tirava fuori una bella scatola da sigari in maiolica e dava dei colpetti sulla chiusura. — Lo conosco. — Conosci quel Nephilim? È un tuo amico, Scott? — Oh, non un amico. Non esattamente. — Woolsey Scott accese il sigaro; un sorriso gli aleggiava sulle labbra. — Ma è molto interessante che sia qui. Davvero molto interessante. — Tessa! La voce, un grido rotto, le echeggiò nell’orecchio. Tessa si alzò di scatto, in riva al fiume, con il corpo che le tremava. — Will? La luna era scomparsa dietro una nuvola. Il cielo sembrava marmo grigio striato di venature nere; il fiume scorreva scuro nella luce fievole. Guardandosi intorno, Tessa vide solo alberi nodosi, il ripido precipizio da cui era caduta, un vasto campione di campagna che si estendeva nell’altra direzione… campi e recinti di pietra, una fattoria o un’abitazione sparse qua e là in lontananza. Non vedeva nulla che ricordasse una città piccola o grande, e neppure un gruppo di luci che potesse indicare un piccolo villaggio. — Will… — sussurrò ancora, stringendosi tra le braccia. Era sicura che la voce che aveva sentito fosse la sua. Nessun’altra voce era così. Ma Will non era lì, si disse. Non poteva esserci.

Forse, come Jane Eyre, che aveva sentito la voce di Rochester chiamarla nella brughiera, stava sognando. Almeno, era un sogno che l’aveva fatta rinvenire. Il vento era come un coltello di gelo che le penetrava nei vestiti – indossava solo un abito leggero, senza cappotto né cappello – e nelle ossa. Le gonne erano ancora bagnate dell’acqua del fiume, le calze e il vestito laceri e macchiati di sangue. L’angelo, a quanto pare, le aveva salvato la vita, ma non le aveva evitato le ferite. Toccò il ciondolo, sperando nella sua guida, ma era immobile e muto come sempre. Mentre allontanava la mano dal collo, però, Tessa sentì la voce di Will risuonargli nella mente: A volte, quando devo fare qualcosa di cui non ho voglia, fingo di essere il personaggio di un libro. È più facile sapere cosa farebbero loro. Il personaggio di un libro, si disse la ragazza, uno di quelli bravi e assennati, avrebbe seguito il torrente. Il personaggio di un libro avrebbe saputo che le fattorie e le città sono di solito costruite accanto all’acqua, e cercherebbe aiuto piuttosto che brancolare nei boschi. Tessa si strinse risolutamente tra le braccia e si mise a camminare faticosamente seguendo la corrente. Quando Will – lavato, rasato e con camicia e colletto puliti – tornò nella sala comune per la cena, il locale era pieno di gente. Be’, non proprio di gente. Mentre veniva accompagnato al suo posto, Will superò tavoli a cui erano seduti troll curvi su pinte di birra, che avrebbero ricordato dei vecchi grinzosi, se non fosse stato per le zanne che sporgevano dalle mascelle inferiori. Uno stregone magro con una zazzera di capelli castani e un terzo occhio in mezzo alla fronte stava tagliando una costoletta di vitello. Un gruppo si stringeva a un tavolo accanto al fuoco… licantropi, intuì Will dal comportamento da branco. La stanza puzzava di umidità, di braci e di cibo, e lo stomaco del ragazzo brontolò: non si era reso conto di quanto fosse affamato. Will studiava una carta del Galles bevendo il suo vino – aspro, sapeva d’aceto –, mangiando il cibo che gli era stato portato – un pezzo di dura carne di daino con patate – e facendo del suo meglio per provare a ignorare gli sguardi degli altri avventori. Immaginò che il garzone di stalla avesse avuto ragione; non capitavano molti Nephilim da quelle parti. Gli sembrava che i marchi scintillassero come tizzoni. Quando ebbe ripulito i piatti, tirò fuori dei fogli e scrisse una lettera. Charlotte, mi dispiace di avere lasciato l’Istituto senza permesso. Ti chiedo perdono; mi sembrava di non avere altra scelta. Ma non è questo il motivo della lettera. Lungo la strada ho trovato una prova del passaggio di Tessa. In qualche modo è riuscita a gettare la sua collana di giada dal finestrino della carrozza, perciò credo che grazie ad essa potremmo rintracciarla. Ora l’ho qui con me. È la prova inconfutabile che la nostra supposizione su dove si trovasse Mortmain era giusta. Dev’essere sul Cadair Idris. Devi scrivere al Console e chiedergli di mandare un nutrito gruppo di Cacciatori sulla montagna. Will Herondale Sigillata la lettera, Will chiamò il locandiere e gli disse di farla portare alla diligenza notturna;

poi, pagata mezza corona per il servizio, tornò a sedersi. Stava considerando se mandare giù controvoglia un altro bicchiere di vino per essere sicuro di dormire, quando un dolore acuto, lancinante, gli trafisse il petto. Fu come essere stato colpito da una freccia. Will balzò all’indietro, facendo cadere in frantumi sul pavimento il bicchiere. Si alzò barcollando e appoggiò le mani sul tavolo. Era vagamente consapevole delle occhiate e della voce ansiosa del locandiere, ma il dolore era troppo grande per pensare, quasi troppo grande per respirare. La tensione al petto, quella che aveva immaginato come l’estremità di una corda che lo legava a Jem, era aumentata al punto da soffocargli il cuore. Si allontanò dal tavolo vacillando, facendosi strada attraverso un crocchio di avventori davanti al bancone, e si diresse verso la porta d’ingresso della locanda. Non riusciva a pensare ad altro che all’aria, a far entrare l’aria nei polmoni per respirare. Aprì la porta, e quasi ruzzolò nella notte. Cadeva una pioggia battente che gli inzuppò i capelli e i vestiti. Per un momento il dolore al petto si attenuò, e Will si appoggiò pesantemente al muro della locanda. Rimase senza fiato, con il cuore che gli batteva a singhiozzo in una mescolanza di terrore e disperazione. Era solo la distanza che lo separava da Jem a sconvolgerlo? Non aveva mai provato nulla di simile, neanche quando Jem se l’era vista davvero brutta, neanche quando era stato ferito e Will aveva sofferto per solidarietà con lui. La corda si spezzò. Per un istante, Will vide un lampo candido: il cortile sbiancò completamente. Si piegò sulle ginocchia, vomitando la cena. Quando i conati furono cessati, si alzò vacillando e si allontanò alla cieca dalla locanda, quasi provando a lasciarsi il dolore alle spalle. Vomitò di nuovo, contro il muro della stalla, accanto all’abbeveratoio dei cavalli. Si lasciò cadere sulle ginocchia per immergere le mani nell’acqua gelata… e vide il proprio riflesso. C’era la sua faccia, bianca come la morte, e la sua camicia, e una macchia rossa che si allargava sul davanti. Con le mani bagnate afferrò i lembi della camicia e la aprì strappandola. Nella luce fioca che si riversava dalla locanda, vide che la runa parabatai, subito sopra il cuore, stava sanguinando. Aveva le mani coperte di sangue misto a pioggia, la stessa pioggia che lavava il sangue dal petto, rivelando la runa mentre cominciava a scolorirsi da nera ad argentea, trasformando tutto ciò che aveva senso nella sua vita in nonsenso. Jem era morto. Tessa camminava da ore; le sue scarpe leggere erano state lacerate dai sassi aguzzi lungo il letto del fiume. Aveva cominciato quasi correndo, ma la stanchezza e il freddo l’avevano sopraffatta, e ormai zoppicava piano, anche se con determinazione, seguendo la corrente. La stoffa zuppa delle gonne la trascinava verso il basso, dandole la sensazione che un’ancora la tirasse verso il fondo di un mare spaventoso. Non aveva visto traccia di abitazioni per chilometri, e stava cominciando a disperare del proprio piano, quando scorse una radura. Aveva iniziato a piovigginare, ma anche attraverso la pioggerella Tessa vide il contorno di una bassa costruzione in pietra. Mentre si avvicinava, le parve che si trattasse di una casetta con il tetto di paglia e un sentiero coperto di vegetazione che conduceva alla porta d’ingresso. Accelerò l’andatura, pensando a un fattore bonario e a sua moglie, di quelli che nei libri

avrebbero accolto una giovane fanciulla e l’avrebbero aiutata a contattare la sua famiglia, come avevano fatto i River in Jane Eyre. Mentre si avvicinava, però, notò le finestre sporche e rotte e l’erba che cresceva sul tetto di paglia. Ebbe un tuffo al cuore. La casa era abbandonata. La porta era socchiusa, con il legno gonfiato dall’umidità e dalla pioggia. C’era qualcosa di spaventoso nel vuoto della casa, ma Tessa aveva un disperato bisogno di riparo sia dalla pioggia, sia dagli inseguitori che Mortmain poteva aver mandato sulle sue tracce. Si aggrappava alla speranza che la signora Black la credesse morta in seguito alla caduta, ma dubitava che Mortmain avrebbe rinunciato tanto facilmente a cercarla. Dopotutto, se c’era qualcuno che sapeva di cosa era capace l’angelo meccanico, quello era lui. Tra le lastre di pietra del pavimento cresceva l’erba, il focolare era sporco, con una pentola annerita ancora appesa sopra i resti di un fuoco, le pareti scurite dalla fuliggine e dal tempo. Accanto alla porta c’era un’accozzaglia di attrezzi agricoli: uno assomigliava a un lungo bastone di metallo dall’estremità curva biforcuta, con i rebbi ancora acuminati. Consapevole che avrebbe avuto bisogno di un strumento di difesa, Tessa lo raccolse, quindi passò dalla stanza d’entrata all’unica altra stanza della casa: una piccola camera sul cui letto fu felice di trovare una coperta ammuffita. Abbassò lo sguardo affranto sul vestito bagnato. Ci sarebbe voluta un’eternità per toglierlo senza l’aiuto di Sophie, e aveva un disperato bisogno di scaldarsi. Si avvolse nella coperta, vestiti bagnati e tutto, e si raggomitolò sul materasso imbottito di paglia, che pizzicava. Puzzava di muffa, e probabilmente era un nido di topi, ma in quel momento le sembrò il letto più lussuoso su cui si fosse mai stesa. Tessa sapeva che sarebbe stato più saggio rimanere sveglia. Ma non era più in grado di resistere alle richieste del corpo malridotto ed esausto. Stringendo l’arma di metallo al petto, scivolò nel sonno. — Così sarebbe questo, il Nephilim? Will non sapeva da quanto tempo fosse accasciato contro il muro della stalla, sempre più zuppo di pioggia, quando la voce rabbiosa emerse dall’oscurità. Sollevò la testa, troppo tardi per schivare la mano che si allungava verso di lui. Un momento più tardi venne afferrato per il colletto della camicia e tirato su. Guardò attraverso gli occhi offuscati dalla pioggia e dal dolore un gruppo di licantropi disposti a semicerchio intorno a lui. Erano in cinque, incluso quello che lo aveva sbatacchiato contro il muro della stalla, tutti vestiti allo stesso modo, con abiti neri talmente bagnati di pioggia da scintillare come tela impermeabile. Erano tutti senza cappello, con i capelli – portati lunghi, com’era tipico dei licantropi – incollati alla testa. — Toglimi le mani di dosso — disse Will. — Gli Accordi vietano di toccare un Nephilim se non si è provocati… — Se non si è provocati? — Il licantropo gli diede una spinta e lo scaraventò di nuovo contro il muro. In circostanze normali probabilmente gli avrebbe fatto male, ma quelle non erano circostanze normali. Il dolore fisico della runa parabatai era svanito, ma tutto il corpo di Will si sentiva prosciugato e vuoto, sembrava che tutto il senso fosse stato risucchiato dal suo centro. — Io direi che una provocazione c’è stata. Se non fosse stato per voi Nephilim, il Magister non

sarebbe mai venuto a cercarci con la sua sporca droga e le sue sudicie bugie… Will guardò i licantropi con un’emozione che rasentava l’ilarità. Pensavano davvero di potergli fare del male, dopo quanto aveva perduto? Per cinque anni era stata la sua verità assoluta. Jem e Will. Will e Jem. Will Herondale è vivo, perciò lo è anche Jem Carstairs. Quod erat demonstrandum. Perdere un braccio o una gamba sarebbe stato doloroso, immaginò, ma perdere la verità centrale della propria vita sembrava… fatale. — Sporca droga e sudicie bugie — disse Will, con voce strascicata. — Sembra davvero antigienico. Di’ un po’, è vero che invece di lavarvi vi leccate a vicenda? Perché l’ho sentito dire. La mano sulla camicia si serrò. — Devi essere un po’ più rispettoso, Cacciatore. — No. No, non credo proprio. — Sappiamo tutto di te, Will Herondale — disse un altro licantropo. — Sempre a strisciare dai Nascosti in cerca d’aiuto. Ci piacerebbe vederti strisciare adesso. — Allora dovrete tagliarmi le gambe. — Si può fare. Will scattò in azione. Diede una testata sul viso del licantropo di fronte a lui. Udì e percepì lo scricchiolio del naso che si rompeva mentre il sangue caldo zampillava sul viso del ferito, che arretrò barcollando per il cortile e si accovacciò in ginocchio sui ciottoli; aveva le mani premute contro il viso, nel tentativo di arrestare il flusso del sangue. Una mano agguantò la spalla di Will, gli artigli lacerarono la stoffa della camicia bagnata. Quando il Nephilim roteò su se stesso per affrontare i lupi, nella mano del secondo assalitore, argentea nella luce lunare, scorse il chiaro bagliore di un coltello. Gli occhi del licantropo scintillarono nella pioggia, minacciosi. Non sono usciti qui fuori per schernirmi o per ferirmi, si rese conto Will. Sono qui per uccidermi. Per un momento fu tentato di lasciarli fare. Quel pensiero sembrava procurargli un enorme sollievo… tutto il dolore sparito, tutta la responsabilità sparita, un semplice tuffo nella morte e nell’oblio. Rimase immobile mentre il coltello calava su di lui. Tutto sembrava accadere molto lentamente: il filo d’acciaio della lama che scendeva, la faccia ghignante del licantropo resa indistinta dalla pioggia. Poi gli balenò davanti agli occhi l’immagine che aveva sognato la notte prima: Tessa che correva su per un sentiero verde, verso di lui. Tessa. Will afferrò il polso del licantropo mentre schivava il colpo, quindi ruotò il braccio con forza, rompendo l’osso. Il licantropo gridò, mentre il Nephilim veniva percorso da un macabro accesso di allegria. Il pugnale cadde sui ciottoli, e Will fece perdere l’equilibrio all’avversario con un calcio, poi con una gomitata lo colpì alla tempia. Il licantropo crollò di peso e non si mosse più. Will raccolse al volo il pugnale e si girò ad affrontare gli altri. Ne erano rimasti in piedi solo tre, e sembravano decisamente meno sicuri di sé di quanto fossero stati all’inizio. Sorrise, un sorriso gelido e terribile, e si sentì in bocca il sapore della pioggia e del sangue. — Avanti, venite a uccidermi, se pensate di esserne capaci. — Sferrò un calcio al licantropo svenuto ai suoi piedi. — Dovrete fare meglio dei vostri amici. I tre si scagliarono contro di lui, con gli artigli sfoderati, e Will cadde pesantemente sui ciottoli, sbattendo la testa contro la pietra. Una mano artigliata gli graffiò la spalla; lui rotolò di lato sotto una raffica di colpi e spinse il pugnale verso l’alto. Si levò un acuto grido di dolore che finì con un

lamento, e il peso sopra Will, che poco prima si muoveva e lottava, si afflosciò. Il Nephilim rotolò da una parte e balzò in piedi, girando su se stesso. Il licantropo che aveva accoltellato giaceva morto, con gli occhi aperti in una pozza di sangue e acqua piovana che si andava allargando. Gli ultimi due licantropi si stavano rimettendo faticosamente in piedi, ricoperti di fango. Will sanguinava dalla spalla, nel punto in cui uno di loro vi aveva scavato profondi solchi con gli artigli; quel dolore gli sembrava stupendo. Rise attraverso il sangue e il fango, mentre la pioggia ripuliva la lama del pugnale. — Ancora — disse, e riconobbe a malapena la propria voce, tesa, incrinata e implacabile. — Ancora! Uno dei licantropi fece dietrofront e scappò. Will rise di nuovo e si mosse verso l’ultimo, che stava immobile, con le mani artigliate protese, se per coraggio o terrore non si capiva, né a Will importava. Il pugnale gli sembrava un prolungamento del polso, una parte del braccio. Un bel colpo e uno strattone verso l’alto, e sarebbe penetrato attraverso l’osso e la cartilagine, conficcandosi nel cuore… — Basta! — La voce era dura, autoritaria, familiare. A camminare a grandi passi per il cortile, con le spalle piegate per ripararsi dalla pioggia, l’espressione furiosa, era Woolsey Scott. — Ordino a tutti e due di smetterla all’istante! Il licantropo abbassò immediatamente le mani sui fianchi, facendo sparire gli artigli. Piegò la testa nel classico gesto di sottomissione. — Signore… Un’ondata ribollente di rabbia si riversò su Will, cancellando razionalità, buonsenso… tutto tranne la rabbia. Allungò la mano, attirò il licantropo verso di sé e gli mise un braccio intorno al collo, la lama contro la gola. — Ancora un passo, e taglio la gola al tuo lupacchiotto. Woolsey si fermò di colpo, con gli occhi verdi che lanciavano sguardi furibondi. — Ho detto di smetterla — disse, in tono misurato. Indossava come sempre un abito di ottimo taglio, con sopra un cappotto da equitazione in broccato, entrambi completamente fradici. I capelli biondi, incollati al viso e al collo, erano resi incolori dall’acqua. — Ma io non devo obbedirti! — gridò Will. — Stavo vincendo! Vincendo! — Girò lo sguardo per il cortile, ai corpi sparsi dei tre licantropi con cui aveva lottato: due svenuti, uno morto. — Il tuo branco mi ha attaccato, senza essere stato provocato. Ha rotto gli Accordi. Io mi stavo difendendo. Hanno infranto la Legge! — La sua voce salì, aspra e irriconoscibile. — Il loro sangue mi spetta, e lo avrò! — Sì, sì, secchi di sangue — disse Woolsey. — E cosa ne faresti, se lo avessi? Non ti importa niente di questo licantropo. Lascialo andare. — No. — Almeno liberalo, in modo che possa affrontarti. Will esitò, poi allentò la presa sul licantropo, che si rivolse con aria terrorizzata al capobranco. Woolsey schioccò le dita. — Corri, Conrad, svelto! Il licantropo non se lo fece dire due volte; girò sui tacchi e schizzò via, sparendo dietro la stalla. — Dunque il tuo è un branco di codardi — disse Will. — In cinque contro un Cacciatore? È così che stanno le cose? — Non li ho mandati io qui fuori a cercarti. Sono giovani, impetuosi e stupidi. E metà del loro branco è stato ucciso da Mortmain. Ne danno la colpa alla tua razza. — Woolsey si avvicinò un po’ a Will, scrutandolo con occhi, freddi come ghiaccio verde. — Suppongo che il tuo parabatai sia morto

— aggiunse con spaventosa noncuranza. Will non era pronto a sentire parole del genere, non lo sarebbe mai stato. Lo scontro gli aveva liberato per un po’ la testa dal dolore, che in quel momento minacciava di tornare, totalizzante e terribile. Rimase senza fiato, come se Woolsey gli avesse dato un pugno, e fece involontariamente un passo indietro. — Ed è per questo che stai cercando di farti ammazzare, giovane Nephilim? È questo che sta succedendo? Will si tolse i capelli bagnati dal viso e guardò Woolsey con odio. — Può darsi. — È così che rispetti la sua memoria? — Che importa? È morto. Non saprà mai cosa faccio o non faccio. — Mio fratello è morto, e io cerco ancora di esaudire i suoi desideri, di continuare il Praetor Lupus nella sua memoria e di vivere come avrebbe voluto che vivessi — disse Woolsey. — Pensi che io sia il tipo di persona che potresti mai trovare in un posto come questo, a mangiare un intruglio da maiali e a bere aceto, immerso nel fango fino alle ginocchia, a guardare un noioso marmocchio dei Cacciatori assottigliare ancora di più il mio branco già esiguo, se non fosse che sono al servizio di un fine più grande dei miei desideri e dei miei dolori? E quello che stai facendo tu, Nephilim. — Oh, Dio… — Le dita si aprirono, lasciando cadere il pugnale nel fango. — E ora cosa faccio? — sussurrò Will. Non aveva idea del perché lo stesse chiedendo a Woolsey, se non perché non c’era nessun altro al mondo a cui chiederlo. Neppure quando pensava di essere sotto l’effetto della maledizione si era sentito così solo. Woolsey lo guardò freddamente. — Fa’ quello che tuo fratello avrebbe voluto che facessi — disse, quindi si girò e tornò a grandi passi verso la locanda.

15 STELLE, NASCONDETE I VOSTRI FUOCHI

Stelle, nascondete i vostri fuochi; Che la luce non veda i miei oscuri e profondi desideri. Shakespeare, Macbeth Console Wayland, mi rivolgo a voi per una questione della massima gravità. Mentre scrivo, uno dei Cacciatori del mio Istituto, William Herondale, è in viaggio verso il Cadair Idris. Lungo il tragitto ha scoperto un segno inequivocabile del passaggio della signorina Gray. Vi accludo la sua lettera perché la esaminiate, ma ammetterete senza dubbio che ormai il nascondiglio di Mortmain è stato scoperto e occorre riunire in fretta quante più unità possiamo e marciare immediatamente sul Cadair Idris. In passato Mortmain ha dimostrato una notevole abilità a sgusciare via dalle trappole che gli tendiamo. Dobbiamo battere il ferro finché è caldo e colpire con tutta la celerità e la forza possibili. Rimango in attesa di una vostra rapida risposta. Charlotte Branwell La stanza era fredda. Il fuoco si era consumato da tempo nel focolare, e fuori il vento ululava intorno agli angoli dell’Istituto sbatacchiando i vetri delle finestre. La lampada sul comodino era stata abbassata e, nonostante lo scialle avvolto strettamente attorno alle spalle, Tessa rabbrividì nella poltrona accanto al letto. Nel letto Jem dormiva, con la testa appoggiata alla mano. Respirava appena da muovere lievemente le coperte, ma il suo viso era bianco come i cuscini. Tessa si alzò, lasciando scivolare giù lo scialle. Era in camicia da notte, come la prima volta che aveva incontrato Jem, quando aveva fatto irruzione nella sua stanza e lo aveva trovato che suonava il violino accanto alla finestra. Will? Aveva detto. Will, sei tu? Jem si mosse e mormorò qualcosa, mentre lei si infilava a letto con lui e tirava le coperte sopra tutti e due. Gli prese le mani nelle sue. Intrecciò i piedi con quelli di lui e gli baciò la guancia fredda, riscaldandogli la pelle con il calore del suo fiato. Piano piano lo sentì muoversi contro di lei, quasi che la sua presenza lo stesse riportando in vita. Gli occhi di Jem si aprirono e si fissarono nei suoi. Erano azzurri, di un azzurro dolente, l’azzurro del cielo dove questo incontra il mare. — Tessa? — disse Will. E lei si rese conto che tra le sue braccia c’era Will, Will che stava morendo, Will che esalava

l’ultimo respiro… e c’era sangue sulla sua camicia, proprio sopra il cuore, una macchia rossa che si allargava… Tessa si mise a sedere di scatto, senza fiato. Per un istante si guardò intorno, disorientata. La piccola stanza scura, la coperta ammuffita in cui era avvolta, i vestiti umidi e il corpo contuso… le sembrò di non riconoscerli. Poi la memoria affluì nuovamente, e con essa un’ondata di nausea. L’Istituto le mancava in maniera straziante, come non le era mai mancata neppure la casa di New York. Le mancava la voce autoritaria ma premurosa di Charlotte, il tocco comprensivo di Sophie, il trafficare di Henry e, naturalmente, le mancavano Jem e Will. Era terrorizzata per Jem, per la sua salute, ma era spaventata anche per Will. La battaglia nel cortile era stata sanguinosa, feroce. Ognuno dei due poteva essere stato ferito o ucciso. Era quello il significato del sogno, in cui Jem si trasformava in Will? Jem era malato, Will in pericolo di vita? Tessa pregò in silenzio che non lo fosse nessuno dei due. Ti supplico, fammi morire prima che sia fatto del male all’uno o all’altro. Un rumore la strappò alle sue fantasticherie… un improvviso raschiare secco, che le procurò un violento brivido lungo la schiena. Impietrì. Era sicuramente un ramo che grattava contro la finestra. Ma, no… eccolo di nuovo. Il rumore di qualcosa che raschiava, che si trascinava. Tessa si alzò di colpo, ancora avvolta nella coperta. Il terrore era una cosa viva dentro di lei. Tutte le storie che aveva sentito sui mostri dei boschi oscuri sembravano contendersi lo spazio all’interno della sua mente. Chiuse gli occhi, facendo un profondo sospiro, e vide gli automi sottili sui gradini d’ingresso dell’Istituto, le ombre lunghe e grottesche, come esseri umani deformi. Si avvolse più strettamente nella coperta, con le dita che si serravano spasmodicamente sulla stoffa. Gli automi erano arrivati fin sui gradini dell’Istituto per catturare lei. Ma non erano molto intelligenti… erano capaci di seguire comandi elementari, di riconoscere particolari esseri umani. Tuttavia non sapevano pensare autonomamente. Erano macchine, e le macchine potevano essere ingannate. La coperta era patchwork, del tipo che avrebbe potuto cucire una donna, una donna che aveva vissuto in quella casa. Tessa inspirò e strinse ancora più forte la coperta, alla ricerca di un indizio, della traccia di chiunque l’avesse creata e posseduta. Era come affondare la mano nell’acqua scura e tastare in cerca di un oggetto. Dopo quella che le parve un’eternità, lo trovò… un guizzo nell’oscurità, la solidità di un’anima. Si concentrò su quella, avvolgendovisi come nella coperta a cui si stava aggrappando. Vide le proprie dita piegarsi e cambiare, diventare le mani artritiche, nodose di una vecchia. Macchie le spuntarono sulla pelle, la schiena si curvò e il vestito cominciò a penzolare dal corpo vizzo. Quando i capelli le caddero davanti agli occhi, erano bianchi. Sentì di nuovo raschiare. Una voce echeggiò in fondo alla sua mente, una querula voce di donna che chiedeva chi fosse in casa sua. Tessa andò barcollando verso la porta, con il fiato corto, il cuore che le martellava nel petto, e passò nella stanza principale della casa. Per un attimo non vide nulla. Aveva gli occhi cisposi, offuscati; le forme apparivano indistinte e lontane. Poi qualcosa si alzò accanto al focolare, e Tessa represse un urlo. Era un automa, costruito in modo da sembrare quasi umano. Aveva un corpo robusto in un vestito grigio scuro, ma le braccia che sporgevano dai polsini erano secche come bastoni e terminavano con mani a spatola, la testa che spuntava dal colletto era liscia e a forma d’uovo. Vi erano incastrati due occhi sporgenti, ma per il resto l’automa non aveva lineamenti.

— Chi sei? — chiese Tessa con la voce della vecchia, brandendo l’oggetto metallico di cui si era armata. — E cosa fai nella mia casa? L’automa, chiaramente confuso, emise un suono metallico, una specie di ronzio. Un attimo dopo, la porta d’ingresso si aprì e la signora Black entrò tutta impettita. Era avvolta nel mantello scuro, il viso bianco risplendeva sotto il cappuccio. — Che succede qui? — chiese. — Hai trovato…? — Si interruppe, fissando l’altra donna. — Che succede? — domandò Tessa, e la voce le uscì nell’acuto piagnucolio della vecchia. — Sono io che dovrei chiederlo a voi… fare irruzione in casa di gente assolutamente perbene… — Sbatté gli occhi, come per mostrare che non ci vedeva molto bene. — Uscite di qui, e portate con voi il vostro amico… — Agitò l’oggetto che teneva in mano: Un curasnette, disse la voce della vecchia nella sua mente; si usa per pulire gli zoccoli dei cavalli, stupida ragazza. — Qui non troverete nulla che valga la pena di rubare. — Per un momento pensò che avesse funzionato. La signora Black fece un passo avanti. — Non hai mica visto una ragazza nei paraggi? — chiese. — Molto ben vestita, capelli castani, occhi grigi. Avrebbe dovuto avere l’aria smarrita. I suoi la stanno cercando e offrono una bella ricompensa. — Una storia convincente, quella della ragazza smarrita. — Tessa cercava di sembrare più arcigna che poteva; non era difficile. Aveva la sensazione che la vecchia di cui aveva la faccia fosse stata arcigna di natura. — Uscite, ho detto! L’automa emise un ronzio. Le labbra della signora Black si serrarono all’improvviso, come se stessero reprimendo una risata. — Posso dire che indossi una collana davvero bella, vecchia? La mano di Tessa scattò verso il petto, ma ormai era troppo tardi. L’angelo meccanico era là, in piena vista, e ticchettava delicatamente. — Prendila — disse la signora Black, con voce annoiata, e l’automa avanzò barcollando, protendendo le braccia verso la ragazza. Tessa lasciò cadere la coperta e indietreggiò brandendo il curasnette. Riuscì a fare un lungo taglio sulla fronte dell’automa, che cercò di afferrarla e le storse il braccio. Il curasnette cadde rumorosamente a terra, e Tessa gridò di dolore proprio mentre la porta d’ingresso si spalancava e una marea di automi riempiva la stanza, con le braccia protese verso di lei, le mani meccaniche che si chiudevano sulla sua carne. Sapendo di essere soverchiata, e sapendo altresì che non sarebbe servito a niente, Tessa si concesse finalmente di gridare. Will fu svegliato dal sole sul viso. Sbatté le palpebre e aprì lentamente gli occhi. Cielo azzurro. Si girò e si mise rigidamente a sedere. Era sul pendio di una collina verde, poco lontano dalla strada Shrewsbury-Welshpool. Tutt’intorno non vedeva nulla, a parte qualche fattoria sparsa in lontananza; nella sua frenetica cavalcata di mezzanotte, dalla Green Man Inn aveva attraversato solo qualche piccolo borgo, prima di scivolare letteralmente giù dalla groppa di Balios per la stanchezza e piombare violentemente a terra. Mezzo camminando e mezzo strisciando, aveva lasciato che il cavallo lo spingesse lentamente lontano dalla strada, in un lieve avvallamento del terreno dove si era rannicchiato e addormentato, incurante della gelida pioggerella che stava ancora cadendo. Nel frattempo era sorto il sole, che gli aveva asciugato i vestiti e i capelli, ma Will era ancora molto sporco, la camicia ridotta a un ammasso di fango e sangue incrostati. Si alzò, con tutto il corpo dolorante. La notte precedente non si era preoccupato di applicarsi nessuna runa guaritrice. Era

entrato nella locanda – lasciandosi dietro una traccia di pioggia e fango – soltanto per recuperare le sue cose, prima di tornare nella stalla per prendere Balios e lanciarsi nella notte. Le ferite che aveva riportato nello scontro con i licantropi gli facevano ancora male, come i lividi che si era fatto cadendo da cavallo. Zoppicò tutto intorpidito verso il punto in cui Balios stava brucando l’erba, all’ombra di una quercia. Frugando nelle bisacce trovò uno stilo e una manciata di frutta secca. Usò il primo per tracciarsi sulla pelle delle rune antidolorifiche e guaritrici, mangiando contemporaneamente bocconi della seconda. Gli eventi della notte precedente sembravano lontani mille chilometri. Ricordò lo scontro con il branco di Woolsey, le ossa frantumate e il sapore del proprio sangue, il fango e la pioggia. Ricordò il dolore della separazione da Jem, sebbene non lo sentisse più. Invece del dolore, sentiva un vuoto, come se una grande mano fosse calata dall’alto e gli avesse strappato da dentro tutto ciò che lo rendeva umano, riducendolo a un semplice guscio. Quando ebbe finito la colazione, ripose nuovamente lo stilo nella bisaccia, si tolse la camicia rovinata e ne indossò una pulita. Nel farlo, non poté evitare di guardare la runa parabatai sul petto. Non era nera, ma bianco-argentea, come una cicatrice sbiadita da tempo. Will sentì nella mente la voce di Jem, ferma, seria e familiare: — E avvenne… che l’anima di Gionata era legata all’anima di Davide, e Gionata lo amava come se stesso… Quindi Gionata strinse un patto con Davide, perché lo amava come se stesso. — Erano due guerrieri, le cui anime erano state unite dal Cielo, e fu da loro che i Cacciatori presero l’idea dei parabatai e codificarono la cerimonia nella Legge. Per anni, quel marchio e la presenza di Jem erano state le uniche cose nella vita di Will che gli avevano assicurato di essere amato da qualcuno. Le uniche cose che gli avevano permesso di sapere che lui era reale ed esisteva. Passò le dita sui bordi della runa parabatai sbiadita. Aveva pensato che l’avrebbe odiata, che avrebbe odiato la sua vista alla luce del sole, ma con sua sorpresa scoprì che non era così. Era felice che la runa non fosse semplicemente sparita dalla pelle. Un marchio che parlava di una perdita era pur sempre un marchio, un ricordo. Non si poteva perdere qualcosa che non si era mai avuto. Will estrasse dalla bisaccia il coltello che Jem gli aveva dato: una stretta lama dall’elaborato manico d’argento. All’ombra della quercia, si tagliò il palmo della mano e stette a guardare il sangue che colava al suolo, impregnando il terreno. Poi si inginocchiò e immerse la lama nella terra zuppa di sangue. Rimase così in ginocchio, esitando. — James Carstairs — disse. Era sempre così, quando più aveva bisogno di parole, non le trovava. Gli vennero in mente quelle del giuramento dei parabatai: Non insistere perché ti abbandoni e rinunci a seguirti, perché dove andrai tu andrò anch’io, e dove ti fermerai mi fermerò. Il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolto: l’Angelo faccia a me questo e anche di peggio se altra cosa che la morte mi separerà da te. Ma no. Quello era ciò che si diceva quando si veniva uniti, non quando si veniva staccati l’uno dall’altro. Davide e Gionata erano stati separati, anche loro, dalla morte. Separati, ma non divisi. — Te l’avevo detto, Jem, che non mi avresti lasciato — disse Will, con la mano insanguinata sul manico del pugnale. — E sei ancora con me. Quando respirerò, penserò a te, perché senza di te sarei morto da anni. Quando mi sveglierò e quando dormirò, quando alzerò le mani per difendermi o quando mi stenderò per morire, tu sarai con me. Tu dici che rinasciamo all’infinito. Io dico che c’è un

fiume che divide i morti dai vivi. Quello che so è che, se nasceremo di nuovo, ti incontrerò in un’altra vita, e se c’è un fiume, aspetterai sulle sue rive che io ti raggiunga, in modo che possiamo attraversarlo insieme. — Will fece un profondo respiro e lasciò andare il pugnale. Ritrasse la mano. Il taglio sul palmo si stava già rimarginando, conseguenza della mezza dozzina di iratze sulla sua pelle. — Hai sentito, James Carstairs? Siamo legati, io e te, sullo spartiacque della morte, per tutte le generazioni a venire. Per sempre. Si rimise in piedi e abbassò lo sguardo sul coltello. Il coltello era di Jem, il sangue era suo. Quel pezzo di terra, se mai lo avesse ritrovato, se mai fosse vissuto tanto da provarci, sarebbe stato loro. Si girò per tornare verso Balios, verso il Galles e Tessa. Non si guardò indietro. A Charlotte Branwell Dal Console Josiah Wayland Mia cara signora Branwell, non sono sicuro di avere ben capito la vostra missiva. Mi sembra incredibile che una donna assennata come voi possa riporre tanta fiducia nella semplice parola di un ragazzo notoriamente avventato e inaffidabile quale William Herondale ha più volte dimostrato di essere. Io certamente non lo farò. Il signor Herondale, come si evince dalla sua lettera, si è lanciato in un folle inseguimento a vostra insaputa. È perfettamente capace di inventare menzogne che possano aiutare la sua causa. Non manderò un nutrito gruppo dei miei Cacciatori per assecondare il capriccio e la parola sconsiderata di un ragazzo. Vi prego di cessare le vostre imperiose grida di guerra contro il Cadair Idris. Cercate di ricordare che io sono il Console. E sono io che comando le armate dei Cacciatori, signora, non voi. Concentratevi piuttosto sul tentativo di tenere meglio a bada i vostri Cacciatori. Sinceramente vostro, Josiah Wayland, Console — C’è un signore che desidera vedervi, signora Branwell. Charlotte alzò stancamente lo sguardo e vide Sophie sulla soglia. Aveva l’aria stanca, come tutti loro; sotto gli occhi aveva inconfondibili tracce di pianto. Charlotte conosceva quei segni… li aveva visti nel proprio specchio quella mattina. Era seduta alla scrivania del soggiorno, lo sguardo sulla lettera che teneva in mano. Non si era aspettata che il Console Wayland si rallegrasse delle sue notizie, ma non si era neppure aspettata quel totale disprezzo e rifiuto. Sono io che comando le armate dei Cacciatori, signora, non voi. Concentratevi piuttosto sul tentativo di tenere meglio a bada i vostri Cacciatori. Tenerli a bada. Charlotte fumava di rabbia. Come se tutti loro fossero dei marmocchi e lei nient’altro che la loro governante o bambinaia, incaricata di farne sfoggio davanti al Console quando erano lavati e vestiti, e di nasconderli per il resto del tempo nella stanza dei giochi in modo che non lo disturbassero. Erano Cacciatori, e lo era anche lei. E se il Console non riteneva Will affidabile, era uno sciocco. Sapeva della maledizione; gliene aveva parlato lei stessa. La follia di Will era sempre stata come quella di Amleto, metà commedia e metà pazzia, e tutta tesa a un certo fine. Il fuoco crepitava nel focolare. Fuori diluviava; la pioggia tracciava linee argentee sui vetri.

Quella mattina era passata davanti alla stanza di Jem: la porta aperta, il letto spogliato della biancheria, le sue cose sgombrate… Tutte le testimonianze degli anni che aveva trascorso con loro scomparse con un gesto della mano. Si era appoggiata alla parete del corridoio, mentre il sudore le imperlava la fronte, gli occhi le bruciavano. Raziel, ho fatto la cosa giusta? Riportò l’attenzione a Sophie. — Proprio adesso? Non è il Console Wayland, vero? — No, signora. È Aloysius Starkweather. Dice che si tratta di una questione della massima urgenza. — Aloysius Starkweather? — Charlotte sospirò. Certe giornate accumulavano semplicemente orrore su orrore. — Be’, fallo passare, allora. — Piegò la lettera che aveva scritto in risposta al Console, e l’aveva appena sigillata, quando Sophie tornò e fece entrare Aloysius Starkweather nella stanza, per congedarsi subito dopo. Starkweather non era cambiato dall’ultima volta che Charlotte lo aveva visto. Sembrava che si fosse calcificato, come se, pur non ringiovanendo, non potesse neppure invecchiare. Il suo viso era una mappa di rughe incorniciata dalla barba e dai capelli bianchi. Aveva i vestiti asciutti; Sophie doveva aver appeso il suo soprabito di sotto. Il vestito che portava era passato di moda da almeno dieci anni, e lui stesso emanava un lieve odore di vecchie palline di naftalina. — Vi prego, sedetevi, signor Starkweather — disse Charlotte, con tutta la cortesia di cui era capace verso una persona a cui sapeva di non piacere e che aveva odiato suo padre. Ma lui non si sedette. Aveva le mani unite dietro la schiena, e quando si girò per esaminare la stanza intorno a lui, Charlotte vide con un guizzo di allarme che aveva uno dei polsini della giacca macchiato di sangue. — Signor Starkweather, siete ferito? — domandò, alzandosi. —Devo chiamare i Fratelli? — Ferito? E perché dovrei essere ferito? — ripeté l’uomo, in tono scorbutico. — La vostra manica. — La indicò. Starkweather allontanò il braccio e lo guardò, quindi emise una risata sbuffante. — Non è il mio sangue. Poco fa ho avuto uno scontro. Lui ha sollevato un’obiezione… — Ha sollevato un’obiezione a cosa? — Al fatto che gli staccassi tutte le dita e poi gli tagliassi la gola — disse Starkweather. I suoi occhi erano grigio-neri, del colore della pietra. — Aloysius… — Charlotte dimenticò l’etichetta. — Gli Accordi vietano gli attacchi non provocati ai Nascosti. — Non provocati? Io direi che lo era, invece. La sua gente ha assassinato mia nipote. Mia nuora è quasi morta di dolore. La casa degli Starkweather è andata distrutta… — Aloysius! — Ormai Charlotte era seriamente allarmata. — La vostra casa non è distrutta. Ci sono ancora Starkweather a Idris. Non lo dico per sminuire il vostro dolore, perché alcune perdite sono sempre con noi. — Jem, pensò spontaneamente, e il dolore di quel pensiero la ricacciò sulla sedia. Appoggiò i gomiti sul tavolo, il viso tra le mani. — Non so perché siate venuto a parlarmene ora — mormorò. — Non avete visto le rune sulla porta dell’Istituto? Questo è un momento di grande dolore per noi… — Sono venuto a parlarvene perché è importante! — Starkweather si infiammò. — Riguarda Mortmain, e Tessa Gray. Charlotte alzò lo sguardo. — Cosa sapete di Tessa Gray? Starkweather si era girato. Era davanti al fuoco, e gettava una lunga ombra sul tappeto persiano. — Non sono il tipo che tiene in gran conto gli Accordi, lo sapete; avete partecipato a vari Consigli

con me. Sono stato allevato a credere che tutto ciò che era toccato dai demoni fosse sporco e corrotto. Che fosse un diritto di sangue dei Cacciatori uccidere tali creature e prendere i loro beni come bottino di guerra. La sala delle spoglie dell’Istituto di York fu affidata a me, e la tenni piena fino al giorno in cui furono approvate le nuove Leggi. — Il vecchio Cacciatore aggrottò la fronte. — Lasciatemi indovinare — disse Charlotte. — Non vi siete fermato. — Certo che no. Che cosa sono le Leggi dell’uomo per l’Angelo? — ribatté Starkweather. — Io conosco il modo giusto di fare le cose. Ho tenuto un profilo più basso, ma non ho smesso di raccogliere spoglie, né di distruggere i Nascosti che mi ostacolavano. Uno di loro era John Shade. — Il padre di Mortmain. — Gli stregoni non possono avere figli — disse Starkweather, rabbioso. — Mortmain era un bambino umano che avevano trovato e allevato. Shade gli insegnò i suoi modi intriganti. Conquistò la sua fiducia. — È poco verosimile che gli Shade abbiano rapito Mortmain ai suoi genitori — replicò Charlotte. — Probabilmente era un ragazzo che altrimenti sarebbe morto in un ospizio di mendicità. — Fu una cosa innaturale. Gli stregoni non dovrebbero allevare bambini umani. — Starkweather aveva lo sguardo fisso sulle braci rosse del fuoco. — È per questo che facemmo irruzione in casa di Shade. Uccidemmo lui e sua moglie. Il ragazzo fuggì. Il principe degli automi. — Il vecchio sbuffò. — Portammo con noi all’Istituto parecchie delle sue cose, ma nessuno riuscì a raccapezzarci qualcosa. Tutto qui… un’incursione di routine. Andò tutto secondo i piani. Cioè, finché non nacque mia nipote. Adele. — So che morì durante la prima cerimonia delle rune — disse Charlotte, portando inconsapevolmente la mano alla pancia. — Mi dispiace. È un gran dolore avere un bambino cagionevole… — Non era nata cagionevole! — urlò Starkweather. — Era una bambina sana. Bellissima, con gli occhi di mio figlio. Tutti andavano pazzi per lei, finché una mattina mia nuora ci svegliò con un grido. Insisteva a dire che la piccola nella culla non era sua figlia, sebbene fossero perfettamente identiche. Giurava di conoscere la sua bambina, e che quella non lo era. Pensammo che fosse impazzita. Anche quando gli occhi di Adele cambiarono da azzurri in grigi… be’, succede spesso ai bambini. Soltanto quando provammo ad applicarle i primi marchi cominciai a rendermi conto che mia nuora aveva ragione. Adele… il dolore la tormentava. Urlava e urlava e si contorceva. La sua pelle bruciava nei punti in cui lo stilo la toccava. I Fratelli Silenti fecero tutto il possibile, ma la mattina dopo era morta. —Starkweather rimase a lungo in silenzio, fissando il fuoco come affascinato. — Mia nuora quasi impazzì. Non sopportò di restare all’Istituto. Io rimasi. Sapevo che aveva ragione… Adele non era mia nipote. Mi giunsero voci di fate e altri Nascosti che si vantavano di essersi vendicati degli Starkweather, di avere preso uno dei loro bambini e averlo sostituito con un umano malaticcio. Nessuna delle mie ricerche approdò a nulla di concreto, ma ero deciso a scoprire dove fosse finita mia nipote. — Il vecchio si appoggiò alla mensola del caminetto. — Avevo quasi rinunciato, quando Tessa Gray è venuta al mio Istituto in compagnia di due dei vostri Cacciatori. Avrebbe potuto essere il fantasma di mia nipote, tanto le assomigliava. Ma, a quanto pare, non aveva il sangue dei Cacciatori. Era un mistero, ma un mistero che ho cercato di chiarire. — Starkweather annuì. — La creatura fatata che ho interrogato oggi mi ha fornito gli ultimi pezzi del puzzle. Durante la prima infanzia, mia nipote fu sostituita da una bambina umana che era stata rapita, una creatura malaticcia che morì quando le furono applicati i marchi, perché non era una Nephilim. — Nella voce dell’uomo

risuonò una forte incrinatura, una fenditura nella selce. — Mia nipote, una bambina sana, fu lasciata a una famiglia di mondani perché la allevasse, e fu sostituita dalla loro malaticcia Elizabeth, scelta per la sua somiglianza superficiale con Adele. Questa fu la vendetta della Corte Unseelie su di me. Credevano che avessi ucciso i loro, e mi ripagarono con la stessa moneta. — Gli occhi di Starkweather erano gelidi, quando si posarono su Charlotte. — Adele… Elizabeth… si fece donna in quella famiglia di mondani, senza mai venire a sapere cos’era. E poi si sposò. Con un mondano. Si chiamava Richard. Richard Gray. — Vostra nipote era la madre di Tessa? — Charlotte era sbalordita. — Elizabeth Gray? La madre di Tessa era una Shadowhunter? — Sì. — Questi sono crimini, Aloysius. Dovreste andare a riferirne al Consiglio… — A loro non importa nulla di Tessa Gray — ribatté Starkweather, in maniera brusca. — Ma a voi sì. Perciò ascolterete la mia storia e, forse, mi aiuterete. — Forse, se è la cosa giusta da fare — disse Charlotte. — Non capisco ancora come entri Mortmain in questa storia. — Mortmain seppe cos’era successo e decise di servirsi di Elizabeth Gray, una Cacciatrice che non sapeva di esserlo — continuò Starkweather. — Credo che fece in modo di assumere Richard Gray come suo impiegato per poter arrivare a Elizabeth, mia nipote. Credo che poi le mandò un demone Eidolon con le sembianze del marito, e che lo fece per farla rimanere incinta. Il fine ultimo è sempre stato Tessa: la figlia di una Cacciatrice e di un demone. — Ma i figli dei demoni e dei Cacciatori nascono sempre morti — affermò Charlotte. — Anche se il Cacciatore non sa di esserlo? — ribatté Starkweather. — Anche se non ha le rune? Charlotte rimase in silenzio. Non aveva idea di quale fosse la risposta; per quanto ne sapeva, quella situazione non si era mai verificata. I Cacciatori ricevevano i marchi da bambini, maschi e femmine, tutti. Ma Elizabeth non li aveva ricevuti. — So che la ragazza è una mutaforma — continuò Starkweather. — Ma non credo che sia per questo che Mortmain la vuole. C’è qualcos’altro che vuole che faccia. Qualcosa che solo lei può fare. Lei è la chiave. — La chiave per cosa? — Sono state le ultime parole che la creatura fatata mi ha detto, oggi pomeriggio. — Starkweather diede un’occhiata al sangue sulla manica. — «Lei dovrà essere la nostra vendetta per tutte le inutili morti che avete causato. Recherà rovina ai Nephilim, e Londra brucerà, e quando il Magister regnerà su tutto, voi per lui non sarete che bestiame in un recinto». Anche se il Console non vuole cercare Tessa per il suo bene, dovrebbero cercarla per evitare tutto questo. — Sempre che ci credano — disse Charlotte. — Se glielo direte voi, dovranno farlo — replicò Starkweather. — Se lo facessi io, riderebbero di me come di un vecchio matto, come succede da anni. — Oh, Aloysius. Voi sopravvalutate la fiducia che il Console ha in me. Dirà che sono una donna sciocca e credulona. Dirà che la creatura fatata vi ha mentito… Be’, loro non possono mentire… dirà che ha ingarbugliato la verità, o che l’ha interpretata in maniera distorta. — Tessa Gray è la chiave del piano di Mortmain — insistette Starkweather. — Non so come, ma lo è. Sono venuto da voi perché non mi fido della reazione del Consiglio. Tessa ha sangue demoniaco

nelle vene. Ricordo bene cosa io stesso ho fatto in passato alle cose che erano in parte demoni o soprannaturali. — Tessa non è una cosa — replicò Charlotte. — È una ragazza, è stata rapita ed è probabilmente terrorizzata. Non credete che, se avessi già pensato a un modo di liberarla, l’avrei fatto? — Ho sbagliato, in passato — ammise Aloysius Starkweather. — Questa volta voglio fare la cosa giusta. Il mio sangue scorre nelle vene di quella ragazza, sebbene mescolato a sangue di demone. È la mia pronipote. — Sollevò il mento, con orgoglio. — Vi chiedo soltanto una cosa, Charlotte. Quando troverete Tessa Gray – e la troverete – ditele che è la benvenuta nella famiglia Starkweather. No, non farmi pentire di essermi fidata di te, Gabriel Lightwood. Gabriel era seduto alla scrivania, nella sua stanza, penna alla mano, e scriveva su un foglio spiegato davanti a lui. Le lampade non erano accese, le ombre erano scure negli angoli e lunghe sul pavimento. Al Console Josiah Wayland Da Gabriel Lightwood Onorevolissimo Console, oggi ho finalmente l’occasione di inviarvi le informazioni che mi avete richiesto. Mi ero aspettato che venissero da Idris, ma fortuna ha voluto che la fonte fosse molto più vicina a casa. Oggi Aloysius Starkweather, capo dell’Istituto di York, è venuto a trovare la signora Branwell. Gabriel depose la penna e fece un sospiro. Poco prima aveva sentito suonare il campanello dell’Istituto, aveva visto dalle scale Sophie che faceva entrare Starkweather e poi lo conduceva in soggiorno. Era stato abbastanza facile piazzarsi davanti alla porta e ascoltare tutto ciò che accadeva nella stanza. Charlotte, in fondo, non si aspettava di essere spiata. È un vecchio impazzito dal dolore e, in quanto tale ha creato una elaborata serie di invenzioni con cui spiegarsi la sua immensa perdita. È certamente da commiserare, ma non da prendere sul serio, e neppure la politica del Consiglio dovrebbe basarsi sulle parole di persone inattendibili e folli. Le assi del pavimento scricchiolarono; la testa di Gabriel si alzò di scatto. Se era Gideon… sarebbe inorridito nello scoprire cosa lui stava facendo. Tutti sarebbero inorriditi. Pensò all’espressione avvilita che sarebbe sbocciata sul viso di Charlotte, se l’avesse saputo. Alla rabbia sconcertata di Henry. Più di tutto, pensò a una paio di occhi azzurri in un viso a cuore, che lo guardavano delusi. Forse ho fiducia in voi, Gabriel Lightwood. Quando portò di nuovo la penna al foglio, lo fece con una tale ferocia da lacerare quasi la carta. Mi rammarico di doverlo riferire, ma hanno parlato sia del Consiglio sia del Console, con grande mancanza di rispetto. È chiaro che la signora Branwell è infastidita da ciò che ritiene una inutile interferenza nei suoi piani. Ha accolto le folli affermazioni del signor Starkweather, secondo cui Mortmain avrebbe fatto accoppiare demoni e Cacciatori, cosa chiaramente

impossibile, con pura creduloneria. A quanto pare avevate ragione, è decisamente troppo ostinata e facilmente influenzabile per dirigere a dovere l’Istituto.

Gabriel si morse il labbro e si costrinse a non pensare a Cecily; pensò invece a Casa Lightwood, al proprio diritto di nascita; al ristabilimento del buon nome dei Lightwood; alla sicurezza di Gideon e di Tatiana. Non stava facendo davvero del male a Charlotte. Era in ballo soltanto la sua carica, non la sua sicurezza. Il Console non aveva piani sinistri su di lei. Sarebbe stata senz’altro più felice a Idris, o in una casa di campagna, a sorvegliare i propri bambini che scorrazzavano sui prati verdi, senza preoccuparsi costantemente del destino di tutti i Cacciatori. La signora Branwell vi incita a mandare un gruppo di Cacciatori sul Cadair Idris, ma chiunque faccia delle opinioni dei pazzi e delle persone isteriche la pietra angolare della propria politica manca dell’obiettività indispensabile per essere ritenuto attendibile. Se necessario, giurerò sulla Spada Mortale che tutto ciò è vero. Il vostro nel nome di Raziel, Gabriel Lightwood

16 LA PRINCIPESSA MECCANICA

Oh, amore! che lamenti La fragilità di tutte le cose terrene, Perché hai scelto la più fragile Come tua culla, tua casa e tua bara? Percy Bysshe Shelley, Versi: Quando la lampada è infranta Al Console Josiah Wayland Da Charlotte Branwell Caro Console Wayland, ho appena ricevuto notizie della massima gravità, che mi affretto a comunicarvi. Un informatore di cui al momento non posso rivelare il nome, ma della cui attendibilità garantisco, mi ha riferito dettagli che mi fanno pensare che la signorina Gray non sia un semplice capriccio passeggero di Mortmain, ma la chiave del suo obiettivo principale: vale a dire, la completa distruzione di noi tutti. Egli complotta di costruire congegni di una potenza maggiore di quanto abbiamo mai visto, e io temo molto che le straordinarie facoltà della signorina Gray lo aiuteranno in tale intento. Lei non si proporrebbe mai di farci del male, ma non sappiamo a quali minacce o trattamenti indegni verrà sottoposta da Mortmain. È imperativo che la liberiamo immediatamente, per salvare tutti noi e aiutare lei. Alla luce di queste nuove informazioni, vi imploro ancora una volta di radunare tutte le forze che potrete e marciare sul Cadair Idris. Sinceramente vostra, e in sincere angustie, Charlotte Branwell Tessa si svegliò lentamente, come se la sua coscienza si trovasse alla fine di un corridoio lungo e buio e lei stesse camminando verso di essa a passo di lumaca, con la mano protesa. Finalmente la raggiunse, spalancò la porta e vide… Una luce accecante. Era una luce dorata, non pallida come quella delle stregaluci. Si mise a sedere e si guardò intorno. Era su un semplice letto di ottone, con una spessa trapunta di piume stesa su un secondo materasso, e un pesante piumino sopra. La stanza in cui si trovava sembrava scavata in una caverna. C’era un

alto cassettone, e un portacatino con sopra una brocca azzurra; c’era anche un armadio, con uno sportello socchiuso abbastanza perché Tessa potesse vedere gli indumenti che vi erano appesi. La stanza era priva di finestre, ma aveva un caminetto in cui ardeva il fuoco. Ai lati del caminetto erano appesi due ritratti. Tessa scivolò giù dal letto e sussultò quando i piedi nudi toccarono la pietra fredda. Tuttavia non fu doloroso come si sarebbe aspettata dato il suo stato malconcio. Abbassando lo sguardo, ebbe subito due sorprese: la prima era che indossava soltanto una vestaglia di seta nera, troppo grande per lei; la seconda, che tagli e lividi sembravano scomparsi. Si sentiva ancora un po’ dolorante, ma la pelle, pallida contro la seta, non aveva segni. Toccandosi i capelli, sentì che erano puliti e sciolti sulle spalle, non più sporchi di fango e sangue. Tutto ciò sollevava la questione di chi l’avesse pulita, curata e messa in quel letto. Tessa non ricordava nulla oltre alla lotta con gli automi nella piccola casa contadina tra le risa della signora Black; alla fine, uno di loro l’aveva soffocata fino a farle perdere conoscenza. Era stata avvolta da una pietosa oscurità, eppure l’idea della signora Black che la svestiva e la lavava era orribile, anche se forse non quanto l’idea che a farlo fosse stato Mortmain in persona. Quasi tutti i mobili della stanza erano raggruppati da un lato della caverna. L’altro lato era pressoché spoglio, ma Tessa scorse il rettangolo nero di una porta nella parete opposta. Dopo essersi guardata rapidamente intorno, si diresse in quella direzione. E fu costretta a fermarsi di botto a metà della stanza. Indietreggiò vacillando, avvolgendosi più strettamente nella vestaglia, la fronte dolorante nel punto in cui l’aveva sbattuta contro qualcosa. Allungò con cautela una mano, sondando l’aria davanti a sé. E sentì qualcosa di duro e solido, come se un vetro perfettamente trasparente la dividesse dall’altra parte della stanza. Vi posò sopra i palmi. Per quanto invisibile, il vetro era duro come diamante. Tessa sollevò le mani, chiedendosi quanto in alto potesse mai arrivare… — Io lascerei perdere — disse una voce fredda e familiare dalla porta. — La configurazione si stende attraverso tutta la caverna, da parete a parete, dal tetto al pavimento. Ci siete murata dentro. Tessa si era allungata verso l’alto; a quelle parole, rimise i piedi a terra e arretrò di un passo. Mortmain. Era esattamente come lo ricordava. Un uomo asciutto, poco alto, con il viso rovinato dalle intemperie ma la barba tagliata con cura. Un uomo straordinariamente comune, tranne per gli occhi, freddi e grigi come una tempesta di neve in inverno. Indossava un vestito color tortora, non eccessivamente formale, il tipo di abito che un gentiluomo potrebbe portare per un pomeriggio al club. Le scarpe erano perfettamente lucidate. Tessa non disse nulla, limitandosi a stringersi ancora di più nella vestaglia. Era ampia e le nascondeva completamente il corpo, ma senza il sostegno di camicia e corsetto, calze e crinolina, si sentiva nuda, esposta. — Non vi allarmate — proseguì Mortmain. — Non potete raggiungermi attraverso la parete, ma neanch’io posso raggiungere voi. Non senza annullare l’incantesimo, cosa che richiederebbe del tempo. — Rimase un attimo in silenzio. — Volevo che vi sentiste più al sicuro. — Se volevate che fossi al sicuro, avreste dovuto lasciarmi all’Istituto. — Il tono di Tessa era glaciale. Mortmain non replicò, inclinò soltanto la testa e la scrutò, come un marinaio che scruti l’orizzonte. — Le mie condoglianze per la morte di vostro fratello. Non era mia intenzione che accadesse.

Tessa sentì la bocca storcersi in una smorfia terribile. Erano passati due mesi da quando Nate era morto tra le sue braccia, ma lei non aveva dimenticato, né perdonato. — Non voglio la vostra pietà, né le dichiarazioni della vostra buona fede. Ne avete fatto un vostro strumento, e poi è morto. È stata colpa vostra, proprio come se gli aveste sparato per strada. — Suppongo che gioverebbe a poco osservare che è stato lui a cercare me. — Era solo un ragazzo. — Tessa avrebbe voluto gettarsi in ginocchio, avrebbe voluto tempestare di pugni la barriera invisibile, ma cercò di rimanere impassibile. — Non aveva neppure vent’anni. Mortmain infilò le mani in tasca. — Sapete cosa ho passato io, quando ero ragazzo? — chiese nello stesso tono calmo che se le fosse stato seduto accanto durante una cena e fosse stato costretto a fare conversazione. Tessa pensò alle immagini che aveva visto nella mente di Aloysius Starkweather. L’uomo era alto, con le spalle larghe… e la pelle verde come una lucertola. Aveva i capelli neri. Il bambino che teneva per mano, per contrasto, sembrava normale come un qualunque bambino: piccolo, con i pugni paffuti e la pelle rosea. Tessa sapeva il nome dell’uomo, perché Starkweather lo sapeva. John Shade. L’uomo si issò il bambino sulle spalle mentre dalla porta di casa si riversava un gran numero di creature metalliche dall’aspetto inquietante. Sembravano bambole snodabili, ma avevano dimensioni umane e la pelle di metallo scintillante. Erano prive di lineamenti, ma stranamente indossavano degli abiti: alcuni, la rozza tuta da lavoro degli agricoltori dello Yorkshire; altri, semplici abiti femminili di mussola. Gli automi unirono le mani e cominciarono a ondeggiare come se fossero a un ballo campagnolo. Il bambino rideva e applaudiva. — Guarda bene, figlio mio — disse l’uomo dalla pelle verde. — Un giorno io sarò a capo di un regno di esseri meccanici, e tu ne sarai il principe. — So che i vostri genitori adottivi erano stregoni — disse Tessa. — So che vi volevano bene. So che vostro padre ha inventato le creature meccaniche che tanto vi appassionano. — E sapete che fine hanno fatto. Una stanza distrutta, ruote dentate, camme, ingranaggi e pezzi di metallo ovunque, liquido nero che colava come sangue, e l’uomo dalla pelle verde e la donna dai capelli azzurri che giacevano a terra morti tra le macerie… Tessa distolse lo sguardo. — Lasciate che vi parli della mia infanzia — continuò Mortmain. — Genitori adottivi, li chiamate, ma erano i miei genitori a prescindere dalla quantità di sangue che avevamo in comune. Mi hanno allevato con cura e con amore, proprio come i vostri hanno fatto con voi. — Indicò il caminetto, e Tessa si rese conto con un sordo turbamento che i ritratti appesi ai suoi lati erano quelli dei suoi stessi genitori: sua madre, bionda, e suo padre, con l’aria pensierosa, gli occhi marroni e la cravatta storta. — E poi sono stati uccisi dai Cacciatori. Mio padre voleva creare questi magnifici automi, queste creature meccaniche , come le chiamate. Sarebbero diventate le più grandi macchine mai inventate, così sognava, e avrebbero protetto i Nascosti dai Cacciatori che li uccidevano e li depredavano regolarmente. Avete visto le spoglie all’Istituto di Starkweather. — Mortmain sputò fuori le ultime parole. — Avete visto pezzi dei miei genitori. Teneva il sangue di mia madre in un barattolo.

E ancora, resti di stregoni. Mani mummificate munite di artigli, come quelle della signora Black. Un cranio completamente scarnificato di aspetto umano, ma con zanne al posto dei denti. Fiale di sangue torbido. Tessa deglutì. Il sangue di mia madre in un barattolo. Non poteva dire che non capisse la sua rabbia. Eppure… pensò a Jem: gli erano morti i genitori sotto gli occhi, la sua stessa vita era andata distrutta, eppure non aveva mai cercato vendetta. — Sì, è stata una cosa orribile. Ma non giustifica ciò che avete fatto. Un guizzo in fondo agli occhi di Mortmain: rabbia, subito soffocata. — Lasciate che vi dica cosa ho fatto. Ho creato un esercito. Un esercito che, una volta che l’ultimo pezzo del puzzle andrà al suo posto, sarà invincibile. — E l’ultimo pezzo del puzzle… — Siete voi — dichiarò Mortmain. — Non fate che ripeterlo, ma rifiutate di spiegarlo — replicò Tessa. — Chiedete la mia collaborazione, ma non mi dite nulla. Mi avete imprigionata qui, signore, ma non potete costringermi a parlarvi, e neppure ad aiutarvi contro la mia volontà… — Siete per metà Cacciatrice, per metà demone — disse Mortmain. — Questa è la prima cosa che dovete sapere. Tessa, già sul punto di girarsi, s’immobilizzò. — Non è possibile. I figli di Cacciatori e demoni nascono morti. — Sì, è vero, nascono morti. Il sangue di un Cacciatore e le rune sul suo corpo significano la morte del piccolo stregone nel grembo materno. Ma vostra madre non aveva i marchi. — Mia madre non era una Cacciatrice! — Tessa lanciò uno sguardo furibondo al ritratto di Elizabeth Gray accanto al caminetto. — O state forse affermando che ha mentito a mio padre, che in vita sua ha mentito a tutti… — Non lo sapeva. I Cacciatori non lo sapevano. Non c’era nessuno che potesse dirglielo — rivelò Mortmain. —È stato mio padre a costruire il vostro angelo meccanico: doveva essere un regalo per mia madre. Al suo interno c’è un frammento dello spirito di un angelo, una vera rarità, una cosa che aveva con sé dai tempi delle Crociate. Il meccanismo era concepito per essere regolato sulla vita di mia madre, in modo che ogni volta che fosse minacciata l’angelo intervenisse per proteggerla. Ma mio padre non ha mai avuto occasione di finirlo. È stato assassinato prima. — Mortmain si mise a camminare avanti e indietro. — L’uccisione dei miei genitori non è stata frutto di una scelta precisa, naturalmente. Starkweather e la sua razza godevano nel massacrare i Nascosti – si arricchivano con le spoglie – e approfittavano del minimo pretesto per usare violenza contro di loro. Per questo era odiato nella comunità dei Nascosti. Sono state le fate di campagna ad aiutarmi a scappare quando i miei genitori sono stati uccisi, e a nascondermi finché i Cacciatori non hanno smesso di cercarmi. — Mortmain fece un respiro fremente. — Anni dopo, quando hanno deciso di vendicarsi, le ho aiutate. Gli Istituti sono protetti dall’ingresso dei Nascosti, ma non da quello dei mondani e neppure, naturalmente, degli automi. — Fece un sorriso terribile. — Sono stato io, con l’aiuto di una delle invenzioni di mio padre, a insinuarmi nell’Istituto di York e a scambiare la bambina nella culla con una mondana di nascita. La nipote di Starkweather, Adele. — Adele… — sussurrò Tessa. — Ho visto un suo ritratto. — Una fanciulla dai lunghi capelli biondi, con un vestitino antiquato e un grosso fiocco sulla testa. Il viso era magro, pallido e malaticcio, ma gli occhi erano vivaci.

— È morta quando le sono state applicate le prime rune — disse Mortmain, compiaciuto. — È morta urlando, come tanti Nascosti avevano fatto prima di lei per mano dei Cacciatori. È stata uccisa da chi l’amava. Una giusta punizione. Tessa lo guardò inorridita. Come si poteva pensare che morire tra atroci dolori fosse una giusta punizione per una bambina innocente? Pensò di nuovo a Jem, alle sue mani delicate sul violino. — Elizabeth, vostra madre, è cresciuta senza sapere di essere una Cacciatrice. Non le era stata applicata nessuna runa. Ho seguito il suo sviluppo, naturalmente, e quando ha sposato Richard Gray ho fatto in modo di prenderlo alle mie dipendenze. Credevo che la mancanza di rune su vostra madre significasse che poteva concepire un figlio mezzo demone e mezzo Cacciatore, e per verificare questa teoria le ho mandato un demone con le sembianze di vostro padre. Non si è mai accorta della differenza. Solo il fatto di avere lo stomaco vuoto impedì a Tessa di vomitare. — Voi… avete fatto cosa… a mia madre? Un demone? Io sono per metà demone? — Si trattava di un demone superiore, se la cosa può consolarvi. Quasi tutti erano angeli, una volta. Aveva un aspetto piuttosto attraente. — Mortmain sogghignò. — Prima che vostra madre restasse incinta, avevo impiegato anni per finire l’angelo meccanico di mio padre. L’ho finito e, dopo che siete stata concepita, l’ho regolato sulla vostra vita. La mia più grande invenzione. — Ma perché mia madre avrebbe dovuto essere disposta a portarlo? — Per salvarvi — rispose Mortmain. — Vostra madre si è resa conto che c’era qualcosa che non andava, quando è rimasta incinta. Avere in grembo un essere con sangue demoniaco non è come avere un piccolo umano. Allora sono andato da lei e le ho dato l’angelo meccanico, dicendole che avrebbe salvato la vita del nascituro. Mi ha creduto. Voi siete immortale, ragazza mia, ma non invulnerabile: potete essere uccisa. L’angelo è regolato sulla vostra vita; è progettato per salvarvi qualora stiate per morire. Può avervi salvata cento volte prima ancora che nasceste, e vi ha salvata dopo che siete nata. Pensate a tutte le occasioni in cui siete stata vicina alla morte. Pensate a come è intervenuto. Tessa riandò con la memoria al passato… ricordò come l’angelo era volato contro l’automa che la soffocava, aveva parato le lame della creatura che l’aveva assalita nei pressi di Ravenscar Manor, aveva evitato che si sfracellasse sulle rocce del burrone. — Ma non ha evitato che venissi torturata o ferita. — No. Perché sono cose che rientrano nella condizione umana. — Anche la morte lo è — replicò Tessa. — Io non sono umana, e avete lasciato che le Sorelle Oscure mi torturassero. Non potrò mai perdonarvelo. Perfino se mi convinceste che la morte di mio fratello è avvenuta per colpa sua, che la morte di Thomas era giustificata, che il vostro odio aveva una ragione d’essere, non potrei mai perdonarvi. Mortmain sollevò la cassa che si trovava ai suoi piedi e la capovolse. Ne caddero rumorosamente ingranaggi, ruote dentate, camme, spezzoni di metallo ricoperto di un fluido nero e, alla fine, una testa tagliata, che rimbalzò sul resto dei rottami come una palla di gomma: la testa della signora Black. — L’ho distrutta, per voi, signorina Gray. Volevo dimostrarvi che sono sincero. — Sincero in cosa? Perché avete fatto tutto questo? Perché mi avete creata? Le labbra di Mortmain si contrassero leggermente: non era un sorriso. — Per due scopi. Il primo è che poteste mettere al mondo dei figli. — Ma le streghe non possono… — No, ma voi non siete una comune strega. Dentro di voi il sangue dei demoni e il sangue degli

angeli ha combattuto la sua guerra nel Cielo, e gli angeli sono risultati vincitori. Voi non siete una Cacciatrice, ma non siete neppure una strega. Siete qualcosa di nuovo, qualcosa di completamente diverso. Tutti gli ibridi di Cacciatori e demoni muoiono, e i Nephilim ne vanno fieri, felici che il loro sangue non verrà mai contaminato, né il loro lignaggio guastato dalla magia. Ma voi. Voi potete usare la magia. Potete avere bambini come ogni altra donna. Non per qualche anno ancora, ma quando raggiungerete la piena maturità. Me lo hanno assicurato i più grandi stregoni viventi. Insieme daremo vita a una nuova razza, con la bellezza dei Cacciatori e senza alcun segno distintivo degli stregoni. Sarà una razza che distruggerà l’arroganza dei Cacciatori, soppiantandoli su questa terra. Tessa si sentì cedere le gambe. Si accasciò al suolo, mentre la vestaglia si spandeva intorno a lei come acqua nera. — Voi… volete usarmi per procreare i vostri figli? — Non sono un uomo senza onore. — Mortmain sorrise. — Vi offro di sposarmi. È sempre stato nei miei piani. — Indicò il pietoso mucchio di metallo contorto e di carne che era stato la signora Black. — Se posso avere la vostra partecipazione volontaria, lo preferirei. E posso promettervi che, in tal caso, affronterei tutti i vostri nemici. I miei nemici. Tessa pensò a Nate, che le stringeva la mano mentre moriva, insanguinato, sul suo grembo. Pensò di nuovo a Jem, che non aveva mai imprecato contro il proprio destino, ma lo aveva affrontato con coraggio. Pensò a Charlotte, che aveva pianto per la morte di Jessamine, sebbene Jessie l’avesse tradita. E pensò a Will, che si era fatto calpestare il cuore da lei e da Jem, perché li amava più di quanto amasse se stesso. Nel mondo c’era la bontà umana, pensò… tutta intrecciata a desideri e sogni, a rimpianti e amarezze, a rancori e poteri, ma c’era, e Mortmain non l’avrebbe mai scorta. — Non capirete mai. — Tessa scosse il capo. — Dite che costruite, che inventate, ma io conosco un inventore – Henry Branwell – e voi non gli assomigliate affatto. Lui fa vivere le cose; voi distruggete e basta. E adesso mi portate un altro demone morto, come se fossero fiori e non altra morte. Non avete sentimenti, signor Mortmain, né empatia per nessuno. Se non lo avessi già saputo, mi sarebbe divenuto chiarissimo quando avete provato a servirvi della malattia di James Carstairs per costringermi a venire qui. Sebbene stia morendo a causa vostra, Jem non mi avrebbe permesso di venire… non avrebbe preso il vostro yin fen. Ecco con quanta bontà si comporta la gente. Solo per un istante sul viso di Mortmain aleggiò la delusione, prima di essere sostituita da un’espressione scaltra. — Non vi avrebbe permesso di venire? Dunque non mi ero sbagliato nel giudicarvi; voi sareste venuta. Sareste venuta qui, da me, per amore. — Non per amor vostro. — No, certo, non per amor mio — disse Mortmain, con aria pensierosa. Tirò fuori dalla tasca un oggetto che Tessa riconobbe immediatamente. Fissò l’orologio che le veniva porto, appeso alla sua catenella d’oro. Era chiaramente scarico. Le lancette avevano smesso di girare da un pezzo, bloccate sulla mezzanotte. Sulla parte posteriore erano incise in caratteri eleganti le iniziali J.T.S. — Ho detto che c’erano due ragioni per cui vi ho creata — continuò Mortmain. — Questa è la seconda. Al mondo ci sono svariati mutaforma: demoni e maghi che possono assumere l’aspetto di altre persone. Ma solo voi potete davvero diventare qualcun altro. Questo orologio era di mio padre, John Thaddeus Shade. Vi prego di prenderlo e di trasformarvi in lui, in modo che possa parlargli ancora una volta. Se lo farete, manderò tutto lo yin fen che posseggo – ed è una quantità notevole – a

James Carstairs. — Non lo accetterà — disse subito Tessa. — Perché no? — Il tono di Mortmain era ragionevole. — Non siete più la moneta di scambio per la droga. È un regalo offerto generosamente. Rifiutarlo sarebbe sciocco e non porterebbe a nulla. Mentre, facendo questa piccola cosa per me, potreste anche salvargli la vita. Che ne dite, Tessa Gray? Will… Will, svegliati. Era la voce di Tessa, inequivocabilmente, il che lo fece raddrizzare di colpo in sella. Will afferrò la criniera di Balios per restare in equilibrio e si guardò intorno con gli occhi offuscati dalla stanchezza. Verde, grigio, blu. Lo spettacolo della campagna gallese si stendeva davanti a lui. Aveva superato Welshpool e il confine anglo-gallese intorno all’alba. Ricordava poco del suo viaggio, solo una successione continua e tortuosa di luoghi: Norton, Atcham, Emstrey, Weeping Cross, per evitare di attraversare Shrewsbury, e finalmente il confine e le colline gallesi in lontananza. Erano apparse spettrali nella luce del mattino, tutto era avvolto nella nebbia che si era dissolta lentamente via via che il sole era salito in cielo. Immaginò di trovarsi nelle vicinanze di Llangadfan. Era una bella strada, posata sopra una vecchia via secondaria romana, ma quasi priva di abitazioni, eccezion fatta per qualche sporadica fattoria, e sembrava interminabilmente lunga, più lunga del cielo grigio che si stendeva sopra di lui. Al Cann Office Hotel si era imposto di fermarsi e di mangiare qualcosa, ma solo per pochi istanti. L’importante era continuare il viaggio. Adesso che era in Galles, lo sentiva… sentiva il richiamo del luogo in cui era nato. Nonostante tutti i discorsi di Cecily, solo ora percepiva quel legame, respirando l’aria del Galles, vedendo i colori del Galles: il verde delle colline, il grigio dell’ardesia e del cielo, il pallore delle case di pietra imbiancate a calce, i puntini avorio delle pecore sullo sfondo dell’erba. Pini e querce apparivano di un verde smeraldo scuro in lontananza, più in alto, ma più vicino alla strada la vegetazione era di una tinta più spenta e spruzzata di ocra. Mentre si inoltrava nel cuore del Paese, le verdi colline dolci e ondulate si fecero più aspre, la strada più ripida e il sole cominciò ad abbassarsi verso l’orlo delle montagne lontane. Capì dove si trovava, quando entrò nella valle del Dyfi e le montagne si innalzarono aspre e frastagliate davanti a lui. Il picco del Car Afron era alla sua sinistra, un ammasso di ardesia grigia e di ciottoli simili a una grigia ragnatela sfilacciata sul suo fianco. La strada era ripida e lunga. Mentre incitava Balios, Will si accasciò sulla sella e, suo malgrado, scivolò nel sonno. Sognò Cecily ed Ella che correvano su e giù da colline non diverse da quelle, e lo chiamavano: “Will! Vieni a correre con noi, Will!” E sognò Tessa e le sue mani protese verso di lui, e capì di non potersi fermare, di non potersi fermare finché non l’avesse raggiunta. Anche se non lo guardava mai così da sveglia, anche se la dolcezza nei suoi occhi era per qualcun altro. Ogni tanto la mano del ragazzo scivolava nella tasca e si stringeva intorno al ciondolo di giada. All’improvviso Will sentì un forte colpo al fianco; lasciò andare il ciondolo e cadde di peso sull’erba sassosa al lato della strada. Il dolore gli guizzò lungo il braccio; lui rotolò di lato appena in tempo per evitare Balios che gli piombava accanto. Gli ci volle un momento per rendersi conto che non erano stati assaliti. Il cavallo, troppo esausto per fare anche solo un altro passo, era crollato sotto di lui.

Will si mise in ginocchio e strisciò verso il fianco di Balios, che giaceva a terra coperto di schiuma, con gli occhi rovesciati all’insù. Gli si avvicinò e gli gettò un braccio intorno al collo. Fu sollevato nel sentire che il battito del suo cuore era regolare e forte. — Balios… — sussurrò, accarezzandogli la criniera. — Mi dispiace. Non avrei dovuto sfiancarti così. Ricordò quando Henry aveva comprato i cavalli ed era indeciso su come chiamarli. Era stato Will a suggerirne i nomi: Balios e Xanthos, come i cavalli immortali di Achille. Potremmo anche correre come il soffio di Zefiro, che a quanto dicono è il più veloce dei venti. Ma i cavalli di Achille erano immortali, e Balios no. Era più forte di un cavallo comune, e più veloce, ma aveva i suoi limiti. Will si stese, con la testa che gli girava, e levò gli occhi al cielo, che era simile a un lenzuolo grigio ben teso, sfiorato qua e là da venature di nuvole nere. Una volta, nei brevi istanti tra l’eliminazione della “maledizione” e la consapevolezza che Jem e Tessa erano fidanzati, aveva pensato di portare Tessa lì in Galles, di mostrarle i luoghi in cui era stato bambino. Aveva immaginato di portarla giù nel Pembrokeshire, di fare il giro della penisola di Saint David’s e vedere i fiori in cima alle scogliere, ammirare il mare azzurro da Tenby e raccogliere conchiglie lungo la linea di marea. Ormai tutto ciò gli sembrava la lontana fantasticheria di un bambino. C’era solo la strada davanti a lui. Altre cavalcate e altra stanchezza e alla fine, probabilmente, la morte. Con un’altra pacca rassicurante sul collo del cavallo, Will si issò sulle ginocchia e poi in piedi. Lottando contro le vertigini, si arrampicò sulla cresta della collina; sotto di lui c’era una piccola valle, sul cui fondo era adagiato un minuscolo villaggio di pietra. Estrasse lo stilo dalla cintura e si incise stancamente sul polso sinistro una runa della Vista. Gli conferì sufficiente forza per vedere che il villaggio aveva una piazza e una piccola chiesa. Avrebbe sicuramente avuto anche un pub dove Will avrebbe potuto pernottare. Tutto nel suo cuore gli gridava di andare avanti, di portare a termine la missione – ormai non poteva essere che a una trentina di chilometri dalla meta – ma andare avanti avrebbe significato uccidere il cavallo. Sapeva, che sarebbe arrivato sul Cadair Idris impreparato a combattere con chicchessia. Tornò da Balios e, con una misurata elargizione di blandizie e manciate di avena, riuscì a farlo alzare. Poi, prendendo le redini in mano e guardando il tramonto con gli occhi socchiusi, guidò il cavallo giù dalla collina in direzione del villaggio. Tessa era seduta su una sedia dall’alto schienale di legno intagliato, ornato di massicce borchie le cui punte smussate le penetravano nella schiena. Era dietro un’ampia scrivania con un’estremità ingombra di libri; davanti a lei c’erano una pila di fogli di carta, un calamaio e una penna d’oca. Accanto alla carta era posato l’orologio da tasca di John Shade. Ai fianchi della ragazza c’erano due massicci automi dalle fattezze solo vagamente umane. Erano entrambi quasi triangolari, con braccia robuste che sporgevano dai lati del corpo, terminando ognuna con una lama tagliente come un rasoio. Erano piuttosto spaventosi, ma Tessa non poté fare a meno di pensare che, se Will fosse stato lì, avrebbe commentato che assomigliavano a due rape e, forse, ci avrebbe anche composto sopra una canzone. — Prendete l’orologio — disse Mortmain. — E trasformatevi. Era seduto di fronte a lei, su una sedia quasi uguale alla sua, con lo stesso alto schienale incurvato. Si trovavano in un’altra stanza della caverna, dove Tessa era stata condotta dagli automi; l’unica luce nella stanza proveniva da un enorme caminetto, abbastanza grande da potervi arrostire

una mucca intera. Il viso di Mortmain era nell’ombra, le dita unite sotto il mento. Tessa prese l’orologio. Lo sentì pesante e freddo tra le dita. Chiuse gli occhi. Aveva solo la parola di Mortmain ad assicurarle che aveva mandato lo yin fen, eppure gli credeva. Non aveva ragione per non farlo, dopotutto. Che differenza poteva fare, per lui, se Jem Carstairs fosse vissuto un po’ di più? La droga era stato solo uno strumento di contrattazione per impadronirsi di lei, e ora lei era lì, yin fen o non yin fen. Tessa sentì il respiro di Mortmain sibilare attraverso i denti e aumentò la stretta sull’orologio, che all’improvviso sembrò pulsarle tra le dita, come faceva talvolta l’angelo meccanico, quasi fosse dotato di vita propria. Sentì la mano sussultare, e poi d’un tratto si trasformò… senza doverlo desiderare o sforzarsi di farlo. Ansimò lievemente mentre sentiva la trasformazione travolgerla come un vento impetuoso, schiacciandola. All’improvviso John Shade fu tutt’intorno a lei, avviluppando la sua presenza con la propria. Il dolore le guizzò su per il braccio, e Tessa lasciò andare l’orologio, che ricadde con un tonfo sulla scrivania. Ormai la trasformazione era inarrestabile. Le spalle si allargarono sotto la vestaglia, le dita divennero verdi, il colore si diffuse sul corpo come il verderame sul metallo. La testa scattò su. Tessa si sentiva pesante, come se un enorme macigno la stesse schiacciando. Abbassando lo sguardo, vide che aveva pesanti braccia da uomo, la pelle ruvida e di un verde scuro, le mani grandi e contorte. Le montò dentro un senso di panico, ma appena accennato, una piccola scintilla in un immenso abisso di oscurità. Non si era mai sentita tanto smarrita all’interno di una trasformazione prima di allora. Mortmain si era raddrizzato sulla sedia. La guardava fisso, con le labbra serrate, gli occhi in cui balenava una luce dura, sinistra. — Padre… Tessa non rispose. Non poteva rispondere. La voce che sorse dentro di lei non era la sua; era quella di Shade. — Mio principe meccanico. La luce negli occhi di Mortmain divenne più intensa. L’uomo si sporse in avanti, spingendo impaziente i fogli sul tavolo verso Tessa. — Padre, ho bisogno del tuo aiuto, e alla svelta. Ho una Pyxis. Ho gli strumenti per aprirla. Ho i corpi degli automi. Mi serve soltanto l’incantesimo che hai creato, l’incantesimo di controllo. Scrivimelo, e avrò l’ultimo pezzo del puzzle. Il minuscolo guizzo di panico dentro Tessa cresceva e si espandeva. Non si trattava di una commovente riunione tra padre e figlio. C’era qualcosa che Mortmain voleva, di cui aveva bisogno dallo stregone John Shade. Tessa cominciò a lottare, cercando di abbandonare la trasformazione, che però la teneva in una stretta ferrea. Da quando le Sorelle Oscure l’avevano addestrata, era sempre stata in grado di abbandonare una trasformazione; eppure, in quel momento, sebbene John Shade fosse morto, sentiva la morsa d’acciaio della sua volontà imprigionarla nel suo corpo e costringere quel corpo ad agire. Inorridita, vide la propria mano allungarsi verso la penna, immergere il pennino nell’inchiostro e cominciare a scrivere. La penna grattava sulla carta. Mortmain si piegò in avanti. Respirava a fatica, come se corresse. Dietro di lui le fiamme crepitavano nel focolare, alte e arancioni. — Ecco… vedo come potrebbe funzionare, sì. Finalmente. Certo, proprio così. Tessa guardò. Quello che veniva fuori dalla penna le sembrava un flusso di parole incomprensibili: numeri, segni e simboli che non capiva. Cercò di nuovo di lottare, riuscendo solo a macchiare il foglio. E poi la penna ricominciò a muoversi… inchiostro, carta, altro grattare. La mano che teneva la penna tremava violentemente, ma i simboli continuavano a fluire. Tessa si morse il

labbro, forte, poi ancora più forte; si sentì il sangue in bocca. Un po’ di sangue gocciò sul foglio. La penna continuò a scrivere sopra di esso, spandendo il liquido rosso sulla pagina. — Padre… La punta della penna si spezzò con un rumore simile a uno sparo, che echeggiò sulle pareti della caverna. La penna rotta cadde dalla mano di Tessa, che si afflosciò contro lo schienale, esausta. Il verde stava ormai defluendo dalla sua pelle, il corpo si andava rimpicciolendo, i capelli castani le ricaddero sulle spalle. — No — disse la ragazza, senza fiato, e allungò la mano verso i fogli. — Non… Ma i suoi movimenti erano resi lenti dal dolore e dalla trasformazione, e Mortmain fu più veloce. Ridendo, le strappò i fogli da sotto la mano e si alzò. — Molto bene. Grazie, mia piccola strega. Mi hai dato tutto quello che mi serviva. Automi, scortate di nuovo la signorina Gray nella sua stanza. Mani metalliche sollevarono Tessa. Il mondo sembrò ondeggiare vertiginosamente davanti a lei. Vide Mortmain allungare la mano e sollevare l’orologio d’oro che era caduto sul tavolo. L’uomo sorrise all’orologio, un sorriso cupo, malvagio. — Ti renderò fiero di me, padre. Non dubitarne mai. Tessa, non più in grado di sopportare quella vista, chiuse gli occhi. Che cosa ho fatto? pensò mentre l’automa cominciava a spingerla fuori della stanza. Mio Dio, che cosa ho fatto?

17 L’UNICA NOBILTÀ È ESSERE VIRTUOSI

Comunque sia, mi sembra, L’unica nobiltà è essere virtuosi. I cuori gentili valgono più delle corone gentilizie, La fede schietta più del sangue normanno. Alfred, Lord Tennyson, Lady Clara Vere de Vere

La testa scura di Charlotte era china su una lettera, quando Gabriel entrò nel soggiorno. Faceva freddo nella stanza, nel camino il fuoco era spento. Gabriel si chiese perché Sophie non lo avesse attizzato… passava ormai troppo tempo a esercitarsi. Suo padre non avrebbe avuto pazienza per certe cose. Gli piacevano i domestici addestrati a combattere, ma preferiva che acquisissero certe capacità prima di entrare al suo servizio. Charlotte alzò lo sguardo. — Gabriel… — Volevate vedermi? — Il ragazzo fece del suo meglio per mantenere la voce controllata. Non poteva evitare la sensazione che gli occhi scuri di Charlotte vedessero attraverso di lui, quasi fosse fatto di vetro. Il suo sguardo guizzò verso i fogli sulla scrivania. — Che cosa sono? Charlotte esitò. — Le lettere del Console. — Aveva la bocca piegata in una linea serrata, sofferta. Abbassò di nuovo lo sguardo e sospirò. — Tutto quello che ho sempre voluto è dirigere questo Istituto come aveva fatto mio padre. Non ho mai pensato che sarebbe stato tanto difficile. Gli scriverò di nuovo, ma… — Charlotte si interruppe con un sorriso tirato. — Ma non ti ho fatto venire qui per parlare di me. Gabriel, nei giorni scorsi mi sei sembrato stanco, teso. So che siamo tutti angustiati, e temo che in questa angustia la tua situazione possa essere stata dimenticata. — La mia situazione? — Tuo padre — spiegò Charlotte, alzandosi dalla sedia e avvicinandoglisi. — Devi ancora piangerlo. — E Gideon? Era anche suo padre. — Lui ha pianto vostro padre tempo fa — disse Charlotte, e Gabriel fu sorpreso di ritrovarsela al fianco. — Per te deve essere qualcosa di nuovo e straziante. Non volevo tu pensassi che me n’ero dimenticata. — Dopo tutto quello che è successo… — Gabriel sentì la gola che cominciava a chiuderglisi per

lo smarrimento, e per qualcos’altro, qualcosa che non voleva individuare con troppa precisione. — Dopo Jem, e Will, e Jessamine, e Tessa, dopo che la vostra casa è stata quasi dimezzata, non volete che io creda che vi siete dimenticata di me? Charlotte gli mise una mano sul braccio. — Queste perdite non rendono la tua meno… — Non può essere — disse Gabriel. — Non potete volermi confortare. Mi avete chiesto di scoprire se la mia lealtà andava ancora a mio padre o all’Istituto… — Gabriel, no. Niente del genere. — Non posso darvi la risposta che volete. Non posso dimenticare che lui è rimasto con me — affermò Gabriel. — Mia madre è morta… Gideon se n’è andato… e Tatiana è una sciocca, una buona a nulla… non c’è mai stato nessun altro, mai nessun altro a crescermi, e io non avevo nulla, solo mio padre, solo noi due, e ora voi, voi e Gideon, vi aspettate che lo disprezzi, ma non posso. Era mio padre, e io… — Gli si spezzò la voce. — Tu gli volevi bene — disse Charlotte, con dolcezza. — Sai, mi ricordo quando non eri che un bambino, e ricordo tua madre. E ricordo tuo fratello, che ti stava sempre accanto. E la mano di tuo padre sulla tua spalla. Se può contare qualcosa, credo davvero che pure lui ti volesse bene. — Non conta niente. Perché io l’ho ucciso — ribatté Gabriel, con voce tremante. — Gli ho conficcato una freccia nell’occhio… ho versato il suo sangue. Ho commesso un parricidio… — Non è stato un parricidio. Non era più tuo padre. — Se quello non era mio padre, se non ho posto fine alla vita di mio padre, allora dov’è? Dov’è mio padre? — Gabriel sentì Charlotte sollevare le braccia per attirarlo a sé, per abbracciarlo come avrebbe fatto una madre, tenendolo stretto mentre singhiozzava contro la sua spalla senza piangere, sentendo il sapore delle lacrime in gola ma non riuscendo a versarle. — Dov’è mio padre? — ripeté, e quando lei serrò il suo abbraccio, Gabriel sentì l’acciaio della sua stretta, la sua forza mentre lo teneva, e si chiese come mai avesse sempre pensato che quella piccola donna fosse debole. A Charlotte Branwell Dal Console Josiah Wayland Mia cara signora Branwell, parlate di un informatore di cui al momento non potete rivelare il nome? Azzarderei l’ipotesi che non ci sia nessun informatore, che sia tutta una vostra messa in scena, uno stratagemma per convincermi che siete nel giusto. Vi prego, smettete di dare l’idea di essere un pappagallo che ripete “Marciamo subito sul Cadair Idris” a tutte le ore del giorno, e dimostratemi piuttosto che state ottemperando ai vostri doveri di capo dell’Istituto di Londra. Altrimenti, temo mi toccherà presumere che siate inadatta a tale carica, e mi vedrò costretto a sollevarvi all’istante da essa. Come segno della vostra sottomissione devo chiedervi di smetterla una volta per tutte di toccare questo argomento, e di non supplicare nessun membro dell’Enclave londinese di unirsi alla vostra infruttuosa ricerca. Se verrò a sapere che avete sottoposto la questione a un altro Nephilim, la considererò una grave insubordinazione e agirò di conseguenza. Josiah Wayland, Console dell’Enclave

Sophie aveva portato la lettera al tavolo della colazione. Charlotte l’aprì con il coltello del burro, rompendo il sigillo di famiglia di Wayland – un ferro di cavallo sopra la C di Console – e nell’aprirla la strappò quasi, tanta era l’ansia di leggerla. Henry aveva sul volto un’insolita espressione preoccupata, mentre due macchie rosse sbocciavano lentamente sugli zigomi della moglie via via che scorreva le righe. Gli altri sedevano del tutto immobili, e Cecily non poté fare a meno di pensare a come fosse strano osservare un gruppo di uomini in spasmodica attesa della reazione di una donna. Certo, era un gruppo di uomini più piccolo di quanto avrebbe dovuto essere. L’assenza di Will e di Jem sembrava una ferita fresca, un taglio bianco e pulito non ancora pieno di sangue, lo shock quasi troppo recente per provare dolore. — Che c’è? — domandò Henry, in tono ansioso. — Charlotte, cara… La donna lesse ad alta voce le parole del messaggio, con il ritmo di un metronomo, privo di emozione. Quando ebbe finito, spinse via la lettera continuando a fissarla. — Non posso proprio… — cominciò. — Non capisco. Sotto le lentiggini, Henry era paonazzo. — Come osa scriverti a quel modo? — sbottò, con un’ira inaspettata. — Come osa apostrofarti in quella maniera, liquidare le tue preoccupazioni… — Forse ha ragione. Forse Starkweather è pazzo. Forse tutti noi lo siamo — disse Charlotte. — Non è vero! — esclamò Cecily, e vide Gabriel guardarla di traverso. Le era difficile interpretare la sua espressione. Era stato pallido da quando aveva messo piede nella sala da pranzo, e non aveva quasi parlato o mangiato, tutto concentrato sulla tovaglia, come se contenesse le risposte a tutti problemi dell’universo. — Il Magister è sul Cadair Idris. Ne sono sicura. — Io ti credo. — Gideon aveva la fronte aggrottata. — Tutti noi lo facciamo, ma senza l’appoggio del Console la questione non può essere sottoposta al Consiglio, e senza che si riunisca il Consiglio non potremo ricevere alcun aiuto. — Il portale è quasi pronto — annunciò Henry. — Quando sarà attivo, dovremmo essere in grado di trasportare in pochi secondi tutti i Cacciatori necessari sul Cadair Idris. — Ma non ci saranno Cacciatori da trasportare — replicò Charlotte. — Guardate qui, il Console mi proibisce di parlare della questione all’Enclave londinese. La sua autorità supera la mia. Trasgredendo così ai suoi ordini… potremmo perdere l’Istituto. — E allora? — ribatté Cecily, in tono acceso. — Tenete più alla vostra posizione che a Will e a Tessa? — Signorina Herondale… — cominciò Henry. Ma Charlotte lo zittì con un gesto. Aveva un’aria molto stanca. — No, Cecily, non è così, ma l’Istituto ci fornisce protezione. Senza di essa la nostra capacità di aiutare Will e Tessa è duramente compromessa. Come capo dell’Istituto, posso fornire loro l’aiuto che un singolo Cacciatore non potrebbe… — No — disse Gabriel. Aveva spinto via il piatto, e le sue dita sottili si muovevano nervose, tese e bianche. — Non potete. — Gabriel? — Gideon era impallidito. — Non rimarrò zitto — ribatté Gabriel, e si alzò, come per fare un discorso o correre via dal tavolo. Rivolse uno sguardo sconvolto a Charlotte. — Il giorno in cui il Console è venuto qui, quando ha portato via me e mio fratello per interrogarci, ci ha minacciati finché non abbiamo promesso di spiarvi per suo conto.

Charlotte sbiancò. Henry fece per alzarsi dal tavolo. Gideon allungò una mano, con aria supplichevole. — Charlotte, non l’abbiamo fatto. Non gli abbiamo mai detto niente. Niente che fosse vero, in ogni caso — si corresse, girando lo sguardo sugli altri occupanti della stanza, che lo fissavano. — Qualche bugia, informazioni sbagliate… Ha smesso di chiederlo dopo appena due lettere. Sapeva che era tutto tempo perso. — È vero, signora — disse una vocina dall’angolo della stanza. Era Sophie. Cecily non l’aveva quasi notata, pallida sotto la cuffietta bianca. — Sophie! — Henry sembrava sconvolto. — Tu lo sapevi? — Sì, ma… — La voce della cameriera tremava. — Ha rivolto minacce terribili a Gideon e a Gabriel, signora Branwell. Ha detto loro che avrebbe cancellato i Lightwood dagli annali dei Cacciatori, che avrebbe messo Tatiana in mezzo a una strada. Ma loro non gli hanno detto niente. Quando ha smesso di chiedere informazioni, ho pensato che si fosse reso conto che non c’era niente da scoprire e avesse rinunciato. Mi dispiace tanto. Volevo solo… — Sophie non voleva nuocervi — disse Gideon, in tono disperato. — Vi prego, signora Branwell. Non la rimproverate per questo. — Non lo farò. — Gli occhi scuri e acuti di Charlotte scrutarono con attenzione quelli di Gabriel, di Gideon e di Sophie. — Ma immagino che ci sia dell’altro. Non è vero? — È tutto qui, davvero… — cominciò Gideon. — No, non è tutto qui — lo interruppe Gabriel. —. Quando sono venuto da te, Gideon, e ti ho detto che il Console non voleva più informazioni su Charlotte, ho mentito. — Cosa? — Gideon sembrava inorridito. — Mi ha preso da parte, da solo, il giorno dell’attacco degli automi all’Istituto. Mi ha detto che, se lo avessi aiutato a scoprire qualche atto illecito da parte di Charlotte, ci avrebbe restituito le nostre proprietà, ristabilito l’onore del nostro nome, nascosto quanto ha fatto nostro padre… — Gabriel fece un profondo respiro. — E io ho accettato. — Gabriel! — gemette Gideon, e affondò la faccia tra le mani. Sembrava che Gabriel fosse sul punto di sentirsi male, vacillava quasi. Cecily era lacerata tra pietà e orrore, ricordando la notte nella sala delle esercitazioni, quando gli aveva detto che aveva fiducia in lui e nella sua capacità di fare le scelte giuste. — Ecco perché sembravi tanto spaventato quando prima ti ho chiamato per parlarti — disse Charlotte, lo sguardo fisso su Gabriel. — Pensavi che ti avessi scoperto. Henry fece per alzarsi, con il viso oscurato dalla prima vera rabbia che Cecily pensava di avervi mai visto. — Gabriel Lightwood, mia moglie non ti ha dimostrato che gentilezza, ed è così che la ripaghi? Charlotte mise una mano sul braccio del marito. — Henry, aspetta — disse. — Gabriel, che cosa hai fatto? — Ho ascoltato la vostra conversazione con Aloysius Starkweather — rispose Gabriel, con voce vacua. — Poi ho scritto una lettera al Console, dicendogli che i motivi per cui lo spingevate a marciare sul Galles si basavano sulle parole di un folle, che eravate una credulona, troppo ostinata… Gli occhi di Charlotte sembravano trafiggere Gabriel come chiodi; Cecily pensò che non avrebbe voluto quello sguardo su di sé per nulla al mondo. — L’hai scritta… — mormorò Charlotte. — E l’hai spedita? Gabriel fece un respiro lungo e spezzato. — No. — E infilò la mano in tasca. Ne estrasse un foglio

piegato e lo gettò sul tavolo. Era macchiato e consumato ai bordi, come se fosse stato aperto e ripiegato molte volte. — Non ho potuto farlo. Non gli ho detto un bel niente. Cecily fece uscire il fiato che non si era resa conto di trattenere. Sophie emise un verso sommesso; si avviò verso Gideon, che aveva l’aria di chi si stesse riprendendo da un pugno allo stomaco. Charlotte rimase calma, com’era stata dal principio alla fine. Allungò la mano, prese la lettera, le diede una scorsa e la rimise sul tavolo. — Perché non l’hai mandata? Gabriel la fissò. Tra loro passò uno strano sguardo. — Dovevo riconsiderare le mie ragioni. — Perché non sei venuto da me? — chiese Gideon. — Sei mio fratello… — Non puoi fare tutte le scelte per me, Gideon. Devo iniziare a farle da solo. In quanto Cacciatori, siamo destinati a essere altruisti. A morire per i mondani, per l’Angelo, e soprattutto l’uno per l’altro. Questi sono i nostri principi. Charlotte vive seguendoli; nostro padre non l’ha mai fatto. Mi sono reso conto che mi ero sbagliato a essere leale solo nei confronti del mio lignaggio, anteponendolo ai principi, a tutto. E mi sono reso conto che il Console si sbagliava su Charlotte. — Gabriel si fermò di colpo; aveva la bocca serrata in una sottile linea bianca. — Non posso ritirare ciò che ho fatto in passato, o che pensavo di star facendo. Non conosco alcun modo per farmi perdonare i miei dubbi sulla vostra autorità, Charlotte, o la mia ingratitudine per la vostra gentilezza. Tutto ciò che posso fare è dirvi quanto so: non potete aspettare un’approvazione che non arriverà mai da parte del Console Wayland. Non marcerà mai sul Cadair Idris per voi. Non vuole acconsentire a nessun piano che abbia l’impronta della vostra autorità. Desidera vedervi fuori dall’Istituto. Sostituita. — Ma è stato lui a mettermi qui — replicò Charlotte. — Mi ha sostenuta… — Perché vi credeva debole — disse Gabriel. — È convinto che le donne siano deboli e facilmente manipolabili, ma voi avete dimostrato di non esserlo, e questo ha mandato all’aria i suoi piani. Non desidera soltanto che veniate screditata; ne ha bisogno. Mi ha fatto capire piuttosto chiaramente che, se anche non avessi potuto scoprirvi davvero coinvolta in atti illeciti, mi accordava la libertà di inventare una menzogna capace di dimostrarvi colpevole. Purché fosse convincente. Charlotte strinse le labbra. — Allora non ha mai avuto fiducia in me — sussurrò. — Mai. — E invece avrebbe dovuto. — Henry serrò la presa sul braccio della moglie. — Ti ha sottovalutata, e questa non è una tragedia. Ma che tu abbia dimostrato di essere migliore, più astuta e più forte di quanto chiunque potesse aspettarsi, mia cara… è un trionfo. Charlotte deglutì. — Cosa devo fare? — Quello che reputi meglio, cara Charlotte — rispose il marito. Cecily si chiese, solo per un istante, che effetto facesse essere guardati come Henry guardava sua moglie… come se fosse un prodigio in terra. — Siete il capo dell’Enclave londinese, nonché dell’Istituto — disse Gabriel. — Noi abbiamo fede in voi, anche se il Console non ne ha. — Abbassò la testa. — Da oggi in poi avrete la mia lealtà, per quello che può valere. — Vale molto — disse Charlotte. E c’era qualcosa nella sua voce, un’autorità serena che fece venire voglia a Cecily di alzarsi e dichiarare anche la propria lealtà, solo per guadagnare il balsamo dell’approvazione di Charlotte. Cecily, si rese conto, non riusciva a immaginare di provare la stessa cosa per il Console. Ed è per questo che il Console la odia, pensò. Perché sa che, sebbene sia una donna, è in grado di ispirare

lealtà come a lui non è mai riuscito. — Procederemo come se il Console non esistesse — continuò Charlotte. — Se è deciso a destituirmi dalla mia carica, non ho nulla da perdere. Si tratta semplicemente di fare quanto dobbiamo, prima che abbia la possibilità di fermarci. Henry, tra quanto sarà pronta la tua invenzione? — Domani. Lavorerò tutta la notte… — Sarà la prima volta che verrà usata — osservò Gideon. — Non vi sembra un po’ rischioso? — Non abbiamo altro modo di raggiungere il Galles in tempo — disse Charlotte. — Una volta che avrò mandato il mio messaggio, avremo pochissimo tempo prima che il Console venga a sollevarmi dalla carica. — Quale messaggio? — chiese Cecily, confusa. — Manderò un messaggio a tutti i membri dell’Enclave — annunciò Charlotte. — Subito. Non solo all’Enclave londinese. A tutto l’Enclave. — Ma soltanto il Console è autorizzato… — cominciò Henry, quindi chiuse la bocca come se fosse una scatola. — Descriverò loro la situazione così com’è e chiederò il loro aiuto — continuò Charlotte. — Non so bene su quale risposta possiamo contare, ma certamente qualcuno si schiererà dalla nostra parte. — Io mi schiererò dalla vostra parte — annunciò Cecily. — Io farò lo stesso, naturalmente — disse Gabriel. Aveva un’espressione rassegnata, nervosa, pensierosa, determinata. A Cecily non era mai piaciuto così tanto. — E anch’io. — Gideon guardò il fratello. — Sebbene possa essere una missione suicida. Siamo solo sei, di cui una addestrata a malapena, contro chissà quali forze Mortmain metterà in campo. Cecily era combattuta tra il piacere di sentirsi annoverare tra loro e l’irritazione di sentirsi definire “addestrata a malapena”. — Può anche darsi che dalla vostra parte abbiate solo sei Cacciatori, ma avete almeno nove combattenti — disse la voce dolce di Sophie. — Anch’io sono addestrata, e mi piacerebbe combattere al vostro fianco. Lo stesso vale per Bridget e Cyril. Charlotte sembrava compiaciuta, e al tempo stesso allarmata. — Ma, Sophie, hai appena cominciato l’addestramento… — Sono stata addestrata più a lungo della signorina Herondale — replicò la cameriera. — Cecily è una Cacciatrice… — La signorina Collins ha un talento naturale — dichiarò Gideon, chiaramente combattuto. Non voleva Sophie nella battaglia, nel pericolo, ma non se la sentiva di mentire sulle sue capacità. — Dovrebbe essere autorizzata ad ascendere e a diventare una Cacciatrice. — Gideon… — cominciò Sophie, turbata. Ma Charlotte aveva già posato su di lei i penetranti occhi scuri. — È quello che vuoi, Sophie, cara? Ascendere? — È quello che… ho sempre voluto, signora Branwell, ma non se significasse dover lasciare il vostro servizio. Siete stata così gentile con me, non vorrei ripagarvi abbandonandovi… — Sciocchezze — tagliò corto Charlotte. — Posso trovare un’altra cameriera; non posso trovare un’altra Sophie. Se essere una Cacciatrice era quello che volevi, ragazza mia, avresti dovuto dirlo prima. Avrei potuto rivolgermi al Console prima di venire ai ferri corti con lui. Comunque sia, quando torneremo… Cecily intuì le parole non dette sotto quelle pronunciate: Se torneremo.

— Quando torneremo, ti proporrò per l’Ascensione — terminò Charlotte. — Anch’io parlerò in suo favore — disse Gideon. — Dopotutto, mi spetta il posto di mio padre nel Consiglio. I suoi amici mi daranno ascolto; devono ancora lealtà alla nostra famiglia. E poi in quale altro modo potremmo sposarci? — Cosa? — Sconcertato, con un impetuoso quanto involontario gesto della mano, Gabriel fece finire a terra un piatto che andò rumorosamente in frantumi. — Vuoi sposare uno dei membri del Consiglio amici di tuo padre? — fece Henry. — Quale di loro? Gideon era diventato di uno strano colore verdognolo; non avrebbe voluto chiaramente farsi sfuggire di bocca quelle parole, e ormai non sapeva più cosa fare. Fissava sgomento Sophie, che però non sembrava potergli essere di grande aiuto: la ragazza appariva sconvolta, come un pesce scaraventato inaspettatamente sulla terraferma. Cecily si alzò e lasciò cadere il tovagliolo sul piatto. — Benissimo — disse, facendo del suo meglio per imitare i toni autoritari usati da sua madre quando aveva bisogno che sbrigassero delle faccende in casa. — Tutti fuori dalla stanza. Charlotte, Henry e Gideon fecero per alzarsi. Cecily sollevò le mani. — Non voi, Gideon Lightwood. Diamine! Ma voi — indicò l’altro fratello. — Gabriel, smettetela di fare tanto d’occhi. E venite. — Prendendolo per la giacca lo trascinò quasi fuori della stanza, con Henry e Charlotte che li seguivano a fatica. Charlotte si avviò a grandi passi verso il soggiorno per scrivere il suo messaggio all’Enclave, come aveva annunciato, con Henry al suo fianco. Si fermò alla svolta del corridoio per gettare una veloce occhiata occhiata a Gabriel, con una piega divertita della bocca. Cecily premette l’orecchio contro la porta della sala da pranzo, cercando di sentire cosa vi avveniva. Gabriel, dopo una breve pausa, si appoggiò al muro accanto alla porta. Era pallido e rosso in eguale misura, con le pupille dilatate per la forte emozione. — Non dovreste farlo. Origliare è un comportamento molto scorretto, signorina Herondale. — È vostro fratello — sussurrò Cecily. Sentiva dei mormorii provenire dalla stanza, ma nulla di chiaro. — Penso che dovreste essere curioso. Gabriel si passò le mani tra i capelli e buttò fuori l’aria come qualcuno che abbia corso per una lunga distanza. Poi estrasse uno stilo dalla tasca del panciotto, si tracciò una runa sul polso e appoggiò il palmo contro la porta. — Se è per questo, lo sono. Lo sguardo di Cecily guizzò dalla sua mano all’espressione pensierosa sul suo viso. — Potete sentirli? Oh, non è affatto giusto! — È tutto molto romantico — disse Gabriel, poi aggrottò la fronte. — O meglio lo sarebbe, se mio fratello fosse capace di pronunciare una parola senza sembrare una rana che si strozza. Temo che questa non passerà alla storia come una delle più grandi dichiarazioni d’amore. Cecily incrociò le braccia, irritata. — Siete invidioso? O forse vi secca che vostro fratello desideri sposare una cameriera? L’espressione di Gabriel fece pentire Cecily di averlo stuzzicato dopo quello che aveva appena passato. — Nulla di quanto posso supporre che faccia potrebbe essere peggiore di quanto ha fatto mio padre. Almeno, i suoi gusti propendono per le donne umane.

Eppure era così difficile non stuzzicarlo, si disse Cecily. — Non è certo un grande apprezzamento per una donna in gamba come Sophie. Gabriel sembrò sul punto di replicare bruscamente, ma poi ci ripensò. — Non mi sono espresso bene. È una ragazza in gamba e, dopo l’Ascensione, sarà una Cacciatrice in gamba. Porterà onore alla nostra famiglia, e l’Angelo sa se ne abbiamo bisogno. — Credo che pure voi porterete onore alla vostra famiglia — disse Cecily. — Ciò che avete appena fatto, ciò che avete confessato a Charlotte… richiedeva coraggio. Gabriel rimase immobile per un istante. Poi allungò la mano verso la ragazza. — Stringete le mie dita. Potrete sentire cosa accade nella sala da pranzo, se lo desiderate. Dopo un attimo di esitazione Cecily, gli prese la mano, calda e ruvida nella sua. Sentiva il pulsare del sangue attraverso la pelle, stranamente confortante… e, attraverso Gabriel, come se avesse l’orecchio premuto contro la porta, sentì un borbottio sommesso: la voce smorzata ed esitante di Gideon, e quella delicata di Sophie. Chiuse gli occhi e ascoltò. — Oh… — fece Sophie con voce fievole, e si sedette. — Oh, Dio… — Si sentiva le gambe vacillanti, molli. Gideon stava in piedi accanto alla credenza, con aria terrorizzata. Aveva i capelli scompigliati, come se vi avesse appena passato le mani. — Mia cara signorina Collins… — Questo è… — cominciò Sophie, e si interruppe. — Io non… Questo è piuttosto inaspettato. — Davvero? — Gideon si allontanò dalla credenza e si appoggiò al tavolo; aveva i polsini della camicia arrotolati, e Sophie si sorprese a guardargli i polsi, ricoperti di sottili peli biondi e segnati da bianche tracce di marchi. — Vi sarete certamente accorta del rispetto e della stima che nutrivo per voi. Dell’ammirazione… — Ammirazione! — Sophie riuscì a farla suonare come un insulto. Gideon si fece paonazzo. — Mia cara signorina Collins… in realtà i miei sentimenti per voi vanno ben oltre l’ammirazione. Li descriverei come il più appassionato degli affetti. La vostra gentilezza, la vostra bellezza, il vostro cuore generoso… mi hanno assolutamente sconvolto, ed è soltanto a questo che posso attribuire il mio comportamento di stamattina. Non so cosa mi sia preso, a esprimere ad alta voce i desideri più cari al mio cuore. Vi prego di non sentirvi obbligata ad accettare la mia proposta soltanto perché è stata fatta pubblicamente. Qualunque imbarazzo al riguardo è e dovrebbe essere soltanto mio. Sophie alzò lo sguardo sul ragazzo. Il colore le affluiva e le defluiva dalle guance, rendendo evidente la sua agitazione. — Ma voi non avete fatto nessuna proposta. Gideon sembrò trasalire. — Davvero non…? — Non avete fatto nessuna proposta — ripeté Sophie. — Avete annunciato a tutti che intendevate sposarmi, ma questa non è una proposta di matrimonio. È solo una dichiarazione d’intenti. Sarebbe stata una proposta se me lo aveste chiesto! — Questo sì che significa mettere a posto mio fratello — disse Gabriel, apparentemente compiaciuto, come lo sono i fratelli minori quando i fratelli o le sorelle maggiori ricevono una lezione. — Ssst! — lo zittì Cecily, stringendogli forte la mano. — Fatemi sentire la sua replica. — Benissimo, allora — disse Gideon nel modo deciso, sebbene leggermente terrorizzato, di san Giorgio che si reca a combattere il drago. — Che proposta sia.

Gli occhi di Sophie lo seguirono mentre attraversava la stanza diretto verso di lei e si inginocchiava ai suoi piedi. La vita era una cosa incerta, si disse, e c’erano momenti che si desiderava ricordare, imprimersi nella mente affinché in seguito la memoria potesse tirarli fuori, come un fiore schiacciato tra le pagine di un libro, per contemplarli e rammentarli di nuovo. Sophie era certa che non avrebbe voluto dimenticare il modo in cui Gideon allungò la mano tremante verso la sua, o il modo in cui si morse il labbro prima di parlare. — Mia cara signorina Collins, vi prego di perdonare la mia uscita disdicevole. È solo che ho una stima… no, non una stima, un’adorazione così forte per voi da darmi l’impressione che essa debba esplodere in ogni istante del giorno. Dal momento in cui sono arrivato in questa casa sono stato colpito ogni giorno con maggior forza dalla vostra bellezza, dal vostro coraggio e dalla vostra nobiltà d’animo. Sarebbe un onore che non potrei mai meritare, ma al quale aspiro con tutto il mio cuore, se voi poteste essere mia… cioè, se acconsentiste a essere mia moglie. — Accidenti! — esclamò Sophie, privata di botto di tutta la sua compostezza. — L’avevate provata? Gideon sbatté le palpebre. — Vi assicuro che era assolutamente improvvisata. — Be’, è stata bellissima. — Sophie gli strinse le mani. — E… sì. Sì, ti amo, e… sì, ti sposerò, Gideon. Un sorriso radioso si aprì sul viso del Nephilim, che sorprese entrambi posando dolcemente le labbra su quelle di lei. Mentre si baciavano, Sophie gli tenne il viso tra le mani… lui sapeva leggermente di foglie di tè, le sue labbra erano morbide e il bacio dolcissimo. Sophie vi si abbandonò, in quell’attimo prezioso, sentendosi al sicuro da tutto il resto del mondo. Finché la voce di Bridget non irruppe nella sua felicità, fluttuando lugubre dalla cucina. Un martedì si sposarono e il venerdì erano già morti. E li seppellirono al camposanto l’uno accanto all’altra. Oh, amore mio… E li seppellirono al camposanto l’uno accanto all’altra. Allontanandosi piuttosto a malincuore da Gideon, Sophie si alzò e si spolverò il vestito. — Vi prego di perdonarmi, mio caro signor Lightwood – voglio dire, perdonami Gideon – ma devo andare ad ammazzare la cuoca. Sarò di ritorno tra un istante. — Oh… — sussurrò Cecily. — È stato così romantico! Gabriel allontanò la mano dalla porta e le sorrise. Il suo viso cambiava completamente quando sorrideva: tutte le linee marcate si addolcivano, gli occhi passavano dal color ghiaccio al verde del fogliame nel sole di primavera. — State piangendo, signorina Herondale? Cecily sbatté le ciglia bagnate, a un tratto consapevole che la sua mano era ancora in quella di Gabriel… sentiva ancora il lieve battito del polso di lui contro il proprio. Gabriel si chinò su di lei, e Cecily avvertì il suo odore: sapeva di prima mattina, di tè e sapone da barba… Si ritrasse in fretta, liberando la mano. — Grazie per avermi permesso di ascoltare — disse. — Ora devo… devo andare in biblioteca. Ho una cosa da sbrigare entro domani. Il viso di Gabriel si increspò, confuso. — Cecily…

Ma lei si stava già affrettando lungo il corridoio, senza guardarsi indietro. A Edmund e Branwen Herondale Ravenscar Manor West Riding, Yorkshire Cari mamma e papà, ho cominciato questa lettera per voi tante di quelle volte, e non l’ho mai spedita. All’inizio, per il senso di colpa. Sapevo di essere stata ostinata e disobbediente lasciandovi, e non potevo affrontare l’evidenza del mio errore nero su bianco. Poi, per la nostalgia di casa. Mi mancavate tanto entrambi. Mi mancavano le rigogliose colline verdi che si innalzano dolcemente dalle vicinanze del maniero, e l’erica purpurea d’estate, e la mamma che canta nel giardino. Qui faceva freddo, era tutto nero, marrone e grigio, nebbia da tagliare col coltello e aria soffocante. Pensavo di morire di solitudine, ma come potevo dirvelo? Dopotutto, era quello che avevo scelto. E poi, per il dolore. Avevo pensato di venire qui e portare via Will, fargli capire dov’era suo dovere stare e riportarlo a casa. Ma Will ha le sue idee sul dovere, e sull’onore, e sulle promesse che ha fatto. E alla fine mi sono resa conto che non potevo portare qualcuno a casa, se già c’era. E non sapevo come dirvelo. E poi, per la felicità. Potrà sembrarvi molto strano, come lo è sembrato a me, il fatto che non potessi tornare a casa perché avevo trovato un motivo di gioia. Quando mi allenavo come Cacciatrice sentivo ribollirmi il sangue, così come diceva di sentirlo ribollire la mamma ogni volta che, lasciando Welshpool, arrivavamo in vista della valle del Dyfi. Con una lama angelica in mano sono più che la semplice Cecily Herondale, la più giovane di tre fratelli, figlia di bravi genitori, destinata un giorno a fare un matrimonio vantaggioso e a mettere al mondo dei marmocchi. Sono Cecily Herondale, Cacciatrice, e la mia è una posizione elevata e gloriosa. Gloria. Che parola strana, qualcosa che si suppone le donne non desiderino, ma la nostra regina non è forse trionfante? E la regina Bess * non veniva forse chiamata Gloriana? Ma come potevo dirvi di avere scelto la gloria piuttosto che la pace? La pace conquistata a caro prezzo che grazie a voi mi è stata concessa dall’Enclave? Come potevo dirvi che ero felice di essere una Cacciatrice senza causarvi, così facendo, la più profonda infelicità? Questa è la vita a cui voi avete voltato le spalle, la vita dai cui pericoli avete cercato di tenere al riparo Will, Ella e me. Cosa potevo dirvi che non vi spezzasse il cuore? E ora… ora per la consapevolezza. Ho finito per capire cosa significhi amare qualcuno più di se stessi. Ora capisco che tutto quanto avete mai voluto non era che fossi come voi, ma che fossi felice. E voi mi avete dato – ci avete dato – una scelta. Vedo coloro che sono cresciuti nell’Enclave e che non hanno mai potuto scegliere ciò che volevano essere, e vi sono grata per quanto avete fatto. Avere scelto questa vita è una cosa molto diversa dall’esservi nata. Me l’ha insegnato la vita di Jessamine Lovelace. Quanto a Will e al riportarlo a casa: lo so, mamma, tu temevi che i Cacciatori avrebbero tolto tutto l’amore al vostro dolce figlio. Ma Will è amato e ama. Non è cambiato. E vi ama, come vi amo io. Ricordatevi di me, perché io mi ricorderò sempre di voi. La vostra affezionata figlia,

Cecily Ai Membri dell’Enclave dei Nephilim Da Charlotte Branwell Miei cari compagni e compagne d’armi, è con tristezza che mi vedo costretta a comunicare a tutti voi che, sebbene gli abbia presentato prove incontrovertibili fornite da uno dei miei Cacciatori che Mortmain, la più grave minaccia che i Nephilim abbiano affrontato nella nostra epoca, si trovi nella montagna del Cadair Idris in Galles, il nostro stimato Console Wayland ha misteriosamente deciso di ignorare tale informazione. Quanto a me, ritengo della massima importanza la conoscenza dell’ubicazione del nostro nemico e l’opportunità di mandare in fumo i suoi piani per distruggerci. Grazie ai mezzi fornitimi da mio marito, il noto inventore Henry Branwell, i Cacciatori a mia disposizione nell’Istituto di Londra si recheranno con la massima celerità sul Cadair Idris, dove siamo pronti a dare la vita nel tentativo di fermare Mortmain. Mi rincresce molto lasciare l’Istituto indifeso, ma semmai si possa indurre il Console Wayland a intraprendere una qualche iniziativa, è pregato di mandare guardie a presidiare l’edificio deserto. Siamo solo in nove, e tre di noi non sono neppure Cacciatori, ma mondani coraggiosi che abbiamo addestrato qui all’Istituto e che si sono offerti di combattere al nostro fianco. Non posso dire che al momento le nostre speranze siano alte, ma credo che un tentativo vada fatto. Naturalmente non posso costringere nessuno di voi. Come mi è stato ricordato dal Console Wayland, non sono nella posizione di comandare le forze dei Cacciatori, ma sarei estremamente obbligata a quelli di voi che, come me, sono convinti che Mortmain vada combattuto, e combattuto ora, se venissero all’Istituto di Londra domani a mezzogiorno e ci prestassero aiuto. Sinceramente vostra, Charlotte Branwell, capo dell’Istituto di Londra

*

Elisabetta I d’Inghilterra (1533-1603) veniva chiamata “Good Queen Bess” o anche “Gloriana”.

18 SOLO PER QUESTO

Solo per questo sulla Morte sfogo La rabbia che è raccolta nel mio cuore: Ha allontanato le nostre vite al punto Che non possiamo udirci quando ci parliamo. Alfred, Lord Tennyson, In memoriam A.H.H.

Tessa si trovava sull’orlo di un precipizio, in un paese che non conosceva. Le colline intorno erano verdi, e digradavano bruscamente in scogliere che scendevano a strapiombo su un mare blu. Gli uccelli marini roteavano e gridavano sopra di lei. Un sentiero grigio serpeggiava lungo il bordo della scogliera. Proprio sopra di lei, sul sentiero, c’era Will. Indossava la tenuta da combattimento nera, con sopra un lungo cappotto da cavallo dall’orlo macchiato di fango, come se avesse camminato per un lungo tratto. Era senza cappello e senza guanti, e i suoi capelli erano scompigliati dal vento che soffiava dal mare. Il vento sollevava anche i capelli di Tessa, portando l’odore del sale e dell’acqua salmastra, delle cose bagnate che crescono in prossimità del mare, un odore che le ricordava il viaggio a bordo del Main. — Will! — chiamò. C’era qualcosa di solitario nella sua figura, ricordava Tristano che scrutava il Mare d’Irlanda in attesa della nave che gli avrebbe riportato Isotta. Will non si voltò, si limitò ad alzare le braccia, e il cappotto si sollevò nel vento, svolazzando alle sue spalle come un paio di ali. La paura le montò nel cuore. Isotta era tornata da Tristano, ma troppo tardi. Lui era morto di dolore. — Will! — chiamò di nuovo. Will fece un passo avanti e cadde dalla scogliera. Tessa corse verso l’orlo del precipizio e guardò in basso, ma laggiù non c’era niente, solo acqua che si agitava e spuma bianca. La marea sembrava portarle la voce di Will a ogni ondata: — Svegliati, Tessa. Svegliati. — Svegliatevi, signorina Gray. Signorina Gray! Tessa scattò su. Si era addormentata sulla sedia accanto al caminetto della piccola prigione; era avvolta in una ruvida coperta azzurra, sebbene non ricordasse di essersela messa. La stanza era illuminata dalla luce delle torce, il fuoco era basso. Impossibile dire se fosse giorno o notte. Mortmain le stava di fronte affiancato da un automa, uno tra i più umanoidi che Tessa avesse mai

visto: era perfino vestito, come pochi degli altri, e indossava giubba e pantaloni militari. Gli abiti facevano sembrare la testa che spuntava dal colletto rigido ancora più inquietante, con i lineamenti troppo lisci e il cranio metallico calvo. E gli occhi… Tessa sapeva che erano di vetro e cristallo, con le iridi rosse alla luce del fuoco, ma il modo in cui sembravano fissarla… — Avete freddo — disse Mortmain. Tessa espirò, e l’alito le uscì in una nuvoletta bianca. — Il calore della vostra ospitalità lascia alquanto a desiderare. Le labbra sottili di Mortmain si piegarono in un sorriso. — Molto divertente. — Indossava un pesante cappotto di astrakan sopra un vestito grigio, da perfetto uomo d’affari. — Signorina Gray, non vi sveglio senza motivo. Sono venuto perché desidero che vediate cosa ho potuto realizzare grazie al gentile aiuto che mi avete fornito nel recuperare i ricordi di mio padre. — Indicò con aria fiera l’automa al suo fianco. — Un altro automa? — chiese Tessa, senza interesse. — Sono un vero maleducato. — Gli occhi di Mortmain guizzarono verso la creatura. — Presentati. La bocca dell’automa si aprì; Tessa scorse un balenio d’ottone. La cosa parlò. — Sono Armaros. Per un miliardo di anni ho cavalcato i venti nei grandi abissi tra i mondi. Ho combattuto contro il Cacciatore Jonathan sulle pianure di Brocelind. Per altri mille anni sono rimasto intrappolato nella Pyxis. Ora il mio padrone mi ha liberato, e io lo servo. Tessa si alzò, e la coperta scivolò a terra, senza che lei se ne curasse. La creatura la guardava con occhi pieni di una cupa intelligenza, una consapevolezza che nessun automa, tra quelli già visti in passato, aveva mai posseduto. — Che cos’è? — domandò in un sussurro. — Un corpo d’automa animato da uno spirito demoniaco. I Nascosti hanno già i loro metodi per catturare energie demoniache e usarle. Io stesso me ne sono servito per alimentare gli automi che avete visto finora. Ma Armaros e i suoi fratelli sono differenti. Sono demoni con un carapace da automa. Possono pensare e ragionare. Non è facile metterli nel sacco. E sono molto difficili da uccidere. Armaros mosse un braccio davanti al corpo; sfoderò la spada che gli pendeva dal fianco e la porse a Mortmain. Tessa non poté fare a meno di notare che si muoveva con fluidità, agilmente, senza gli scatti degli automi che aveva visto fino ad allora. Si muoveva come una persona. La lama era ricoperta dalle rune che negli ultimi mesi erano diventate tanto familiari a Tessa, le rune che decoravano le lame di tutte le armi dei Cacciatori, rune micidiali per i demoni. Armaros avrebbe dovuto essere a malapena capace di guardare la lama, figurarsi toccarla. Le si serrò lo stomaco. Il demone porse la spada a Mortmain, che la maneggiò con la precisione di un ufficiale di marina di lungo corso. Fece roteare la lama, la spinse rapidamente in avanti e la conficcò nel petto del demone. Ci fu un rumore di metallo che si lacerava. Tessa era abituata a vedere gli automi accasciarsi, quando venivano attaccati, o schizzare liquido nero, o barcollare. Ma Armaros resistette al colpo, senza sbattere gli occhi e senza muoversi, come una lucertola al sole. Mortmain rigirò selvaggiamente l’elsa, quindi ritirò l’arma con uno strattone. La lama si sbriciolò, come un ciocco consumato dal fuoco. — Come potete vedere, sono un esercito progettato per distruggere i Cacciatori. — Hanno distrutto tanti della mia razza. Sarà un piacere ucciderli tutti — disse Armaros, con un

sorriso. Era l’unico automa che Tessa avesse mai visto sorridere; non sapeva neppure che le loro facce fossero state costruite in modo da poter compiere quell’azione. Deglutì a fatica, sconcertata, ma cercò di non darlo a vedere al Magister. Lo sguardo di Mortmain guizzava avanti e indietro da lei all’automa demoniaco, e le era difficile dire su chi dei due gli facesse più piacere posare gli occhi. Avrebbe voluto gridare, gettarsi contro di lui e graffiargli il viso. Ma la parete invisibile si levava tra loro, scintillando leggermente, e Tessa sapeva di non potervi aprire una breccia. “Oh, voi siete destinata a essere ben più che la sua sposa, signorina Gray” aveva detto la signora Black. “Siete destinata a essere la rovina dei Nephilim. È per questo che siete stata creata.” — Non sarà tanto facile distruggere i Cacciatori — disse. — Li ho visti fare a pezzi i vostri automi. Forse questi non potranno essere abbattuti dalle loro armi munite di rune, ma qualsiasi spada è capace di tranciare il metallo e tagliare il fil di ferro. Mortmain scrollò le spalle. — I Cacciatori non sono abituati a combattere contro creature per cui le loro armi munite di rune risultino inutili. Questo li rallenterà. E poi gli automi demoniaci sono un’infinità. Sarà come provare a respingere la marea. — Il Magister annuì. — Vedete, ora, il genio di ciò che ho inventato? Ma devo ringraziare voi, signorina Gray, per l’ultimo pezzo del puzzle. Pensavo che forse perfino voi avreste potuto essere… piena di ammirazione… per quanto abbiamo creato insieme. Piena di ammirazione? Tessa scrutò per un attimo negli occhi dell’uomo, cercandovi dell’ironia, ma vi trovò invece una domanda sincera, la curiosità mescolata alla freddezza. Pensò a quanto tempo doveva essere passato dall’ultima volta che Mortmain aveva ricevuto una lode da un altro essere umano, e fece un profondo respiro. — Siete ovviamente un grande inventore — disse. Mortmain sorrise compiaciuto. Tessa era consapevole dello sguardo del demone meccanico su di lei, della sua tensione e prontezza, ma era ancora più consapevole del Magister. Il cuore le batteva all’impazzata nel petto. Aveva l’impressione di trovarsi in equilibrio, come nel sogno, sull’orlo di un precipizio. Parlare così a Mortmain era rischioso, sarebbe caduta o volata via. Ma doveva correre il rischio. — Capisco perché mi avete portata qui. E non è solo per i segreti di vostro padre. Negli occhi di Mortmain c’era rabbia, ma anche una certa dose di confusione: la ragazza non si stava comportando come lui si era aspettato che facesse. — Che volete dire? — Siete solo. Vi siete circondato di creature che non sono reali, che non vivono. Noi vediamo la nostra anima negli occhi degli altri. Quanto tempo è passato da quando avete visto la vostra? Mortmain socchiuse gli occhi. — Avevo un’anima. È stata bruciata da ciò a cui ho dedicato la mia vita: la ricerca di giustizia e risarcimento. — Non cercate vendetta chiamandola giustizia! Il demone emise una risatina sommessa, ma priva di disprezzo, come se stesse osservando i giochi di un gattino. — Permettete che vi parli così, padrone? Se volete, posso tagliarle la lingua, zittirla per sempre. — Non servirebbe a nulla mutilarla. Ha poteri di cui tu non sei a conoscenza — replicò Mortmain, con gli occhi sempre fissi su Tessa. — C’è un vecchio detto in Cina… forse il vostro amato fidanzato ve lo ha fatto conoscere: «Un uomo non può vivere sotto lo stesso cielo dell’assassino di suo padre.» Io cancellerò i Cacciatori da sotto il cielo; non vivranno più su questa terra. Non cercate di fare

appello al mio lato migliore, Tessa, perché non ce l’ho. La ragazza non poté farne a meno… pensò al Racconto di due città, a Lucie Manette che fa appello al lato migliore di Sydney Carton. Aveva sempre pensato a Will come a Sydney, consumato dal peccato e dalla disperazione contro la propria stessa coscienza, perfino contro il proprio stesso desiderio. Ma Will era un uomo buono, molto migliore di quanto Carton fosse mai stato. E Mortmain era a malapena un uomo. Non era al suo lato migliore che Tessa faceva appello, ma alla sua vanità: tutti gli uomini si credevano buoni, in fondo. Nessuno si credeva malvagio. — Non è sicuramente così… potreste sicuramente tornare a essere degno e buono. Avete fatto quanto vi eravate proposto. Avete dato vita e intelligenza a questi vostri… Congegni Infernali. Avete creato ciò che potrebbe distruggere i Cacciatori. Per tutta la vita avete cercato giustizia, perché credevate che i Cacciatori fossero corrotti e malvagi. Ora, se fermerete la vostra mano, otterrete la vittoria più grande. Vi dimostrerete migliore di loro. Il viso di Mortmain sembrava mostrare esitazione. Le labbra sottili avevano un lieve tremito? C’era la tensione del dubbio nelle sue spalle? La bocca di Mortmain si piegò in un leggero sorriso. — Allora pensate che potrei essere un uomo migliore? E se facessi come dite voi, se fermassi la mia mano, vorreste farmi credere che rimarreste con me per l’ammirazione che avreste nei miei confronti, che non tornereste dai Cacciatori? — Oh, sì, signor Mortmain. Lo giuro. — Tessa deglutì a fatica per l’amaro che aveva in gola. Se avesse dovuto rimanere con Mortmain per salvare Will e Jem, per salvare Charlotte e Henry e Sophie, l’avrebbe fatto. — Credo che voi possiate ricongiungervi alla parte migliore del vostro animo; tutti noi possiamo farlo. Le labbra del Magister si curvarono ancora di più verso l’alto. — È già pomeriggio, signorina Gray. Non ho voluto svegliarvi prima. Ora verrete con me fuori dalla montagna. Verrete a vedere il lavoro di questa giornata, perché c’è qualcosa che voglio mostrarvi. Un dito di ghiaccio sfiorò la spina dorsale di Tessa. — E che cos’è? Il sorriso si allargò sul viso di Mortmain. — Ciò che stavo aspettando. Al Console Josiah Wayland Dall’Inquisitore Victor Whitelaw Josiah, perdonate il carattere informale, ma scrivo di fretta. Sono certo che questa non sarà l’unica lettera che riceverete sull’argomento; in effetti, probabilmente non sarà neppure la prima. Io stesso ne ho ricevute parecchie. Ognuna contiene la stessa domanda che mi brucia nella mente: le informazioni di Charlotte Branwell sono veritiere? Perché, in tal caso, mi sembra che ci siano buone probabilità che il Magister sia davvero in Galles. Sono al corrente dei vostri dubbi sull’attendibilità di William Herondale, ma tutti e due abbiamo conosciuto suo padre. Un’anima impetuosa ed eccessivamente governata dalle passioni, ma non si poteva trovare uomo più onesto. Io non credo che il giovane Herondale sia un bugiardo. In ogni caso, in conseguenza del messaggio di Charlotte, l’Enclave è nel caos. Insisto perché si tenga all’istante una riunione del Consiglio. In caso contrario, la fiducia dei Cacciatori nel loro Console e nel loro Inquisitore sarà irrevocabilmente distrutta. Lascio a voi il compito di annunciare la riunione, ma la mia non è una richiesta. Emanate la convocazione del Consiglio, o rassegnerò le mie dimissioni e renderò noto perché lo faccio.

Victor Whitelaw Will fu svegliato dalle urla. Gli anni di addestramento si fecero sentire all’istante: si ritrovò accovacciato sul pavimento ancor prima di essere ben sveglio. Guardandosi intorno vide che la stanzetta della locanda era vuota, e che i mobili – un piccolo letto e un semplice tavolo in legno di abete appena visibili nell’ombra – erano intatti. Le urla si ripeterono, più forti. Venivano dall’esterno. Will si alzò, attraversò la stanza senza fare rumore e tirò una delle tende della finestra per guardare fuori. Ricordava appena di essere entrato in città a piedi, tirandosi dietro Balios che, stanco com’era, si era trascinato lentamente facendo risuonare gli zoccoli sul terreno. Una piccola città del Galles come tante altre, senza nulla di particolare. Aveva trovato facilmente la locanda del luogo e affidato Balios alle cure del garzone di stalla, ordinando che venisse strigliato e che gli fosse dato un pastone di crusca caldo per rinvigorirlo. Il fatto che parlasse gallese aveva tranquillizzato il locandiere, ed era stato subito condotto in una stanza singola, dove era crollato quasi immediatamente sul letto, sprofondando in un sonno senza sogni. La luna splendeva in cielo, la sua posizione indicava che non era ancora tarda sera. Una foschia grigia sembrava librarsi sulla città. Per un momento Will pensò che fosse nebbia; poi, dall’odore, si rese conto che era fumo. Chiazze rosso vermiglio divampavano tra le case. Socchiuse gli occhi. C’erano sagome che correvano avanti e indietro tra le ombre. Altre urla… balenii che non potevano essere altro che lame… In meno di un secondo fu fuori della porta, con gli stivali ancora slacciati, la lama angelica in pugno. Corse giù dalle scale e si ritrovò nella sala principale della locanda. Era buio e faceva freddo… il fuoco era spento, e parecchie delle finestre erano state sfondate, lasciando penetrare la gelida aria notturna. I vetri ricoprivano il pavimento come frammenti di ghiaccio. La porta, spalancata, penzolava dai cardini, come se qualcuno avesse provato a strappare via il battente. Will scivolò fuori e girò intorno alla locanda, diretto alla stalla. Lì l’odore del fumo era più denso. Quasi inciampò in una figura accasciata a terra: era il garzone di stalla, con la gola tagliata; il suolo sotto di lui era una poltiglia impregnata di sangue e terriccio. Aveva gli occhi aperti, fissi, la pelle già fredda. Will ingoiò la bile e si raddrizzò. Andò meccanicamente verso la stalla, esaminando freneticamente le varie possibilità. Un attacco di demoni? O era finito nel bel mezzo di qualcosa che non aveva nulla di soprannaturale, una faida tra gli abitanti della città? Nessuno sembrava cercare lui in particolare. Sentì i nitriti agitati di Balios. La stalla sembrava intatta, dal soffitto di intonaco al pavimento di ciottoli solcato da canaletti di scolo. Quella notte non c’erano altri cavalli, e fu una fortuna, perché nell’attimo in cui il ragazzo aprì la porta, Balios si precipitò fuori, quasi travolgendolo. Will fece appena in tempo a schizzare via mentre il cavallo gli sfrecciava accanto. — Balios! — Imprecando, il Nephilim gli corse appresso, raggiungendo la strada principale della città. Si fermò di colpo, davanti al caos. I corpi giacevano afflosciati, gettati ai lati della via come immondizia. Le case avevano le porte scardinate, le finestre spaccate. La gente correva scompostamente dentro e fuori, tra le ombre,

gridando. Molte case erano state incendiate. Mentre osservava inorridito, Will vide una famiglia precipitarsi fuori della porta di un’abitazione in fiamme: il padre, in camicia da notte, tossiva nel fumo, seguito da una donna che teneva per mano una bambina. Avevano fatto appena in tempo a uscire in strada barcollando, che alcune sagome emersero dall’ombra. La luce della luna scintillò sul metallo. Automi. Avanzavano con movimenti fluidi, senza ondeggiamenti o scatti. Indossavano un assortimento eterogeneo di uniformi militari, alcune a lui note, altre no. Ma le facce erano di nudo metallo, così come le mani, che serravano spade dalle lunghe lame. Erano in tre; uno, in una lacera giubba militare rossa, avanzò, ridendo – ridendo? – mentre il padre di famiglia cercava di spingere la moglie e la figlia dietro di sé, inciampando sui ciottoli insanguinati. Fu tutto finito nel giro di pochi istanti, talmente in fretta che nemmeno Will fece in tempo ad agire. Le lame balenarono, e altri tre corpi si unirono ai mucchi di cadaveri nelle strade. — Ecco fatto — disse l’automa dalla giubba strappata. — Bruciare le loro case e snidarli con il fuoco, come ratti. Ucciderli mentre fuggono… — Alzò la testa, e sembrò scorgere il Nephilim. Perfino attraverso lo spazio che li separava, Will percepì la forza di quello sguardo. Sollevò la lama angelica. — Nakir! Il guizzo della lama divampò illuminando la strada, un raggio di luce bianca in mezzo al rosso delle fiamme. Attraverso il sangue e il fuoco, Will vide l’automa in giubba rossa avanzare a grandi passi verso di lui. Stringeva nella sinistra una spada a due mani. La mano era di metallo, con giunture, snodata; si piegava intorno all’elsa come una mano umana. — Nephilim — disse la creatura, fermandosi a meno di mezzo metro da Will. — Non ci aspettavamo di trovare qualcuno della tua razza. — Questo era chiaro. — Will fece un passo avanti e conficcò la lama angelica nel petto dell’automa. Ci fu un lieve sfrigolio, come bacon a friggere in padella. Nakir si ridusse in cenere, lasciando la mano di Will a stringere un’elsa senza lama. L’automa ridacchiò e sollevò lo sguardo sul Nephilim. I suoi occhi crepitavano di vita e intelligenza, e Will capì, con un tuffo al cuore, che stava guardando qualcosa che non aveva mai visto prima: non solo una creatura capace di ridurre in cenere una lama angelica, ma anche un tipo di macchina dotata di volontà, abilità e strategia a sufficienza da incendiare un intero villaggio per ucciderne gli abitanti mentre fuggivano. — Ora capisci, Nephilim — disse il demone meccanico. — In tutti questi anni ci avete scacciati da questo mondo, con le vostre lame munite di rune. Ora abbiamo corpi su cui le vostre armi non hanno effetto, e questo mondo sarà nostro. Will trattenne il fiato mentre il demone sollevava la spada a due mani. Fece un passo indietro. La spada si alzò e ricadde. Will la schivò, e in quell’istante qualcosa gli sfrecciò accanto nella strada, qualcosa di grande e nero che si impennò e spinse di lato l’automa. Balios. Will sollevò le mani, cercando a tastoni la criniera del cavallo. Il demone scattò su dal fango e balzò verso di lui facendo balenare la lama, proprio mentre Balios si lanciava in avanti e il Cacciatore gli saliva in groppa al volo. Sfrecciarono insieme lungo la strada di ciottoli, Will rannicchiato su Balios, con il vento che gli si

infilava tra i capelli e gli asciugava il viso bagnato… non sapeva se di sangue o di lacrime. Tessa sedeva sul pavimento della sua stanza nella fortezza di Mortmain, fissando con aria stordita il fuoco. Le fiamme giocavano sulle sue mani, macchiate di sangue, e sul vestito blu, ugualmente lordo. Non sapeva quando fosse successo; aveva il polso graffiato, e ricordava vagamente che un automa glielo aveva afferrato, lacerandole la pelle con le aguzze dita metalliche mentre lei cercava di divincolarsi. Non poteva sgombrare la mente dalle immagini che la dominavano… i ricordi della distruzione del villaggio nella valle. Vi era stata condotta con una benda sugli occhi, trasportata dagli automi, quindi era stata scaricata senza tante cerimonie su un affioramento di roccia che dava direttamente sulla città. — Guardate — aveva detto Mortmain senza rivolgerle neppure un’occhiata, limitandosi a gongolare. — Guardate, signorina Gray, e poi venitemi pure a parlare di redenzione. Tessa era rimasta lì, sotto la custodia di un automa che la bloccava da dietro e le premeva una mano sulla bocca, mentre Mortmain le sussurrava sottovoce le cose che le avrebbe fatto se avesse osato distogliere lo sguardo dal villaggio. Aveva guardato impotente gli automi marciare sulla città, trucidare uomini e donne innocenti nelle strade. La luna si era levata velata di rosso mentre l’esercito meccanico incendiava metodicamente una casa dopo l’altra, massacrando le famiglie che se ne riversavano fuori in preda alla confusione e al terrore. E Mortmain aveva riso. — Finalmente ve ne rendete conto. Queste creature, queste mie creazioni, sono capaci di pensare, ragionare ed elaborare una strategia. Come gli umani. Però sono indistruttibili. Guardate laggiù, quell’idiota con il fucile. Tessa non avrebbe voluto guardare, ma non aveva scelta. Aveva osservato, sconvolta, una figura lontana alzare un fucile per difendersi. I colpi avevano ricacciato indietro alcuni automi, ma senza neutralizzarli. Avevano continuato ad avvicinarsi all’uomo, facendogli cadere il fucile di mano e spingendolo lungo la strada. E poi lo avevano fatto a pezzi. — Demoni — aveva mormorato Mortmain. — Sono selvaggi e amano distruggere. — Vi prego — aveva detto Tessa, con voce strozzata. — Vi prego, basta. Basta! Farò tutto quello che desiderate, ma vi prego, risparmiate il villaggio. Mortmain aveva fatto una risatina secca. — Le creature meccaniche non hanno cuore, signorina Gray. Non hanno più pietà di quanta ne abbiano il fuoco o l’acqua. Tanto varrebbe che supplicaste un’inondazione o un incendio boschivo di porre fine alla loro distruzione. — Non sto supplicando loro — aveva detto Tessa mentre, con la coda dell’occhio vedeva un cavallo nero correre per le strade del villaggio con un cavaliere in groppa. Aveva pregato che si trattasse di qualcuno che era riuscito a sfuggire alla carneficina. — Sto supplicando voi. Mortmain aveva rivolto i suoi occhi gelidi su di lei, ed erano apparsi vuoti come il cielo. — Neppure nel mio cuore c’è pietà. Prima avete fatto noiosamente appello alla parte migliore del mio animo. Vi ho portata qui per dimostrarvi la futilità di una simile azione. Io non ho una parte migliore a cui fare appello; è stata bruciata tanti anni fa. — Ma ho fatto quanto avete chiesto — aveva replicato Tessa, in tono disperato. — Non c’è alcun bisogno di questo, non per me… — Non è per voi — aveva detto Mortmain, distogliendo lo sguardo. — Gli automi dovevano essere collaudati prima di venire mandati in battaglia. È semplice scienza. Ora sono provvisti di

intelligenza, di strategia. Nulla può resistere loro. — Allora vi si rivolteranno. — No. Le loro vite sono legate alla mia. Se muoio, verranno distrutti. Se vogliono durare, devono proteggermi. — L’espressione del Magister era fredda e assente. — Basta. Vi ho portata qui per dimostrarvi che sono quello che sono, e voi lo accetterete. Il vostro angelo meccanico protegge la vostra vita, ma le vite di altri innocenti sono nelle mie mani… nelle vostre mani. Non mettetemi alla prova, e non ci sarà un altro villaggio come questo. Non voglio sentire altre noiose proteste. Il vostro angelo meccanico protegge la vostra vita. Tessa alzò la mano verso il ciondolo e sentì il ticchettio familiare sotto le dita. Chiuse gli occhi, ma immagini terribili si animarono dietro le palpebre. Nella mente vide i Nephilim spinti dagli automi, come lo erano stati gli abitanti del villaggio, Jem fatto a pezzi dai mostri meccanici, Will trafitto da lame metalliche, Henry e Charlotte che bruciavano… La mano si serrò furiosamente sull’angelo e lo strappò via, gettandolo sullo scabro pavimento di pietra proprio mentre un ciocco cadeva nel fuoco, provocando una crepitante colonna di scintille. Alla loro luce Tessa vide il palmo della mano sinistra, vide la lieve cicatrice della bruciatura che si era procurata il giorno in cui aveva detto a Will che si era fidanzata con Jem. Come aveva fatto allora, la sua mano si avvicinò all’attizzatoio. Lo sollevò, soppesandolo. Le fiamme erano diventate più alte. Vedendo il mondo attraverso una foschia dorata, Tessa sollevò l’attizzatoio e lo calò sull’angelo meccanico. Pur essendo di ferro, l’attizzatoio esplose in polvere di metallo, un nugolo di filamenti scintillanti che si depositarono lievemente sul pavimento, ricoprendo la superficie dell’angelo meccanico, che giaceva a terra davanti alle ginocchia di Tessa, perfettamente intatto. E poi l’angelo cominciò a muoversi e a cambiare. Le ali tremarono e le palpebre chiuse si aprirono, rivelando frammenti di quarzo biancastro. Se ne riversarono raggi di luce anch’essa biancastra. Come nei dipinti raffiguranti la stella sopra Betlemme, il chiarore aumentò sempre di più, irradiando lame di luce che cominciò lentamente a fondersi in una forma… la forma di un angelo. Era una macchia sfavillante di luce talmente viva che era difficile guardarla direttamente. Tessa vi scorse il vago contorno di qualcosa che ricordava un uomo. Scorse occhi privi di iride o pupilla… frammenti di cristallo incastonato che brillavano alla fiamme del camino. Le ali dell’angelo erano ampie, si allargavano dalle spalle, e ogni piuma aveva l’estremità ricoperta di metallo scintillante. Le mani erano unite sull’elsa di un’elegante spada. I vacui occhi sfavillanti erano posati sulla ragazza. Perché provi a distruggermi? Aveva una voce dolce, echeggiava nella mente di Tessa come musica. Io ti proteggo. Tessa pensò immediatamente a Jem appoggiato ai cuscini del letto, con il viso pallido e splendente. La vita è più che vivere. — Non sei tu che cerco di distruggere, ma me stessa. Ma perché dovresti farlo? La vita è un dono. — Cerco di fare la cosa giusta. Mantenendomi in vita, tu fai sì che esista un grande male. Male. La voce dell’angelo era pensierosa. Sono stato così tanto tempo nella mia prigione meccanica da aver dimenticato il bene e il male. — Prigione meccanica? — sussurrò Tessa. — Ma si può imprigionare un angelo? Fu John Thaddeus Shade a imprigionarmi. Catturò la mia anima con un incantesimo e la intrappolò in questo corpo meccanico. — Come la Pyxis… Solo che intrappolò un angelo invece di un demone.

Io sono un angelo del divino, disse la creatura, librandosi davanti alla ragazza. Sono fratello di Sijil, Kurabi e Zurah, dei Fravashi e dei Dakini. — È questa la tua vera forma? È questo il tuo aspetto? Tu vedi solo una frazione di ciò che sono. Nella mia vera forma sono gloria letale. Mia era la libertà del Cielo, prima che fossi intrappolato e legato a te. — Mi dispiace — sussurrò Tessa. Non sei tu quella da rimproverare. Non sei stata tu a imprigionarmi. I nostri spiriti sono legati, è vero, ma anche mentre ti proteggevo nell’utero sapevo che eri senza colpa. — Il mio angelo custode… Pochi possono reclamare un singolo angelo che vegli su di loro. Tu puoi. — Io non voglio reclamarti — disse Tessa. — Voglio morire alle mie condizioni, non essere costretta a vivere a quelle di Mortmain. Non posso lasciare che tu muoia. La voce dell’angelo era piena di dolore. È il mio compito. A Tessa ricordò il violino di Jem, che dava voce alla musica del cuore. La luce del fuoco passava attraverso l’angelo come la luce del sole attraverso il cristallo, gettando un tripudio di colore contro le pareti della caverna. Quello non era un orribile aggeggio: era bontà, piegata e sottomessa alla volontà di Mortmain, ma nella sua natura divina. — Quando eri un angelo, qual era il tuo nome? Il mio nome era Ithuriel. — Ithuriel… — sussurrò Tessa, e allungò la mano verso di lui, come se potesse toccarlo, confortarlo in qualche modo. Ma le dita incontrarono soltanto aria vuota. L’angelo scintillò e scomparve, lasciando solo un balenio, un’esplosione di stelle contro la parte interna delle pupille di Tessa. Fu assalita da un’ondata di freddo e si raddrizzò di scatto, spalancando gli occhi. Era stesa a metà sul gelido pavimento di pietra davanti al fuoco quasi consumato. La stanza era buia, illuminata appena dalle braci rossastre nel focolare. L’attizzatoio era dov’era stato prima. Portò la mano al collo… e vi trovò l’angelo meccanico. Un sogno. Tessa ebbe un tuffo al cuore. Era stato tutto un sogno. Non c’era stato nessun angelo a inondarla della sua luce. C’era solo quella stanza fredda, l’oscurità che la invadeva e l’angelo meccanico che scandiva regolarmente i minuti sino alla fine di tutto quanto c’era al mondo. Will era in cima al Cadair Idris, con in mano le redini del cavallo. Mentre cavalcava verso Dolgellau, aveva visto la parete massiccia del Cadair Idris torreggiare sopra l’estuario del Mawddach, ed era rimasto senza fiato. Finalmente era arrivato. Aveva già scalato la montagna, da bambino, con suo padre, e quei ricordi lo accompagnarono mentre lasciava la strada di Dinas Mawddwy; galoppava verso la montagna in groppa a Balios, che sembrava fuggire ancora dalle fiamme del villaggio che si erano lasciati alle spalle. Avevano proseguito attraverso un laghetto invaso dalle erbacce – da una parte si vedeva il mare argenteo, dall’altra la cima dello Snowdown – fino alla valle del Nant Cadair. Il villaggio di Dolgellau sotto di loro, dove di quando in quando si accendeva una luce, era una bella vista, ma Will non contemplava quello spettacolo. La runa della Vista Notturna gli permetteva di individuare le impronte delle creature meccaniche. Ce n’erano talmente tante che, nei punti in cui

erano scese dalla montagna, il terreno era come dilaniato, e Will seguì con il cuore che gli martellava il sentiero di distruzione che conduceva alla cima. Le tracce salivano superando un gruppo di grossi massi che, Will rammentò, venivano chiamati “la Morena”. Formavano un muro parziale che proteggeva la Cwm Cau, una piccola valle in cima alla montagna sul cui fondo si trovava il Llyn Cau, un limpido lago glaciale. Le impronte dell’esercito meccanico partivano dal bordo del lago… Will stava in piedi, con lo sguardo abbassato sulle acque. Alla luce del giorno, ricordò, la vista era magnifica: il Llyn Cau di un azzurro puro, circondato dall’erba verde, e il sole che sfiorava i bordi affilati come rasoi delle Mynydd Pencoed, le scogliere che circondavano il lago. Sospirò, sentendosi a un milione di chilometri da Londra. Il riflesso della luna luccicava sul lago. L’acqua lambiva dolcemente la riva, ma non poteva cancellare i segni delle tracce degli automi: era chiaro da dove erano arrivati. — Aspettami qui — disse Will, dando dei colpetti sul collo di Balios. — E se non torno, ritrova da solo la strada dell’Istituto. Saranno felici di rivederti, vecchio mio. Il cavallo nitrì dolcemente e gli morse la manica, a mo’ di saluto. Will avanzò nel Llyn Cau. L’acqua gli lambì stivali e pantaloni, inzuppandoli e gelandogli la pelle. — Eccomi di nuovo bagnato — disse in tono tetro, e continuò a immergersi nelle fredde acque. Sembravano attirarlo, come sabbie mobili… Ebbe appena il tempo di prendere fiato, prima che il lago lo trascinasse nell’oscurità. A Charlotte Branwell Dal Console Wayland Signora Branwell, siete sollevata dalla carica di capo dell’Istituto. Potrei parlarvi della mia delusione, o della reciproca mancanza di fiducia che ora ci lega. Ma le parole, di fronte a un tradimento dell’entità di quello che avete perpetrato nei miei confronti, sono inutili. Al mio arrivo a Londra, domani, mi aspetto che voi e vostro marito abbiate già lasciato l’Istituto e portato via le vostre cose. La mancata osservanza di questa richiesta vi farà incorrerere nelle pene più severe previste dalla Legge. Josiah Wayland, Console dell’Enclave

19 GIACERE E BRUCIARE

Ora ti brucerò a mia volta, ti brucerò tutto. Fossi pure dannata per questo, noi due giaceremo E bruceremo. Charlotte Mew, Nel cimitero di Nunhead

Fu buio soltanto per pochi istanti. Will fu risucchiato dall’acqua gelida, e poi si sentì cadere… Si raggomitolò su se stesso, mentre il terreno si sollevava e lo colpiva, lasciandolo senza fiato. Soffocò e rotolò a pancia sotto, mettendosi in ginocchio, i capelli e i vestiti grondanti d’acqua. Allungò la mano verso la stregaluce, quindi la lasciò ricadere; preferiva non illuminare nulla, se ciò poteva attirare l’attenzione su di lui. La runa della Vista Notturna bastava a mostrargli che si trovava in una caverna. Se alzava lo sguardo, vedeva le acque turbinanti del lago tenute sospese come se fossero fatte di vetro, e un vago frammento di luce lunare. Dalla caverna si dipartivano vari tunnel, privi di segni che mostrassero dove potevano condurre. Will scese a caso quello più a sinistra, avanzando con cautela nell’oscurità indistinta. I tunnel erano larghi, con pavimenti lisci che non mostravano alcuna traccia del passaggio delle creature meccaniche; le pareti erano di scabra roccia vulcanica. Will ricordò quando si arrampicava sul Cadair Idris con il padre, tanti anni prima. C’erano molte leggende sulla montagna: che era stata la sedia di un gigante che vi si sedeva per guardare le stelle; che re Artù e i suoi cavalieri dormivano sotto di essa, aspettando il momento in cui la Britannia si sarebbe ridestata e avrebbe avuto di nuovo bisogno di loro; che chiunque passasse la notte sul suo fianco si sarebbe svegliato poeta o pazzo. Se solo si fosse saputo quanto era bizzarra la verità… si disse Will, percorrendo la curva di un tunnel e sbucando in una caverna più larga, che all’estremità opposta dava su un ambiente ancora più grande, dove scintillava una luce fioca. Qua e là scorse un luccichio argenteo che pensò provocato da acqua che scorreva in rivoli lungo le pareti nere, ma che a un esame più attento si rivelò provenire da vene di quarzo cristallino. Will avanzò verso la luce fioca. Scoprì di avere il cuore che gli batteva all’impazzata, e provò a respirare regolarmente per calmarlo. Tessa… Se Mortmain la teneva prigioniera, era lì… vicina. In qualche punto di quell’alveare di tunnel avrebbe potuto trovarla. Sentì nella mente la voce di Jem, come se il parabatai gli stesse al fianco per consigliarlo.

Aveva sempre detto che Will si precipitava verso la fine di una missione piuttosto che procedere in modo misurato, e che bisognava tenere gli occhi sul passo successivo lungo il sentiero, piuttosto che sulla montagna in lontananza, o non si sarebbe mai arrivati alla meta. Will chiuse gli occhi per un istante. Sapeva che Jem aveva ragione, ma era difficile da ricordare, quando la meta che si cercava di raggiungere era la ragazza amata. Riaprì gli occhi e avanzò verso la luce fioca all’altra estremità della caverna; il terreno sotto di lui era liscio, senza sassi o ciottoli, e sembrava venato di marmo. Si fermò di botto, evitando solo grazie agli anni di addestramento come Cacciatore di piombare verso la morte. Perché il pavimento roccioso terminava con un precipizio a perpendicolo. Will si trovava su un affioramento roccioso, con lo sguardo abbassato su un anfiteatro pieno di automi. Stavano in silenzio, fermi e immobili, come giocattoli meccanici la cui carica si fosse esaurita. Erano vestiti, come quelli nel villaggio, con brandelli di uniformi militari, ed erano schierati in fila, come soldatini di piombo a grandezza naturale. Al centro della stanza c’era una piattaforma di pietra rialzata con sopra un tavolo: vi era steso un altro automa, come un cadavere su un tavolo da autopsia. Aveva la testa di nudo metallo, ma sul resto del corpo era ben tesa una pelle che sembrava umana, e sulla quale c’erano numerose rune tracciate a inchiostro. Mentre guardava, Will le riconobbe, l’una dopo l’altra: Memoria, Agilità, Velocità, Vista Notturna. Non avrebbero mai funzionato, naturalmente, non su un aggeggio fatto di metallo. Avrebbe potuto ingannare i Cacciatori da lontano, ma… Se avesse usato pelle di Cacciatori? sussurrò una voce nella mente. Cosa avrebbe potuto creare, allora? Quanto era pazzo e quando si sarebbe fermato? Quel pensiero, e la vista delle rune del Cielo incise su una creatura così mostruosa, gli fecero torcere le budella. Balzò via dall’orlo dell’affioramento roccioso e inciampò, andando a sbattere contro una fredda parete di pietra, con le mani umide di sudore. Rivide col pensiero il villaggio, i corpi morti nelle strade, sentì il sibilo degli ingranaggi del demone meccanico che gli aveva parlato: In tutti questi anni ci avete scacciati da questo mondo, con le vostre lame munite di rune. Ora abbiamo corpi su cui le vostre armi non hanno alcun effetto, e questo mondo sarà nostro. La rabbia si riversò come fuoco nelle vene di Will, che si staccò dalla parete e si lanciò precipitosamente in uno stretto tunnel, via dalla caverna. Mentre correva, gli parve di sentire un suono alle sue spalle – un ronzio, come se il meccanismo di un grande orologio si stesse avviando – ma quando si girò non vide nulla, solo le pareti lisce della caverna e le ombre immobili. Il tunnel si restrinse sempre di più finché, alla fine, Will non fu costretto a passare a fatica, girato di traverso, accanto a una roccia ricca di quarzo. Se il tunnel si fosse ulteriormente ristretto, si disse Will, gli sarebbe toccato fare dietrofront e tornare alla caverna; quel pensiero lo esortò a spingersi oltre con rinnovato vigore. Scivolò in avanti, e per poco non cadde, quando il passaggio sfociò all’improvviso in un corridoio più largo. Era quasi come un corridoio dell’Istituto, ma tutto in pietra levigata, con torce infilate in sostegni posizionati a intervalli regolari. Accanto a ogni torcia c’era una porta ad arco, anch’essa di pietra. Le prime due erano aperte e conducevano in stanze vuote e buie. Al di là della terza porta c’era Tessa.

Will non la vide subito, entrando nella stanza. La porta si richiuse in parte alle sue spalle, ma dentro non era buio. C’era una luce tremolante… le fievoli fiamme di un fuoco nel caminetto di pietra all’altra estremità della stanza. Will fu sorpreso nel constatare che era arredata come la stanza di una locanda, con un letto e un portacatino, tappeti sul pavimento e perfino tende, sebbene fossero appese davanti alla nuda pietra delle pareti e non alle finestre. Davanti al fuoco, accucciata sul pavimento, c’era un’esile ombra. La mano del Cacciatore andò automaticamente al pugnale che portava alla cintura… e poi l’ombra si girò, i capelli le scivolarono sulla spalla, e Will vide il suo viso. Tessa. La mano ricadde lontano dal pugnale, mentre il cuore gli sussultava nel petto con una violenza insopportabile, dolorosa. Will vide l’espressione di lei cambiare: curiosità, sbalordimento, incredulità. Tessa si alzò, con le gonne che le ricadevano tutt’intorno mentre si raddrizzava, e tese la mano. — Will? Fu come se una chiave girasse in una serratura, liberandolo: Will si lanciò in avanti. Non c’era mai stata distanza più grande di quella che lo separava da Tessa in quel momento. Era una stanza spaziosa; in quel momento la distanza tra Londra e il Cadair Idris non sembrò nulla in confronto a quella che bisognava coprire per attraversarla. Nel farlo, Will sentì un fremito, una sorta di resistenza. La vide tendere la mano, la sua bocca formare delle parole… e poi Tessa fu tra le sue braccia, e tale fu l’urto che si ritrovarono entrambi quasi senza fiato. Tessa era in punta di piedi, con le braccia intorno alle sue spalle, sussurrando il suo nome: — Will, Will, Will… Lui le seppellì il viso nel collo, dove i capelli folti si arricciavano: sapeva di fumo e di acqua di violetta. L’abbracciò ancora più forte mentre le dita di lei si intrecciavano dietro il suo colletto, e si strinsero l’uno all’altra. Per quell’unico istante, il dolore che aveva serrato Will come un pugno di ferro dal momento della morte di Jem sembrò allentarsi, e gli permise di respirare. Will pensò all’inferno in cui era stato da quando aveva lasciato Londra… i giorni trascorsi in cavalcate senza soste, le notti insonni. Il sangue e la perdita e il dolore e il combattimento. Tutto per arrivare lì. Da Tessa. — Will — ripeté la ragazza, e lui abbassò lo sguardo sul viso rigato di lacrime. Tessa aveva un livido sullo zigomo. Qualcuno l’aveva colpita, e il cuore di Will traboccò di rabbia. Avrebbe trovato chi era stato, giurò, e lo avrebbe ucciso. Se si trattava di Mortmain, lo avrebbe ucciso soltanto dopo avere ridotto in cenere il suo mostruoso laboratorio, in modo che assistesse all’annientamento di tutte le sue folli creazioni. — Will — ripeté Tessa, interrompendo i suoi pensieri. Sembrava quasi senza fiato. — Will, sei uno sciocco. Le sue fantasticherie si bloccarono bruscamente, come una vettura da nolo nel traffico di Fleet Street. — Oh, Will — ripeté Tessa. Le tremavano le labbra; sembrava che non sapesse decidere se ridere o piangere. — Ricordi quando mi hai detto che il bel giovanotto che viene a salvarti non sbaglia mai, nemmeno se dice che il cielo è viola e fatto di porcospini? — La prima volta in assoluto che ti ho vista. Sì. — Oh, mio Will… — Tessa si scostò delicatamente dall’abbraccio, mettendosi una ciocca di

capelli arruffati dietro l’orecchio. I suoi occhi rimasero fissi su quelli di lui. — Non riesco a immaginare come tu abbia fatto a trovarmi, quanto debba essere stato difficile. È incredibile. Ma… pensi davvero che Mortmain mi avrebbe lasciata senza sorveglianza in una stanza con la porta aperta? — Si girò e fece alcuni passi in avanti, poi si fermò di colpo. — Ecco, qui l’aria è solida come un muro — disse, e sollevò la mano, allargando le dita. — Questa è una prigione, Will, e ora ci sei rinchiuso insieme a me. Will le andò accanto, sapendo già cosa aspettarsi. Ricordò la resistenza che aveva percepito nell’attraversare la stanza. Quando la toccò con il dito, l’aria si increspò leggermente, ma era più dura di un lago ghiacciato. — Conosco questa configurazione. A volte l’Enclave ne usa una variante. — Chiuse la mano a pugno e la sbatté contro l’aria solida, abbastanza forte da farsi male. — Uffern gwaedlyd — imprecò in gallese. — Maledizione, ho attraversato il Paese per venirti a cercare, e non sono capace di fare nemmeno questo come si deve! Nel momento in cui ti ho vista, non ho potuto pensare ad altro che a correre da te. Per l’Angelo, Tessa… Lei gli afferrò il braccio. — Non osare scusarti. Capisci che cosa significa per me averti qui? È come un miracolo o un intervento diretto del Cielo, perché stavo pregando di poter rivedere i visi di coloro che amo, prima di morire. — Parlò in modo semplice, schietto… era una delle cose che Will aveva sempre apprezzato in lei, il fatto che non nascondesse né mascherasse, ma dicesse sempre quello che pensava. — Quando ero nella Casa Oscura, non c’era nessuno che si preoccupasse abbastanza per me da venirmi a cercare. Quando mi hai trovata, è stato per caso. Ma adesso… — Adesso ho condannato entrambi allo stesso destino. — Will estrasse il pugnale dalla cintura e lo premette contro la parete invisibile. La lama d’argento munita di rune andò in frantumi. Will imprecò di nuovo, sottovoce. — Non siamo condannati. — Tessa gli mise delicatamente una mano sulla spalla. — Non sarai certamente venuto da solo. Henry o Jem ci troveranno. Chi sta al di là della parete può liberarci. Ho visto come fa Mortmain, e… Will non sapeva che cosa fosse successo poi. La sua espressione doveva essere mutata nel sentire il nome di Jem, perché vide il colore defluire dal viso della ragazza, che serrò la mano sul suo braccio. — Tessa… sono venuto qui da solo. La parola “solo” venne fuori spezzata, come se Will percepisse l’amarezza della perdita sulla propria lingua e cercasse di parlare a dispetto di essa. — E Jem? — Era più che una domanda. Will rimase muto; sembrava che la voce lo avesse abbandonato. Aveva pensato di portarla via di lì prima di parlarle di Jem, aveva immaginato di dirglielo in un luogo sicuro, da qualche parte dove ci fosse lo spazio e il tempo per confortarla. Ma era stato uno sciocco a pensarlo, a immaginare che quanto aveva perduto non gli si leggesse in faccia. Tessa sbiancò. Guardare il suo volto fu come guardare un fuoco tremolare ed estinguersi. — No — sussurrò. — Tessa… Lei indietreggiò, scuotendo la testa. — No, non è possibile. L’avrei saputo… non può essere. Will allungò una mano verso di lei. — Tess… — No — ripeté Tessa. Aveva cominciato a tremare violentemente. — No, non dirlo. Se non lo dici, non sarà vero. Non può essere vero. Non è giusto. — Mi dispiace.

Il viso della ragazza si raggrinzì, andò in frantumi come una diga sottoposta a una pressione eccessiva. Tessa cadde in ginocchio, ripiegandosi su se stessa. Mise le braccia intorno al corpo. Si teneva stretta, come se in quel modo potesse evitare di andare in pezzi. Will sentì una nuova ondata di quel dolore impotente che aveva provato nel cortile della Green Man Inn. Cosa aveva fatto? Era arrivato fin lì per salvarla, e invece era riuscito soltanto a infliggerle un’ulteriore sofferenza. Era come se fosse davvero maledetto… capace soltanto di recare dolore a coloro che amava. — Mi dispiace — ripeté, e in quelle parole c’era tutto il suo cuore. — Mi dispiace tanto. Sarei morto per lui, se avessi potuto. A quelle parole, Tessa alzò gli occhi. Will si preparò a scorgervi uno sguardo d’accusa, ma non c’era. Invece Tessa sollevò la mano verso di lui, in silenzio. Stupito e sorpreso, Will la prese e si lasciò tirare giù, finché non si ritrovò in ginocchio di fronte a lei. Il viso di Tessa era rigato di lacrime, circondato da un’aureola di capelli scompigliati, soffuso d’oro dalla luce del fuoco. — L’avrei fatto anch’io. Oh, Will… È tutta colpa mia. Ha buttato via la sua vita per causa mia. Se avesse preso la droga con più parsimonia… se si fosse concesso di riposare e di fare il malato, invece di fingere di stare bene per me… — No! — Will la prese per le spalle. — Non è colpa tua. Nessuno poteva immaginare… Lei scosse la testa. — Come puoi sopportare di avermi vicina? — chiese in tono disperato. — Ti ho separato dal tuo parabatai. E ora moriremo tutti e due qui. Per colpa mia. — Tessa… — mormorò Will, sconvolto. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che si era trovato in quella posizione, l’ultima volta che aveva dovuto confortare qualcuno dal cuore spezzato e aveva potuto farlo sinceramente, invece di costringersi ad allontanarsi. Si sentiva goffo, come da bambino quando si lasciava cadere i coltelli di mano, prima che Jem gli insegnasse a usarli. Si schiarì la gola. — Tessa, vieni qui. — L’attirò a sé e si sedette a terra. Tessa si appoggiò a lui, con la testa sulla sua spalla, e lui le passò le dita tra i capelli. Will sentiva il suo corpo tremare contro il proprio, ma senza scostarsi. Anzi, Tessa gli si aggrappava, come se la sua presenza le procurasse un vero conforto. E se Will pensò a quanto fosse calda tra le sue braccia o alla sensazione del suo respiro sulla propria pelle, fu solo per un istante, e poté fingere che non ci fosse mai stato. Il dolore di Tessa, come una tempesta, si placò nel corso di alcune ore. La ragazza pianse, e Will la tenne stretta e non la lasciò andare se non una volta, per andare ad attizzare il fuoco. Tornò subito da lei e le si sedette di nuovo accanto, appoggiando come lei la schiena alla parete invisibile. Si toccò la spalla, dove le lacrime di Tessa avevano inzuppato la stoffa. — Mi dispiace — gli disse lei. Will non poteva contare quante volte lei aveva detto di essere dispiaciuta, mentre si erano raccontati cosa era accaduto a ciascuno di loro dal momento della separazione all’Istituto. Will le aveva parlato del suo addio a Jem e a Cecily, della cavalcata attraverso la campagna, del momento in cui si era reso conto che Jem se n’era andato. Tessa gli aveva detto ciò che Mortmain le aveva chiesto di fare, di trasformarsi in suo padre per fornirgli l’ultimo pezzo del puzzle che avrebbe convertito l’esercito di automi in una forza inarrestabile. — Non hai nulla di cui dispiacerti, Tess. — Will guardava il fuoco, unica fonte di luce nella stanza, che proiettava su di lui ombre dorate e nere. Lui aveva cerchi violacei sotto gli occhi, le

sporgenze degli zigomi e delle clavicole nettamente delineate. — Hai sofferto, come me. Nel vedere distruggere il villaggio… — Eravamo là nello stesso momento — disse lei, stupita. — Se avessi saputo che eri vicino… — Se io avessi saputo che tu eri vicina, avrei lanciato Balios su per la collina verso di te. — Per farti uccidere dalle creature di Mortmain? Meglio non averlo saputo. — Tessa seguì il suo sguardo, rivolto al fuoco. — Alla fine mi hai trovata; è questo che conta. — Certo che ti ho trovata. Avevo promesso a Jem che l’avrei fatto — disse Will. — Certe promesse non si possono infrangere. — Fece un breve respiro. Tessa lo sentì contro il fianco: era accucciata contro di lui e, nel cingerla, le mani di Will tremavano quasi impercettibilmente. Si rendeva vagamente conto che non avrebbe dovuto lasciarsi tenere così da un ragazzo che non fosse suo fratello o il suo fidanzato… ma sia suo fratello sia il suo fidanzato erano morti, e l’indomani Mortmain li avrebbe trovati e li avrebbe puniti. In tali circostanze, non riusciva a curarsi granché della decenza. — A cosa è servito tutto quel dolore? — chiese. — Lo amavo così tanto, e non ero neppure là quando è morto. — Neppure io. — La mano di Will le accarezzò la schiena… con un tocco leggero e veloce, quasi temendo che si ritraesse. — Ero nel cortile di una locanda, a metà strada tra Londra e il Galles, quando l’ho saputo. Ho percepito che il legame con Jem veniva reciso. È stato come se un grosso paio di forbici mi avesse tagliato il cuore a metà. — Will… Anche tu hai sempre occupato metà del suo cuore. Il dolore di lui era palpabile, si mescolava a quello di Tessa dando vita a una tristezza acuta, più lieve perché condivisa, ed era difficile dire chi dei due stesse confortando l’altro. — Sono stato io a chiedergli di essere il mio parabatai. Jem era restio; voleva farmi capire che mi stavo legando per la vita a qualcuno che non ne avrebbe certo vissuta una lunga. Ma io lo volevo, lo volevo ciecamente, era una sorta di prova che non ero solo, un modo di dimostrargli quanto gli dovevo. E alla fine ha acconsentito gentilmente a ciò che volevo. L’ha sempre fatto. — Non dire così. Non era un martire — replicò Tessa. — Per Jem non è stata una punizione essere il tuo parabatai. Eri come un fratello per lui… più di un fratello, perché lo avevi scelto. Quando parlava di te, era con lealtà e amore, mai offuscati da un dubbio. — L’ho affrontato, quando ho scoperto che stava prendendo più yin fen del dovuto — proseguì Will. — Ero così arrabbiato… L’ho accusato di gettare via la propria vita. Ha detto: «Posso scegliere di dare il massimo per lei, di bruciare per lei vividamente come desidero». Dalla gola di Tessa uscì un verso sommesso. — È stata una sua scelta, Tessa. E non qualcosa che tu lo abbia costretto a fare. Non è mai stato felice come quando era con te. — Will non guardava lei, ma il fuoco. — Qualsiasi altra cosa io ti abbia mai detto, non importa quale, sappi che sono contento che Jem abbia vissuto questo periodo sereno e felice con te. E dovresti esserlo anche tu. — Non sembri contento. Will stava ancora guardando il fuoco. I capelli, bagnati quando era entrato nella stanza, si erano asciugati in morbidi riccioli neri contro le tempie e la testa. — L’ho deluso. Mi aveva affidato questo incarico, questo unico compito, seguirti e trovarti, riportarti a casa, al sicuro. Ed ecco che fallisco all’ostacolo finale. — Si girò finalmente a guardarla, con un’espressione assente. — Non lo avrei

lasciato. Se me l’avesse chiesto, sarei stato con lui fino alla morte. Avrei mantenuto il mio giuramento. Ma mi ha chiesto di venirti a cercare… — Dunque hai fatto solo ciò che ti ha chiesto. Non l’hai deluso. — Ma era anche ciò che avevo nel cuore. E ora non riesco a separare egoismo da altruismo. Quando sognavo di salvarti, come mi avresti guardato… — La voce Will si abbassò all’improvviso. — Comunque, sono stato ben punito per la mia arroganza. — Ma io sono stata ricompensata. — Tessa fece scivolare la mano in quella di lui. I suoi calli le sfioravano ruvidi il palmo. Vide il suo petto alzarsi di scatto in un moto di sorpresa. — Non sono più sola; ho te qui con me. E non dovremmo rinunciare completamente alla speranza. Potremmo avere ancora una possibilità. Sconfiggere Mortmain, o sgusciargli tra le dita. Se c’è qualcuno che può escogitare un modo per farlo, sei tu. Will girò lo sguardo su di lei. — Sei un portento, Tessa Gray. Hai una tale fiducia in me, sebbene io non abbia fatto nulla per meritarla… — Nulla? — Tessa alzò la voce. — Will, tu mi hai salvata dalle Sorelle Oscure, mi hai respinta per salvarmi, non hai fatto altro che salvarmi. Sei una persona buona, una delle migliori che abbia mai conosciuto. Will sembrava stordito, come se Tessa gli avesse dato una spinta. Si leccò le labbra secche. — Vorrei che non lo dicessi — sussurrò. Tessa si chinò su di lui. Il viso di Will era tutto ombre, angoli e piani; avrebbe voluto toccarlo, toccargli la curva della bocca, l’arco delle ciglia contro la guancia. Il fuoco si rifletteva nei suoi occhi, punture di luce. — Will… La prima volta che ti ho visto, ho pensato che assomigliassi all’eroe di un libro di fiabe. Tu ti paragonasti per scherzo a Sir Galahad. Te lo ricordi? E per tanto tempo ho provato a vederti in quel modo – come se fossi Darcy, o Lancillotto, o il povero e infelice Sydney Carton – ed è stato un vero disastro. Mi ci è voluto tanto tempo per capire, ma l’ho fatto: non sei l’eroe di un libro. Will fece un risatina mesta. — È vero. Non sono un eroe. — No, infatti. Sei una persona, proprio come me. Gli occhi di Will scrutarono il viso di Tessa, disorientati. Lei gli strinse la mano, allacciando le proprie dita alle sue. — Non lo vedi, Will? Sei una persona come me. Leggi i libri che leggo. Ami le poesie che amo. Dici le cose che io penso ma non dico mai ad alta voce. Mi fai ridere con le tue buffe canzoni e con il tuo modo di vedere la verità di ogni cosa. Ho l’impressione che tu possa guardarmi dentro e vedere tutti i punti in cui sono strana e diversa e avvolgerli nell’abbraccio del tuo cuore, perché sei strano e diverso nello stesso identico modo. — Con la mano libera, Tessa gli toccò la guancia, lievemente. — Siamo uguali. Gli occhi di Will sbatterono e si chiusero. — Non dire certe cose, Tessa. — La sua voce era rotta ma controllata. — Non dirle. — Perché no? — Mi hai definito una persona buona, ma io non sono così buono. E sono… sono catastroficamente innamorato di te. — Will… — Ti amo così tanto, così incredibilmente tanto, e quando mi sei così vicina dimentico chi sei. Dimentico che sei di Jem. Dovrei essere una persona della peggior specie per pensare ciò che sto pensando ora. Eppure lo sto pensando.

— Amavo Jem — disse Tessa. — Lo amo ancora, e lui mi amava, ma io non sono di nessuno, Will. Il mio cuore è solo mio. Tu non puoi controllarlo. Così come non ho potuto farlo io. Gli occhi di Will erano ancora chiusi. Il suo petto si alzava e si abbassava velocemente, e Tessa sentiva il battito impetuoso del suo cuore. Il suo corpo era caldo contro quello di lei, e vivo, e Tessa pensò alle gelide mani degli automi su di lei, e agli occhi ancora più gelidi del Magister. Pensò a cosa sarebbe successo se fosse sopravvissuta e Mortmain avesse conseguito i suoi scopi e lei fosse stata destinata a essere legata a lui per tutta la vita… a un uomo che non amava e che, di fatto, disprezzava. Pensò alla sensazione delle sue mani fredde su di lei, e si chiese se sarebbero state le uniche mani che l’avrebbero mai toccata di nuovo. — Cosa pensi che accadrà domani, Will? Quando Mortmain ci troverà… Dimmelo onestamente. Le mani del Nephilim si mossero con cautela, quasi senza volere, le scivolarono sui capelli e si fermarono sulla nuca. Tessa si chiese se sentisse il pulsare violento del suo sangue, in accordo con quello di lui. — Credo che Mortmain mi ucciderà. O, per essere preciso, che mi farà uccidere da quelle creature — rispose Will. — Sono un discreto Cacciatore, Tess, ma quegli automi… non possono essere fermati. Su di loro le spade munite di rune non funzionano meglio delle normali armi, e le lame angeliche non funzionano affatto. — Ma non hai paura. — Ci sono tante cose peggiori della morte. Non essere amato o non essere capaci di amare: questo è peggio. E cadere combattendo come dovrebbe fare un Cacciatore… non c’è alcun disonore in questo. Una morte onorevole è ciò che ho sempre voluto. Tessa fu percorsa da un brivido. — Ci sono due cose che voglio — disse, e fu sorpresa dalla fermezza della propria voce. — Se pensi che Mortmain proverà a ucciderti domani, desidero che tu mi dia un’arma. Mi toglierò l’angelo meccanico e combatterò al tuo fianco, e se cadremo, lo faremo insieme. Perché voglio anch’io una morte onorevole, come Boadicea. — Tess… — Morirei piuttosto che essere uno strumento del Magister. Dammi un’arma, Will. — La ragazza sentì il corpo di lui fremere contro il proprio. — Lo farò — disse infine il Nephilim, con aria abbattuta. — Qual è la seconda cosa? Tessa deglutì. — Voglio baciarti ancora una volta prima di morire. Will spalancò gli occhi. Erano azzurri, come il mare e il cielo nel sogno in cui Tessa l’aveva visto cadere dalla scogliera, azzurri come i fiori che Sophie le aveva messo tra i capelli. — Non… — … dirlo se non lo pensi davvero — terminò lei al suo posto. — Lo so. Non lo sto facendo. Lo penso davvero, Will. E so che è assolutamente oltre i limiti della decenza chiederlo. So che devo sembrarti un po’ matta. — Tessa abbassò lo sguardo e poi lo alzò di nuovo, facendosi coraggio. — E se puoi dirmi di poter morire domani senza che le nostre labbra si tocchino mai più, e di non pentirtene, dimmelo, e desisterò dal chiederlo, perché so di non avere alcun diritto… Si interruppe a metà frase, perché Will l’aveva presa e attirata a sé, e premuto le proprie labbra sulle sue. Per una frazione di secondo fu qualcosa di quasi doloroso e brusco, per la disperazione e il desiderio trattenuto, e Tessa sentì il sapore del sale e il calore della bocca di lui, e il suo respiro spezzato. Poi Will divenne più delicato, con una capacità di autocontrollo che Tessa percepiva attraverso tutto il corpo, e lo sfiorarsi delle labbra, il gioco delle lingue e dei denti passarono dal dolore al piacere in una frazione di secondo. Sul balcone dei Lightwood, Will era stato cauto, ma lì nella caverna non lo fu. Le sue mani le

scivolarono rudi lungo la schiena, infilandosi nei capelli, afferrandole il vestito e sollevandolo a metà in modo che i loro corpi aderissero. Era contro di lei, forte e fragile al tempo stesso. La testa di Tessa si piegò di lato quando lui le aprì le labbra con le proprie: più che baciarsi si divoravano a vicenda. Le dita di Tessa si serrarono sui suoi capelli, tanto forte da fare male, i suoi denti gli mordicchiarono il labbro inferiore. Will mugolò e la strinse più forte, lasciandola senza fiato. — Will… — sussurrò Tessa. Lui si alzò, prendendola in braccio senza smettere di baciarla. Tessa gli si aggrappò forte alla schiena e alle spalle, mentre lui la portava verso il letto e ve la deponeva. Era già scalza; Will si tolse gli stivali con un calcio e salì sul letto accanto a lei. Durante l’addestramento Tessa aveva imparato a togliersi la tenuta da combattimento, e le sue mani erano leggere e veloci mentre slacciavano le fibbie di quella di Will, sfilandola poi come un guscio. Lui la gettò via impaziente e si mise in ginocchio per sfibbiare la cintura delle armi. Lei lo guardava, deglutendo a fatica. Se doveva dirgli di fermarsi, quello era il momento. Le mani di Will coperte di cicatrici erano leste nello slacciare i ganci e, quando si girò per lasciar cadere la cintura accanto al letto, la sua camicia – bagnata di sudore e incollata al corpo – scivolò verso l’alto e le mostrò la curva incavata dello stomaco, l’osso arcuato dell’anca. Tessa aveva sempre trovato Will bellissimo, gli occhi e le labbra e il viso, tuttavia non aveva mai pensato in quel particolare modo al suo corpo. Ma le sue forme erano belle, come i piani e gli angoli del David di Michelangelo. Allungò la mano per toccarlo, per far scorrere le dita, soffici come seta di ragno, sulla pelle soda e piatta del suo stomaco. La reazione di Will fu immediata e sorprendente. Inspirò bruscamente e chiuse gli occhi, immobilizzandosi. Con il cuore che le batteva all’impazzata, Tessa passò le dita lungo la cintura dei pantaloni, rendendosi conto a malapena di cosa faceva… a guidarla era un istinto che non sapeva identificare o spiegare. La sua mano si curvò sulla vita di Will, il pollice diede un colpetto all’anca, attirandolo verso il basso. Will le scivolò sopra, lentamente, appoggiando i gomiti ai lati delle sue spalle. I loro occhi si incontrarono, sostennero lo sguardo; i loro corpi aderivano, ma nessuno dei due parlava. Tessa aveva la gola dolorante: adorazione e struggimento in egual misura. — Baciami — disse. Will si abbassò lentamente, finché le loro labbra non si sfiorarono. Tessa si arcuò verso l’alto, ansiosa di unire le loro bocche, ma lui si ritrasse, strofinandole il naso sulla guancia, premendole le labbra sull’angolo della bocca… e poi sul mento, e giù sulla gola, mandandole piccole scosse di piacere attonito attraverso il corpo. Tessa aveva sempre pensato alle proprie braccia, alle proprie mani, al proprio collo, al proprio viso, come a cose separate… e non che la sua pelle componesse un unico, delicato involucro, che un bacio deposto sulla gola potesse essere percepito fin nella punta dei piedi. — Will… Le sue mani gli tirarono su la camicia, che venne via mentre i bottoni si staccavano e la testa di Will si sfilava dalla stoffa scuotendosi, una massa di capelli scuri, Heathcliff nella brughiera. Le mani di Will erano meno sicure, sul vestito di lei, che tuttavia fu tolto altrettanto facilmente, sfilato dalla testa e gettato via, lasciandola in camicia e corsetto. Tessa si immobilizzò, turbata di ritrovarsi svestita davanti a qualcuno che non fosse Sophie. Will lanciò al corsetto uno sguardo stravolto, solo in parte di desiderio. — Come… si toglie? Tessa non poté trattenersi; nonostante tutto, ridacchiò. — Si slaccia, sulla schiena — sussurrò. E

guidò le sue mani dietro di sé, finché le sue dita non furono sui lacci del corsetto. Allora Tessa rabbrividì, e non per il freddo, bensì per l’intimità di quel gesto. Will l’attirò a sé, e fu delicato, le baciò di nuovo la linea della gola, e la spalla nel punto in cui la camicia la lasciava scoperta; il suo alito soffice e caldo contro la pelle, finché anche lei non ansimò, le mani che gli accarezzavano le spalle, le braccia, i fianchi. Tessa baciò le cicatrici bianche che i marchi gli avevano lasciato sulla pelle e si avviluppò a lui, finché non furono un groviglio accaldato di membra e lei non inghiottì gli ansiti che Will emetteva contro la sua bocca. — Tess… se vuoi fermarti… Lei scosse la testa, in silenzio. Le fiamme nel focolare si erano quasi consumate di nuovo; Will era tutto angoli e ombre e pelle morbida e dura contro di lei. No. — Lo vuoi? — Will aveva la voce roca. — Sì. E tu? Le dita di lui percorsero il contorno della sua bocca. — Per questo mi sarei fatto dannare per l’eternità. Per questo avrei rinunciato a tutto. Tessa si sentì bruciare gli occhi, sentì la pressione delle lacrime e sbatté le ciglia bagnate. — Will… — Dw i’n dy garu di am byth. Ti amo. Ti amerò per sempre. — E Will si mosse per coprire il corpo di Tessa con il proprio. A tarda notte, Tessa si svegliò. Il fuoco si era completamente consumato, ma la stanza era illuminata dalla strana luce delle torce, che sembrava andare e venire senza alcuna logica. Si tirò indietro, puntellandosi sul gomito. Will dormiva accanto a lei, imprigionato nel sonno immoto di chi è completamente esausto. Tuttavia sembrava in pace… più di quanto non lo avesse mai visto prima. Il suo respiro era regolare, le ciglia tremolavano leggermente per qualche sogno. Tessa si era addormentata con la testa sul braccio di Will; l’angelo meccanico, che portava ancora al collo, era adagiato sulla sua spalla, appena a sinistra della clavicola. Quando Tessa si spostò, l’angelo scivolò via, e lei vide – con sua sorpresa – che nel punto in cui era stato posato aveva lasciato sulla pelle di Will un segno, non più grande di uno scellino, raffigurante una pallida stella bianca.

20 I CONGEGNI INFERNALI

Come automi manovrati da fili, Le esili sagome degli scheletri Ondeggiarono attraverso la lenta quadriglia. Poi si presero l’un l’altro per mano E danzarono una solenne sarabanda; Fievoli e stridule echeggiavano le loro risa. Oscar Wilde, La casa della donna perduta



È bellissimo — sussurrò Henry.

I Cacciatori dell’Istituto di Londra – con Magnus Bane – erano nella cripta, disposti in un ampio semicerchio, e osservavano una delle nude pareti di pietra. O meglio, qualcosa che era apparso su una delle nude pareti di pietra. Si trattava di un passaggio ad arco alto circa tre metri e largo forse uno e mezzo. Non era scolpito nella pietra, ma fatto piuttosto di rune incandescenti che si intrecciavano come piante rampicanti su un graticcio. Le rune non provenivano dal Libro Grigio. Pur avendo per i Cacciatori l’aspetto estraneo di un’altra lingua, ognuna di esse era chiara e bella, e recitava una sommessa canzone di viaggi e distanze, di turbinanti spazi scuri e distanze tra i mondi. Scintillavano verdi nell’oscurità, un verde pallido e acido. All’interno dello spazio da esse creato la parete non si vedeva… c’era solo oscurità, impenetrabile come quella di un grande pozzo buio. — È davvero sorprendente — disse Magnus. Tranne lo stregone, indossavano tutti la tenuta da combattimento ed erano armati fino ai denti. Sulla schiena di Gabriel era fissato lo spadone a doppio filo, e lui aveva una gran voglia di mettere le mani inguantate sull’elsa. Sebbene apprezzasse arco e frecce, era stato addestrato nell’uso dello spadone da un maestro che poteva far risalire i suoi insegnanti fino a Lichtenauer *. Inoltre, contro gli automi arco e frecce sarebbero stati molto meno utili di un’arma capace di farli a pezzi. — È tutto merito tuo, Magnus — disse Henry. Aveva il viso in fiamme… o forse, pensò Gabriel, era il riflesso delle rune luminose. — Niente affatto — replicò lo stregone. — Se non fosse stato per il tuo genio, tutto ciò non sarebbe mai stato creato.

— Questo scambio di convenevoli è amabile — disse Gabriel, vedendo che Henry era in procinto di replicare a Magnus. — Tuttavia rimangono alcune domande fondamentali su questa invenzione. Henry gli rivolse un sguardo vacuo. — E cioè? Intervenne Charlotte. — Io credo, mio caro, che Gabriel stia chiedendo se questo… passaggio… — Lo abbiamo chiamato “Portale” — precisò Henry. L’iniziale maiuscola si evinceva chiaramente dal suo tono. — Ci stiamo chiedendo tutti se questo Portale funzionerà — terminò Charlotte. — L’avete provato? — Be’, no. Non c’è stato il tempo. Ma ti assicuro che i nostri calcoli sono perfetti. Tutti, tranne Henry e Magnus, guardarono il Portale con rinnovato allarme. — Henry… — cominciò Charlotte. — Be’, io credo che Henry e Magnus dovrebbero andare per primi — suggerì Gabriel. — Sono stati loro a inventare questo maledetto aggeggio. Tutti si girarono verso di lui. — Sembra che abbia rimpiazzato Will — osservò Gideon, inarcando le sopracciglia. — Dicono lo stesso genere di cose. — Io non sono Will! — replicò Gabriel. — Spero proprio di no — disse Cecily, ma così piano che si chiese se qualcun altro l’avesse sentita. Aveva un aspetto particolarmente grazioso, pensò Gabriel, che non riusciva a capire perché. Cecily indossava la stessa semplice tenuta nera di Charlotte; i capelli erano fissati compostamente dietro la testa, la collana con il rubino che portava al collo scintillava contro la pelle. Tuttavia, si ammonì severamente Gabriel, dal momento che con tutta probabilità stavano per affrontare un pericolo mortale, il fatto che Cecily fosse o meno graziosa non avrebbe dovuto essere il suo pensiero dominante. Si impose di smetterla immediatamente. — Non sono affatto come Will Herondale — ripeté. — Sono dispostissimo ad andare per primo — disse Magnus, con l’aria straziata di un maestro in una stanza piena di ragazzini maleducati. — Ho bisogno di una serie di cose. Vorrei portare con me qualche tenuta e qualche arma in più; speriamo che Tessa sia là, e potrebbe esserci anche Will. Naturalmente, prevedo che mi troverete ad aspettarvi dall’altra parte, ma se ci fossero degli… sviluppi imprevisti, è sempre meglio prepararsi. Charlotte annuì. — Sì… naturalmente. — Abbassò lo sguardo per un momento. — Non posso credere che nessuno sia venuto in nostro aiuto. Dopo la mia lettera, pensavo che almeno qualcuno… — Si interruppe per deglutire e sollevò il mento. — Vado a chiamare Sophie. Lei vi procurerà le cose che vi servono, Magnus. E tra poco si unirà a noi con Cyril e Bridget. — Charlotte sparì su per le scale, seguita dallo sguardo tenero e preoccupato del marito. Gabriel era dispiaciuto, ma non sorpreso. Per Charlotte era chiaramente un brutto colpo il fatto che nessuno avesse risposto all’appello e che nessuno fosse venuto in loro aiuto, ma lui l’aveva ampiamente previsto. Le persone erano essenzialmente egoiste, si disse, e molte odiavano l’idea che a dirigere l’Istituto fosse una donna. Non si sarebbero esposte a rischi per lei. Solo poche settimane prima, Gabriel avrebbe potuto dire lo stesso di sé. Ormai invece, conoscendo Charlotte, si rendeva conto con stupore che l’idea di correre dei rischi per lei gli sembrava un onore, come per la maggior parte degli inglesi lo sarebbe stato correre dei rischi per la regina. — Come si fa a far funzionare il Portale? — chiese Cecily, con la testa scura inclinata di lato,

gettando un’occhiata al passaggio rilucente come se fosse un dipinto in un museo. — Vi trasporterà all’istante da un posto all’altro — disse Henry. — Ma il trucco è… be’, qui entra in gioco la magia. — Pronunciò la parola con un po’ di nervosismo. — Dovete immaginare il luogo in cui volete andare — spiegò Magnus. — Non funzionerà per portarvi in un luogo dove non siete mai stati e che non potete figurarvi. In questo caso, per andare sul Cadair Idris, avremo bisogno di Cecily. Quanto vicino alla montagna pensi di poterci condurre? — Proprio in cima — rispose la ragazza, sicura di sé. — Ci sono parecchi sentieri che risalgono le sue pendici, io ne ho percorsi due con mio padre. Ricordo la cresta della montagna. — Ottimo — commentò Henry. — Cecily, tu starai davanti al Portale e visualizzerai la nostra destinazione… — Ma non andrà per prima, vero? — chiese Gabriel, stupito dalle sue stesse parole. Non aveva avuto intenzione di pronunciarle, ma non poteva certo tirarle indietro. — Voglio dire, lei è la meno addestrata di tutti noi. Non sarebbe sicuro. — Posso benissimo andare per prima — dichiarò Cecily, con l’aria di non essergli affatto grata per quella premura. — Non vedo motivo per cui… — Henry! — Era Charlotte, riapparsa ai piedi della scala. Dietro di lei c’erano i servitori dell’Istituto, tutti in tenuta da combattimento: Bridget, che sembrava in procinto di fare una passeggiata mattutina, Cyril, risoluto e determinato, e Sophie, che portava una grossa sacca di cuoio. Erano seguiti da tre uomini in tonaca color pergamena, che avanzavano con strani movimenti fluidi. Fratelli Silenti. A differenza di qualsiasi Fratello Silente che Gabriel avesse mai visto, però, quei tre erano armati. Attorno alla vita portavano cinture a cui erano appese lunghe lame ricurve con le impugnature di adamas scintillante, lo stesso materiale usato per fabbricare gli stili e le lame angeliche. Henry spostò lo sguardo, con aria prima confusa e poi colpevole, dal Portale ai Fratelli Silenti. Il suo viso leggermente lentigginoso impallidì. — Fratello Enoch, non… Calmati. La voce del Fratello Silente risuonò in tutte le loro menti. Non siamo venuti per ammonirvi di non infrangere in alcun modo la Legge, Henry Branwell. Siamo venuti per combattere al vostro fianco. — Combattere al nostro fianco? — Gideon apparve sbalordito. — Ma i Fratelli Silenti non sono guerrieri… Questo è inesatto. Cacciatori eravamo e Cacciatori rimaniamo, anche dopo essere entrati nella Fratellanza. Siamo stati istituiti dal Cacciatore Jonathan in persona e, sebbene viviamo di libri, possiamo sempre morire di spada, se scegliamo di farlo. Charlotte era raggiante. — Hanno saputo del mio messaggio, e sono venuti. Fratello Enoch, Fratello Micah e Fratello Zachariah. I due confratelli alle spalle di Enoch chinarono il capo in silenzio. Gabriel represse un brivido. Pur sapendo che facevano parte integrante della vita dei Cacciatori, aveva sempre trovato inquietanti i Fratelli Silenti. — Fratello Enoch mi ha anche comunicato perché non è venuto nessun altro — disse Charlotte, mentre il sorriso le svaniva dal viso. — Anche se non ne siamo stati informati, il Console Wayland ha convocato una riunione del Consiglio per questa mattina. Secondo la Legge, era obbligatoria la presenza di tutti i Cacciatori. Henry emise un sibilo tra i denti. — Che bas… bassezza — mormorò. — Su cosa verteva la

riunione del Consiglio? — Sulla mia rimozione da capo dell’Istituto — rispose Charlotte. — Il Console crede ancora che Mortmain sferrerà il suo attacco contro Londra, e che ci sia bisogno di un capo forte per resistere all’esercito di automi. — Signora Branwell! — Sophie, che stava porgendo a Magnus la sacca che aveva portato, la lasciò quasi cadere. — Non possono farlo! — Oh, certo che possono. — Charlotte girò lo sguardo su di loro, poi sollevò il mento. In quell’istante nonostante la bassa statura, pensò Gabriel, sembrò più alta del Console. — Sapevamo tutti che sarebbe accaduto, ma non ha importanza. Siamo Cacciatori, e dobbiamo rispondere l’uno all’altro e a ciò che reputiamo giusto. Crediamo a Will, e crediamo in Will. La fiducia ci ha condotti fin qui; ci condurrà un po’ più in là. L’Angelo veglia su di noi, e trionferemo. Rimasero tutti in silenzio. Gabriel girò lo sguardo sui loro visi: tutti pieni di determinazione, dal primo all’ultimo; perfino Magnus gli sembrò, se non commosso, assorto e rispettoso. — Signora Branwell, se il Console Wayland non vi considera un capo, è uno sciocco. — Grazie. — Charlotte gli fece un cenno con la testa. — Ora è meglio non perdere altro tempo. Dobbiamo andare, e alla svelta, non possiamo tardare oltre nel risolvere questa faccenda. Henry fissò per un lungo istante la moglie, quindi spostò lo sguardo su Cecily. — Sei pronta? La sorella di Will annuì e si posizionò davanti al Portale, la cui luce sfolgorante proiettava l’ombra delle strane rune sul viso piccolo e risoluto. — Ora, immagina… — le disse Magnus. — Pensa più intensamente che puoi alla cima del Cadair Idris. Le mani di Cecily si strinsero lungo i fianchi. Il Portale cominciò a muoversi, le rune a incresparsi e a mutare. L’oscurità all’interno del passaggio si illuminò. D’un tratto, Gabriel si accorse di non guardare più l’ombra. Fissava un paesaggio che sembrava dipinto all’interno del Portale: la curva verde della cima di una montagna, un lago azzurro e profondo come il cielo… Cecily ebbe un lieve sussulto… poi fece un passo avanti e sparì attraverso il passaggio. Fu come veder cancellare un disegno. Le prime a sparire nel Portale furono le mani, poi fu la volta delle braccia, protese in avanti, e del corpo. Cecily scomparve. — Henry! — gridò Charlotte. A Gabriel ronzavano le orecchie. Sentì Henry rassicurare Charlotte che era così che funzionava il Portale, che non era accaduta nessuna disgrazia, ma era come una canzone sentita distrattamente da un’altra stanza, le parole erano una cadenza senza significato. L’unica cosa che sapeva era che Cecily, più coraggiosa di tutti loro, aveva varcato la soglia sconosciuta ed era sparita. E lui non poteva lasciarla andare da sola. Si mosse in avanti. Sentì il fratello chiamare il suo nome, ma lo ignorò. Raggiunse il Portale e lo varcò. Per un momento non ci fu altro che nero. Poi una grande mano sembrò allungarsi dall’oscurità e ghermirlo, e Gabriel fu risucchiato nel vorticante gorgo nero come l’inchiostro. La grande sala del Consiglio era gremita di gente che strillava. Sulla piattaforma rialzata c’era il Console Wayland, con lo sguardo fisso sulla folla urlante,

un’espressione di impazienza furiosa sul viso. I suoi occhi scuri scrutavano i Cacciatori riuniti davanti a lui: George Penhallow era impegnato in una gara a chi gridava più forte con Sora Kaidou dell’Istituto di Tokio; Vijay Malhotra batteva un dito sottile contro il petto di Japheth Pangborn, che lasciava di rado il suo maniero nella campagna di Idris ed era diventato rosso come un peperone di fronte a quell’oltraggio. Due dei Blackwell avevano messo alle strette Amalia Morgenstern, che replicava seccamente in tedesco. Aloysius Starkweather, tutto vestito di nero, stava in piedi accanto a una delle panche di legno e lanciava sguardi truci al podio. L’Inquisitore, in piedi accanto al Console Wayland, sbatté il bastone di legno sul pavimento, tanto forte da mandarne quasi in frantumi le assi. — BASTA! — ruggì. — Fate tutti silenzio. Seduti! Un mormorio stupito percorse la sala… e, con evidente sorpresa del Console, la gente si sedette. Non in silenzio, ma si sedette… almeno, tutta quella che trovò posto per farlo. La sala era piena fino a scoppiare; raramente tanti Cacciatori avevano presenziato tutti insieme a una riunione. C’erano i rappresentanti di tutti gli Istituti: New York, Bangkok, Ginevra, Bombay, Kyoto, Buenos Aires… Soltanto i Cacciatori di Londra, Charlotte Branwell e suo marito, erano assenti. Aloysius Starkweather rimase in piedi, con il logoro mantello nero che gli sventolava intorno come due ali di corvo. — Dov’è Charlotte Branwell? — chiese. — Il messaggio che avete mandato lasciava intendere che sarebbe stata qui a spiegare i contenuti della sua missiva al Consiglio. — Spiegherò io i contenuti della sua missiva — replicò il Console, a denti stretti. — Be’, sarebbe preferibile sentirli da lei — intervenne Malhotra, spostando i penetranti occhi scuri dal Console all’Inquisitore e viceversa. L’Inquisitore Whitelaw sembrava teso, come se nelle ultime notti avesse sofferto d’insonnia; aveva gli angoli della bocca serrati. — Charlotte Branwell stava reagendo in maniera eccessiva. È stata sollevata dalla carica — disse il Console. — Mi assumo la piena responsabilità di averle affidato la direzione dell’Istituto di Londra. Non avrei mai dovuto farlo. — Ho avuto occasione di incontrare la signora Branwell e parlarci — disse Starkweather nella sua roca parlata dello Yorkshire. — Non mi ha dato l’impressione di una persona incline a reagire in maniera esagerata. Senza curarsi di celare la propria insofferenza verso Starkweather, il Console affermò in tono teso: — È in stato interessante, e credo che sia… scombussolata. Chiacchiere e confusione. L’Inquisitore si girò verso Wayland e gli lanciò una breve occhiata disgustata. Il Console lo fulminò a sua volta con lo sguardo. Era chiaro che i due uomini avevano già avuto una discussione: il Console era rosso di rabbia, lo sguardo che restituì all’Inquisitore era quello di un traditore. Una donna si alzò in piedi tra le panche affollate. Aveva i capelli bianchi raccolti alti sopra la testa e modi imperiosi. Era Callida Fairchild, la zia di Charlotte Branwell. — Se state insinuando che mia nipote prende decisioni isteriche e irragionevoli perché ha in grembo un membro della prossima generazione di Cacciatori, Console, vi consiglio di ripensarci — disse con voce gelida. Wayland digrignò i denti. — Non c’è alcuna prova che le affermazioni di Charlotte Branwell sul fatto che Mortmain sia in Galles siano veritiere. Nasce tutto dai resoconti di Will Herondale, che è soltanto un ragazzo, e per giunta deplorevolmente irresponsabile. Tutte le prove, compresi i diari di Benedict Lightwood, indicano che sarà sferrato un attacco a Londra, ed è qui che dobbiamo schierare le nostre forze.

La sala fu percorsa da un brusio in cui ricorrevano le parole “attacco a Londra”. Amalia Morgenstern si sventolava con un fazzoletto di pizzo, mentre Lilian Highsmith, con le dita che accarezzavano il manico di un pugnale che le sporgeva dal polsino del guanto, sembrava compiaciuta. — Le prove… — sbuffò Callida. — La parola di mia nipote è una prova… Ancora mormorio nella sala. Una giovane donna si alzò; indossava un vestito verde chiaro e aveva un’espressione di sfida. L’ultima volta che Wayland l’aveva vista, singhiozzava in quella stessa sala del Consiglio chiedendo giustizia. — Il Console ha ragione riguardo a Charlotte Branwell! — esclamò Tatiana Blackthorn, figlia di Benedict Lightwood. — Charlotte Branwell e William Herondale sono la causa della morte di mio marito! — Ma davvero? — Era stato l’Inquisitore Whitelaw a parlare, con un tono che grondava sarcasmo. — Chi è stato precisamente a uccidere vostro marito? È stato Will? Risuonò un vocio sbalordito. Tatiana sembrava offesa. — Non è stata colpa di mio padre… — Al contrario — la interruppe l’Inquisitore. — Non doveva essere di dominio pubblico, signora Blackthorn, ma voi mi forzate la mano. Abbiamo aperto un’inchiesta sulla morte di vostro marito, ed è stato accertato che vostro padre era davvero colpevole, gravemente colpevole. Se non fosse stato per l’operato dei vostri fratelli – nonché di William Herondale e Charlotte Branwell, tra gli altri dell’Istituto di Londra – il nome dei Lightwood sarebbe stato cancellato dagli annali dei Cacciatori e voi avreste vissuto il resto della vostra vita come una mondana, abbandonata da tutti. Tatiana avvampò e strinse i pugni. — William Herondale ha… mi ha rivolto insulti inqualificabili… — Non vedo proprio come questo sia pertinente con il problema in questione — ribatté l’Inquisitore. — Si può essere villani nella propria vita privata, ma al tempo stesso corretti su questioni più generali. — Ci avete preso la casa! — strillò Tatiana. — Sono costretta a dipendere dalla generosità della famiglia di mio marito, come una mendicante che muore di fame… Lo scintillio degli occhi dell’Inquisitore eguagliava quello delle pietre dei suoi anelli. — La vostra casa è stata confiscata, signora Blackthorn, non rubata. Abbiamo perquisito la casa di famiglia dei Lightwood — proseguì, alzando la voce. — Traboccava di prove dei legami di Benedict Lightwood con Mortmain, e i diari riportano minuziosamente azioni vili, sporche e spregevoli. Il Console li cita come prova che ci sarà un attacco a Londra, ma quando Benedict Lightwood è morto era ormai folle a causa della sifilide demoniaca. E comunque, anche se fosse stato sano, è poco probabile che Mortmain gli avrebbe confidato i suoi veri piani. Furibondo, il Console lo interruppe. — La questione di Benedict Lightwood è chiusa… chiusa, e irrilevante. Siamo qui per discutere di Mortmain e dell’Istituto! Prima di tutto, visto che Charlotte Branwell è stata sollevata dalla sua carica e che i prossimi avvenimenti saranno perlopiù concentrati qui, abbiamo bisogno di un nuovo capo per l’Enclave londinese. Lascerò spazio alla discussione. Qualcuno si candida per prendere il suo posto? Ancora un brusio. George Penhallow già si stava alzando in piedi, quando l’Inquisitore sbottò, furioso: — È ridicolo, Josiah. Non ci sono prove che Mortmain non sia per davvero dove Charlotte dice che è. Non abbiamo neppure cominciato a discutere di mandarle dei rinforzi…

— Rinforzi? Perché dovremmo mandarle dei rinforzi? L’Inquisitore indicò l’assemblea. — Charlotte non è qui. Dove pensi che siano i membri dell’Istituto di Londra? Sono andati sul Cadair Idris, alla ricerca del Magister. E noi, invece di discutere se mandare loro aiuto, convochiamo un Consiglio per discutere della sostituzione di Charlotte? Al Console saltarono i nervi. — Non ci sarà nessun aiuto! — gridò. — Non ci sarà mai aiuto per coloro che… Ma il Consiglio non venne mai a sapere chi fosse destinato a rimanere senza aiuto perché, proprio in quell’istante, un’affilata lama d’acciaio recise di netto la testa dal corpo di Wayland. L’Inquisitore balzò indietro, allungando la mano verso il bastone mentre veniva inondato di sangue. Il Console crollò a terra in due parti separate: il corpo si afflosciò sul pavimento bagnato di sangue, la testa recisa rotolò via come una palla. Nell’accasciarsi al suolo, Wayland rivelò un automa alle sue spalle, sottile come uno scheletro umano, con indosso i resti laceri di una giubba militare rossa. Con un ghigno da teschio, l’automa ritirò la lama bagnata di sangue e abbracciò con lo sguardo la folla muta e sbalordita di Cacciatori. L’unico altro suono nella sala proveniva da Aloysius Starkweather, che rideva sottovoce. — Charlotte ve l’aveva detto — ansimò. — Vi aveva detto cosa sarebbe successo… Un attimo dopo, l’automa avanzò, allungando di scatto le mani artigliate per richiuderle sulla gola di Starkweather. Il sangue zampillò dalla gola del vecchio mentre la creatura sollevava il corpo. I Cacciatori si misero a gridare… e poi le porte si spalancarono e una schiera di creature meccaniche si riversò nella sala. — Be’ — disse una voce molto divertita. — Questa proprio non me l’aspettavo. Tessa si mise a sedere di scatto, coprendosi con il pesante copriletto. Accanto a lei, Will si mosse, puntellandosi sui gomiti e sbattendo piano le palpebre prima di aprirle. — Cosa…? La stanza era inondata da una luce vivida. Le torce si erano accese in tutta la loro potenza, illuminandola a giorno. Tessa vide in che stato avevano ridotto la stanza: i vestiti sparpagliati sul pavimento e sul letto, il tappeto davanti al caminetto spiegazzato, le lenzuola avviluppate intorno a loro. Dall’altro lato della parete invisibile c’era una figura familiare in un elegante abito blu, un pollice infilato nella cintura dei pantaloni. I suoi occhi dalle pupille di gatto che scintillavano di gioia. Magnus Bane. — Forse è meglio che vi alziate — disse. — Tra poco saranno tutti qui per salvarvi, e credo che preferireste essere vestiti, quando arriveranno. — Scrollò le spalle. — Almeno, io lo preferirei perché, in fondo, sono noto per essere un timidone. Will imprecò in gallese. Si era alzato a sedere, con le coperte avvolte intorno alla vita, e aveva fatto del suo meglio per spostarsi in modo da proteggere Tessa dagli sguardi dello stregone. Era senza camicia e, alla luce più vivida, Tessa vide il punto in cui l’abbronzatura delle mani e del viso scoloriva nel bianco più chiaro del torace e della schiena. Il segno bianco a forma di stella sulla spalla scintillava come una luce, e Tessa vide gli occhi di Magnus posarvisi e socchiudersi. — Interessante — disse lo stregone. Will emise un vago verso di protesta. — Interessante? Per l’Angelo, Magnus…

Lo stregone gli lanciò un’occhiata storta, dando l’impressione di sapere cose che loro non sapevano. — Se fossi una persona diversa, ora avrei molto da dirvi. — Apprezzo la tua moderazione. — Tra poco non lo farai più. — Magnus alzò una mano, come per bussare a una porta, e diede dei colpetti alla parete invisibile. Fu come guardare qualcuno immergere la mano nell’acqua: piccole increspature si allargarono dal punto in cui le dita avevano toccato la parete, che a un tratto scivolò via e sparì in una pioggia di scintille. — Ecco fatto! — Lo stregone gettò sul letto una sacca di cuoio. — Vi ho portato due tenute da combattimento. Pensavo che magari avreste avuto bisogno di vestiti, ma non mi rendevo conto di quanto ne avreste avuto bisogno. Tessa lo fulminò con lo sguardo. — Come hai fatto a trovarci qui? Come facevi a sapere? Chi degli altri è con te? Stanno tutti bene? — Sì. Sono in pochi, e stanno correndo in lungo e in largo per questo posto alla vostra ricerca. Ora vestitevi. Magnus si girò, concedendo loro un po’ di intimità. Imbarazzata, Tessa allungò una mano verso la sacca, vi frugò dentro finché non trovò la sua tenuta, quindi si alzò con il lenzuolo avvolto intorno al corpo e corse dietro l’alto paravento cinese, nell’angolo della stanza. Nel farlo, non guardò Will; non ci riuscì. Come poteva guardarlo senza pensare a ciò che avevano fatto? Senza chiedersi se fosse inorridito, se fosse incredulo del fatto che fossero stati capaci di fare una cosa simile dopo che Jem… Indossò la tenuta, con gesti bruschi e nervosi. Grazie al cielo, a differenza dei vestiti, poteva essere indossata senza dover ricorrere all’aiuto di nessuno. Attraverso il paravento sentì Magnus spiegare a Will che, grazie a una combinazione di magia e scienza, lui e Henry erano riusciti a creare un portale che li aveva trasportati da Londra al Cadair Idris. Tessa distingueva solo le loro sagome, ma vide Will annuire sollevato mentre Magnus elencava quelli che erano venuti con lui: Henry, Charlotte, i fratelli Lightwood, Ciryl, Sophie, Cecily, Bridget e un gruppetto di Fratelli Silenti. Nel sentire il nome della sorella, Will accelerò la vestizione. Era già vestito di tutto punto, quando Tessa uscì da dietro il paravento, con la tenuta e gli stivali allacciati, le mani serrate sulla cintura delle armi. Nel vederla, il suo viso si aprì in un impacciato sorriso. — Gli altri si sono sparpagliati nei tunnel per cercarvi — ripeté Magnus. — Ci eravamo dati mezz’ora per trovarvi, poi dovevamo riunirci in una sala centrale. Vi darò un momento per… riprendervi. — Fece un sorrisetto e indicò la porta. — Vi aspetto in corridoio. Nell’istante in cui la porta si chiuse alle sue spalle, Tessa si ritrovò tra le braccia di Will, con le mani intrecciate intorno al suo collo. — Oh, per l’Angelo… È stato davvero mortificante. Will le infilò le mani tra i capelli e quindi cominciò a baciarla. Le baciò le palpebre e le guance e poi la bocca, svelto ma con fervore e concentrazione, come se non potesse esservi nulla di più importante. — Hai nominato l’Angelo… come una Cacciatrice. — Le baciò l’angolo della bocca. — Ti amo, ti amo. Ho aspettato tanto per dirlo. — Non sei… dispiaciuto? — chiese Tessa, esitante. — Dispiaciuto! — Will era incredulo. — Nage ddim… sei matta se pensi che io sia dispiaciuto, Tess. — Le sfiorò una guancia. — C’è altro, talmente tanto altro che vorrei dirti… — Ma no! — lo canzonò lei. — Davvero Will Herondale ha qualcos’altro da dire? Will ignorò la punzecchiatura. — Ora però non è il momento; non con Mortmain che, con tutta probabilità, ci sta addosso… e Magnus fuori della porta. Dobbiamo portare a termine la missione.

Ma, quando sarà finita, ti dirò tutto quello che ho sempre voluto dirti. Per ora… — La baciò di nuovo. — Ho bisogno di sapere che mi credi quando dico che ti amo. Tutto qui. — Credo a tutto quello che dici. — Tessa sorrise mentre le mani scivolavano alla cintura delle armi di Will. Le sue dita si chiusero sull’impugnatura di un pugnale, che sfilò di colpo, sorridendo nel vedere lo sguardo sorpreso del ragazzo. Baciò Will sulla guancia e fece un passo indietro. — Dopotutto, non mentivi sul tatuaggio del drago gallese, no? La sala ricordava a Cecily l’interno della cupola di St. Paul, dove Will l’aveva portata in una delle sue rare giornate serene. Era l’edificio più grande che avesse mai visto. Avevano provato l’eco delle loro voci nella camera a sussurro interna, e poi letto l’iscrizione lasciata da Christopher Wren: Si monumentum requiris, circumspice. — Se cerchi il monumento, guardati attorno. Will le aveva spiegato cosa significava, che Wren preferiva essere ricordato per gli edifici che aveva costruito piuttosto che per una qualunque lapide tombale. L’intera cattedrale era un monumento alla sua arte… così come, per certi versi, tutto quel labirinto sotto la montagna, e soprattutto quella sala, era un monumento a quella di Mortmain. Anche lì c’era un soffitto a cupola, sebbene non ci fossero finestre. Intorno alla parte superiore della cupola correva una galleria circolare munita di una piattaforma dalla quale, presumibilmente, si poteva guardare il pavimento di pietra liscia. Anche lì c’era un’iscrizione. Quattro frasi scolpite nella parete in quarzo scintillante: I CONGEGNI INFERNALI NON HANNO PIETÀ. I CONGEGNI INFERNALI NON HANNO RIMORSO. I CONGEGNI INFERNALI NON HANNO FINE. I CONGEGNI INFERNALI TORNERANNO SEMPRE. Sul pavimento di pietra, schierati in file, c’erano centinaia di automi. Indossavano un eterogeneo assortimento di uniformi militari ed erano immobili, con gli occhi chiusi. Soldatini di stagno che avevano assunto dimensioni umane, pensò Cecily. I Congegni Infernali. La grande creazione di Mortmain… un esercito nato per essere inarrestabile, per massacrare i Cacciatori e andare avanti senza rimorso. Sophie era stata la prima a scoprire la sala; aveva urlato, e tutti gli altri erano accorsi per capire il perché. L’avevano trovata, tremante, tra le immobili creature meccaniche. Una di esse giaceva ai suoi piedi; Sophie le aveva reciso le gambe con un fendente della spada, e quella si era accasciata a terra come una marionetta a cui avessero tagliato i fili. Gli altri automi non si erano mossi o svegliati nonostante il destino del loro compagno, e ciò aveva dato ai Cacciatori il coraggio di avanzare tra di essi. Henry era in ginocchio accanto al carapace di uno degli automi; aveva fatto scivolare via l’uniforme e aperto il torace metallico, esaminando quel che c’era dentro. I Fratelli Silenti gli stavano accanto, insieme a Charlotte, Sophie e Bridget. Anche Gideon e Gabriel erano tornati, senza che le loro ricerche avessero dato alcun frutto. Solo Magnus e Cyril mancavano all’appello. Cecily non poteva reprimere il disagio che la stava invadendo… non per la presenza degli automi, ma per l’assenza di Will. Nessuno lo aveva ancora trovato. Poteva darsi che non fosse lì che bisognava cercarlo? Tuttavia non disse nulla. Si era ripromessa che, in quanto Cacciatrice, non avrebbe fatto storie, e neppure avrebbe strillato, qualunque cosa fosse successa.

— Guardate qui — mormorò Henry. Dentro il torace dell’automa c’era un intrico di fili e quello che a Cecily parve una scatola di metallo, del tipo che avrebbe potuto contenere tabacco. Sulla parte esterna della scatola era inciso il simbolo di un serpente che inghiottiva la propria coda. — L’uroboro. Il simbolo del contenimento delle energie demoniache. — Come sulla Pyxis — disse Charlotte. — Che Mortmain ci ha rubato. — Henry annuì. — È proprio come temevo. — E cos’è che temevi? — domandò Gabriel. — Che Mortmain provasse ad animare gli automi — rispose Henry con aria assente, allungando una mano verso la scatola. — Dargli una coscienza, perfino… — Si interruppe quando le sue dita toccarono la scatola, che improvvisamente emise una luce vivida: come l’illuminazione di una pietra runica di stregaluce, se ne riversò fuori attraverso l’uroboro. Henry balzò indietro con un urlo, ma troppo tardi. La creatura si alzò, mettendosi velocemente in funzione, e lo afferrò. Charlotte strillò e si gettò in avanti, ma non fu abbastanza svelta. L’automa, con il torace ancora grottescamente aperto, strinse il corpo di Henry facendolo schioccare come una frusta. Risuonò un terribile colpo secco, e l’inventore si accasciò. L’automa lo gettò da parte, si voltò e schiaffeggiò brutalmente Charlotte, che si afflosciò accanto al corpo del marito, mentre la creatura faceva un passo avanti e afferrava Fratello Micah. Il Fratello Silente abbatté il proprio bastone sulla mano dell’automa, ma la creatura non sembrò nemmeno farci caso. Con un brontolio di macchinari che parve una risata, l’automa allungò le braccia e tagliò la gola a Micah. Il sangue zampillò nella stanza, e Cecily fece esattamente ciò che si era ripromessa di non fare: strillò.

*

Johannes Liechtenauer (o Lichtenauer) fu un famoso maestro di scherma tedesco vissuto nel XIV secolo.

21 ORO ARDENTE

Portatemi il mio arco d’oro ardente: Portatemi le mie frecce del desiderio: Portatemi la mia lancia: Oh, nubi, apritevi! Portatemi il mio carro di fuoco. William Blake, Jerusalem

Durante l’addestramento all’Istituto, Tessa non aveva mai avuto modo di sperimentare quanto fosse difficile correre con un’arma legata al fianco. A ogni passo che faceva, il pugnale le sbatteva contro la gamba, e la punta le graffiava la pelle. Sapeva che avrebbe dovuto portarla in un fodero, ma ormai era inutile fare ricorso al senno di poi. Will e Magnus stavano correndo a perdifiato lungo i corridoi all’interno del Cadair Idris, e lei faceva del suo meglio per stare al loro passo. Era Magnus che faceva strada, dal momento che sembrava avere idea di dove andare. Tessa aveva percorso l’intrico di corridoi tortuosi soltanto bendata, e Will ammise di ricordare ben poco del suo viaggio solitario della notte precedente. I tunnel si stringevano e si allargavano apparentemente senza alcuna logica mentre il gruppetto avanzava nel labirinto. Alla fine, nell’imboccare un tunnel più largo, sentirono qualcosa… il suono di un lontano grido di orrore. Will sgranò gli occhi. — Cecily! — mormorò, e un attimo dopo correva due volte più veloce di quanto avesse fatto fino ad allora, con Magnus e Tessa che faticavano a stargli dietro. Sfrecciarono attraverso strane sale: una aveva la porta che sembrava schizzata di sangue; in un’altra Tessa riconobbe quella in cui Mortmain l’aveva costretta a trasformarsi; in una terza, una grande grata di metallo era mossa da un vento invisibile. Mentre continuavano a correre, i suoni di grida e battaglia aumentarono, finché i tre non irruppero in una grande sala circolare. Era piena di automi. Ce n’erano file su file, tutti quelli che si erano riversati sul villaggio la notte prima, quando Tessa era stata a guardare impotente. Perlopiù erano immobili, ma un gruppo, al centro della stanza, si muoveva… si muoveva ed era impegnato in una feroce battaglia. Era come rivedere ciò che era accaduto sui gradini d’ingresso dell’Istituto quando Tessa era stata rapita: i fratelli Lightwood che combattevano fianco a fianco, Cecily che brandiva una sfavillante lama angelica, il corpo di un Fratello Silente accasciato a terra. Tessa registrò vagamente che altri due Fratelli Silenti stavano combattendo al fianco dei Cacciatori, anonimi nelle loro tonache color pergamena munite di cappucci, ma la sua attenzione non

era rivolta a loro. Era rivolta a Henry, che giaceva completamente immobile sul pavimento. Charlotte, accovacciata sulle ginocchia, lo teneva tra le braccia, quasi per proteggerlo dalla battaglia che divampava intorno a loro, ma dal pallore del viso di Henry e dall’immobilità del suo corpo Tessa intuì che era troppo tardi per proteggerlo da alcunché. Will si lanciò in avanti. — Niente lame angeliche! — gridò. — Combatteteli con altre armi! Le lame angeliche sono inutili! Nel sentirlo, Cecily balzò indietro mentre la sua lama angelica sfiorava l’automa contro cui stava combattendo… e si sgretolava come ghiaccio secco, il suo fuoco ormai estinto. Ebbe la presenza di spirito di abbassarsi, evitando il braccio roteante della creatura proprio mentre Cyril e Bridget si precipitavano verso di lei. L’automa cadde sotto i colpi del robusto bastone che Cyril brandiva, mentre Bridget, una fulminea minaccia di capelli rossi e lame d’acciaio, passò accanto a Cecily diretta verso Charlotte, recidendo le braccia a due automi prima di ruotare su se stessa e dare la schiena al capo dell’Istituto, come se intendesse proteggerla a costo della sua stessa vita. D’un tratto le mani di Will afferrarono saldamente Tessa per la parte superiore delle spalle. Lei scorse il suo viso bianco e tirato mentre la spingeva verso Magnus, sibilando: — Sta’ con lei! — Tessa fece per protestare, ma Magnus l’afferrò e la trascinò indietro mentre Will si gettava nella mischia facendosi strada verso la sorella. Cecily stava respingendo l’attacco di un massiccio automa che aveva il torace a botte e due braccia sul lato destro. Abbandonata la lama angelica, disponeva solo di una corta spada per difendersi. I suoi capelli cominciarono a sciogliersi dai fermagli quando fece un affondo, colpendo la spalla della creatura. Quella mugghiò come un toro, e Tessa rabbrividì. Prima che Mortmain le modificasse erano state mute… erano state cose; ormai erano esseri viventi, malevoli e letali. Si protese in avanti mentre l’automa che lottava con Cecily afferrava la corta spada e gliela strappava di mano, tirandola verso di sé. Sentì Will gridare il nome della sorella… Ma Cecily fu presa e gettata da parte da uno dei Fratelli Silenti. In un turbinio color pergamena, l’incappucciato roteò per fronteggiare la creatura metallica tenendo il bastone davanti a sé. Mentre l’automa avanzava verso di lui barcollando, l’uomo sferrò un colpo di bastone, con tale velocità e forza che la creatura fu scaraventata indietro con il torace ammaccato: cercò di avanzare di nuovo, ma era troppo malmesso. Rimettendosi alla svelta in piedi, Cecily gridò un avvertimento. Un’altra creatura era apparsa minacciosamente dietro la prima. Mentre il Fratello Silente si girava, il secondo automa gli strappò il bastone di mano e lo abbrancò, sollevandolo in aria e serrandolo tra le appendici di metallo nella parodia di un abbraccio. Il cappuccio del confratello scivolò via, e i suoi capelli argentei scintillarono nella sala scura come luce stellare. Tutta l’aria fuoriuscì dai polmoni di Tessa in un solo istante. Il Fratello Silente era Jem. Jem… Fu come se il mondo si fosse fermato. Ogni figura era immobile, perfino gli automi, impietriti tutti nello stesso istante. Tessa guardò Jem attraverso la stanza, e lui le restituì lo sguardo. Jem, nella tonaca color pergamena dei Fratelli Silenti. Jem, i cui capelli argentei, ricadendogli sul viso, erano striati di nero. Jem, le cui guance erano solcate da due tagli rossi uguali, uno su ogni zigomo. Jem, che non era morto. Tessa, scuotendosi dallo shock che l’aveva paralizzata, sentì Magnus dirle qualcosa, lo sentì

allungare la mano verso il suo braccio, ma si divincolò e si gettò nella mischia. Lo stregone le gridò un avvertimento, ma Tessa non vedeva altro che Jem. Jem stava tentando di afferrare il braccio dell’automa che gli stringeva la gola; le sue dita raspavano, incapaci di trovare una presa sul metallo liscio. La presa dell’automa si serrò, e il sangue cominciò ad affluire al viso di Jem mentre soffocava. Tessa estrasse il pugnale e lo brandì davanti a sé per farsi strada, ma sapeva che era impossibile, sapeva che non avrebbe fatto in tempo a raggiungerlo… D’un tratto l’automa emise un ruggito e vacillò. Gli erano state mozzate le gambe da dietro, e Tessa vide Will che si rialzava dalla posizione accucciata impugnando una spada dalla lunga lama. Il Nephilim allungò una mano verso l’automa, come per afferrarlo ed evitare che cadesse, ma quello si era già schiantato a terra finendo per metà addosso a Jem, a cui era sfuggito il bastone di mano. Jem giaceva immobile, inchiodato al pavimento dalla massiccia macchina sopra di lui. Tessa schizzò in avanti, abbassandosi per evitare il braccio teso di un’altra creatura meccanica. Sentì Magnus gridare qualcosa alle sue spalle, ma lo ignorò. Se fosse riuscita a raggiungere Jem prima che venisse ferito gravemente, o perfino schiacciato… ma, mentre correva, un’ombra le oscurò la vista. Si fermò con una scivolata e alzò gli occhi sulla faccia di un automa che la guardava biecamente e cercava di afferrarla con le dita artigliate. L’impeto della caduta e il peso dell’automa sulla schiena fecero restare Jem senza fiato. Per un momento vide le stelle e stentò a respirare, con il petto scosso da spasmi. Prima di diventare un Fratello Silente, prima che gli appoggiassero il primo coltello rituale sulla pelle e gli incidessero sul viso le linee che avrebbero dato inizio al processo della sua trasformazione, quella caduta, quella botta, avrebbero potuto ucciderlo. In quel momento, mentre inspirava di nuovo l’aria nei polmoni, si ritrovò a dimenarsi nel tentativo di prendere il bastone, mentre la mano della creatura si serrava sulla sua spalla… E un fremito corse attraverso il corpo dell’automa, insieme al tintinnio del metallo sul metallo. Jem afferrò il bastone e lo spinse verso l’alto, colpendo la testa della creatura, mentre la metà superiore del corpo metallico veniva sollevata e gettata da parte. Jem allontanò con un calcio il peso che gli schiacciava ancora le gambe, poi anche quello scomparve. Will si inginocchiò accanto all’amico che giaceva a terra. — Jem… — mormorò, con il viso bianco come cenere. Intorno a loro regnava la calma, una tregua nella battaglia, un silenzio inquietante, infinito. Nella voce di Will si percepiva il peso di mille cose: incredulità e stupore, sollievo e tradimento. Jem cominciò a issarsi faticosamente sui gomiti proprio mentre la spada di Will, sporca di olio nero e coperta di ammaccature, cadeva rumorosamente a terra. — Sei morto — disse Will. — Ti ho sentito morire. — E si mise la mano sul cuore, sulla camicia sporca di sangue, dov’era la runa parabatai. — Qui. Jem cercò la mano dell’amico e ne premette le dita contro il proprio polso. Voleva ardentemente che Will capisse. Sentimi il polso, il battito del sangue sotto la pelle; i Fratelli Silenti hanno un cuore, e batte. — Non sono morto. Sono cambiato. Se avessi potuto dirtelo… se solo ci fosse stato un modo… Will lo fissò, a occhi spalancati, con il petto che si alzava e si abbassava velocemente. L’automa gli aveva ferito un lato del viso. Sanguinava da parecchi tagli profondi, ma non sembrava farci caso.

Ritirò la mano dalla presa di Jem ed esalò lentamente l’aria. — Roeddwn i’n meddwl dy fod wedi mynd am byth — disse istintivamente in gallese Jem capì comunque le parole. Le rune dei Fratelli Silenti facevano sì che nessuna lingua gli fosse sconosciuta. Pensavo che te ne fossi andato per sempre. — Sono ancora qui — disse Jem, e poi vide un guizzo con la coda dell’occhio e si mosse fulmineo, rotolando di lato. Un’ascia di metallo colpì sibilando lo spazio in cui era stato fino a un attimo prima e sbatté rumorosamente contro il pavimento di pietra. Gli automi li avevano circondati. Will balzò in piedi, con la spada in pugno, e si ritrovarono schiena contro schiena. — Nessuna runa ha effetto su di loro. Vanno fatti a pezzi con la forza bruta… — L’avevo capito. — Jem strinse il bastone e lo abbatté con violenza, spingendo un automa contro la parete vicina. Scintille sprizzarono dal carapace di metallo. Will colpì con la spada, tranciando le ginocchia munite di giunture di due creature. — Mi piace il tuo aggeggio. — È un bastone dei Fratelli Silenti. — Jem lo brandì per respingere un altro automa. — Le Sorelle di Ferro li fabbricano solo per noi. Will fece un affondo, recidendo di netto il collo di un’altra creatura, la cui testa rotolò a terra, con un miscuglio di olio e vapore che si riversò dal collo frastagliato. — Chiunque può fabbricare una cosa del genere. — È un bastone dei Fratelli Silenti — ripeté Jem, e con la coda dell’occhio scorse il sorriso guizzante di Will. Avrebbe voluto restituirgli il sorriso… c’era un tempo in cui lo avrebbe fatto spontaneamente, ma qualcosa nel cambiamento che aveva subito metteva quella che sembrava una distanza di anni tra lui e dei gesti mortali così naturali. La sala era una massa di corpi in movimento e armi roteanti; Jem non vedeva distintamente nessuno degli altri Cacciatori. Era consapevole di avere Will accanto a sé, che accordava il passo al suo e lo eguagliava per numero di colpi. Mentre il metallo tintinnava sul metallo, una parte interna di Jem, una parte che era andata perduta senza che neppure se ne fosse reso conto, provò il piacere di combattere un’ultima volta insieme all’amico. — D’accordo, James — replicò Will. — Come dici tu… Tessa sollevò il pugnale e lo conficcò nel carapace di metallo dell’automa. La lama penetrò con uno sgradevole suono stridulo, a cui fece seguito una risata roca. Con un tuffo al cuore, la ragazza alzò lo guardo e vide la faccia liscia di Armaros. — Signorina Gray, dovreste sapere che non è così semplice. Nessuna arma tanto piccola può farmi a pezzi, e poi non siete abbastanza forte. Tessa aprì la bocca per urlare, ma Armaros la bloccò e le mise una mano sulla bocca per soffocarne il grido. Attraverso il caos di movimenti nella sala, attraverso il balenio delle spade e del metallo, Tessa vide Will fare a pezzi l’automa che era caduto su Jem. Will allungò le braccia per spostarlo proprio mentre Armaros le sbraitava nell’orecchio: — Sarò anche fatto di metallo, ma ho il cuore di un demone, e il mio cuore di demone ha una gran voglia di banchettare con la vostra carne. L’automa cominciò a trascinare Tessa all’indietro attraverso il combattimento in corso, mentre lei

lo colpiva con gli stivali. Le spinse la testa di lato, graffiandole con le dita aguzze la pelle della guancia. — Non puoi uccidermi — disse Tessa, senza fiato. — L’angelo che porto protegge la mia vita… — Oh, certo… non posso uccidervi. Ma posso farvi del male. E posso farlo nel modo più raffinato. Non ho carne con cui provare piacere, perciò il solo piacere che mi resta è causare dolore. Finché l’angelo che portate al collo vi protegge – come anche gli ordini del Magister – devo fermare la mia mano, ma se il potere dell’angelo venisse meno – se mai dovesse venire meno – vi farei a pezzi con le mie mandibole di metallo. Ormai erano al di fuori del circolo in cui si combatteva, e l’automa demoniaco stava portando Tessa in una nicchia parzialmente nascosta da un pilastro di pietra. — Meglio morire per mano tua che sposare Mortmain. — Non preoccupatevi — replicò Armaros mentre la portava nell’ombra. Le sue fredde dita di metallo le cinsero le braccia come manette. — Mi assicurerò che entrambe le cose accadano. — Anche se parlava senza emettere aria, le sue parole sembrarono comunque un sussurro contro la pelle di Tessa, un sussurro che la fece rabbrividire dall’orrore. Cecily vide il fratello fare a pezzi l’automa che aveva assalito Fratello Zachariah. Il fragore del metallo, quando quello cadde a faccia avanti, le lacerò i timpani. Si mise a correre verso Will, estraendo un pugnale dalla cintura… ma qualcosa le si chiuse intorno alla caviglia, facendo sì che perdesse l’equilibrio. Cadde sulle ginocchia e sui gomiti e, quando si girò, vide che ad afferrarla era stata la mano senza corpo di un automa. Recisa all’altezza del polso, con fiotti di liquido nero che zampillavano dai fili che ancora spuntavano dal metallo frastagliato, aveva le dita conficcate nello stivale della ragazza. Cecily si divincolò e girò su se stessa, colpendo la cosa finché le dita non si allentarono e si allargarono. La mano cadde a terra come un granchio morto, contraendosi leggermente. Cecily gemette di disgusto ma, quando si rialzò barcollando, scoprì di aver perso di vista Will e Fratello Zachariah. La sala era una confusa macchia in movimento. Vide Gabriel, schiena a schiena con Gideon, e un mucchio di automi morti ai loro piedi. Gabriel aveva la tenuta lacerata alla spalla e sanguinava. Cyril era accasciato a terra; Sophie gli si era avvicinata e stava menando fendenti in circolo. Cecily non vide Magnus, tuttavia scorse nell’aria una traccia di scintille azzurre che ne indicavano la presenza. E poi ecco Bridget, visibile a sprazzi tra i corpi in movimento delle creature meccaniche; la sua arma era una chiazza indistinta, i capelli rossi simili a un vessillo ardente. Cecily cercò di raggiungerli facendosi largo tra la folla. A metà strada lasciò cadere il pugnale e raccolse un’ascia dal lungo manico fatta cadere da uno degli automi. Era sorprendentemente leggera nella sua mano, e si conficcò senza sforzo nel petto di un demone meccanico che aveva allungato le braccia per afferrare la ragazza. E poi la giovane balzò su un mucchio informe di automi caduti, perlopiù a pezzi e con gli arti sparpagliati qua e là… era senza dubbio da lì che proveniva la mano che le aveva agguantato la caviglia. All’altra estremità del mucchio c’era Bridget: roteava vigorosamente la spada per respingere il flusso di mostri meccanici che minacciavano di avanzare su Charlotte e Henry. Diede appena un’occhiata a Cecily mentre questa le correva accanto e si inginocchiava vicino al capo dell’Istituto.

— Charlotte… La donna alzò lo sguardo. Aveva il viso pallido per le violente emozioni, le pupille talmente dilatate che sembravano avere inghiottito il marrone chiaro delle iridi. Teneva le braccia intorno a Henry, che aveva la testa adagiata sulla spalla della moglie, e le mani intrecciate sul suo petto. L’uomo sembrava esanime. — Charlotte — ripeté Cecily. — Non possiamo vincere questa battaglia. Dobbiamo ritirarci. — Non riesco a spostare Henry! — Charlotte… Ormai non ha più bisogno del nostro aiuto. — Non è vero — ribatté Charlotte, sconvolta. — Posso ancora sentirgli il polso. Cecily allungò una mano. — Charlotte… — Non sono pazza! È vivo, e non lo lascerò! — Charlotte, il bambino — disse Cecily. — Henry vorrebbe che vi salvaste. Qualcosa guizzò negli occhi della donna… che serrò la stretta sul marito. — Senza Henry non possiamo andarcene, non possiamo attivare un portale. Siamo intrappolati nella montagna! Cecily trasalì. Non ci aveva pensato. Il cuore le batté all’impazzata e, attraverso le vene, le inviò un funereo messaggio: Moriremo. Moriremo tutti . Perché aveva fatto quella scelta? Mio Dio, cosa aveva fatto? Sollevò la testa, e con la coda dell’occhio vide un familiare guizzo azzurro e nero… Will? L’azzurro le ricordava qualcosa… scintille che si alzavano al di sopra del fumo… — Bridget — disse. — Porta qui Magnus. Bridget scosse la testa. — Se vi lascio, in cinque minuti sarete morti. — Come per sostenere quell’affermazione, calò la spada su un automa che si stava lanciando contro di loro. La creatura finì spaccata in due metà perfettamente uguali, che caddero una da una parte e una dall’altra. — Non capisci — insistette Cecily. — Abbiamo bisogno di Magnus… — Sono qui. — Lo stregone apparve all’improvviso. Sul collo aveva un lungo taglio, poco profondo ma sanguinante. A quanto pare, il sangue degli stregoni era rosso come quello degli umani. Lo sguardo di Magnus si posò su Henry e un’incommensurabile tristezza gli attraversò il viso. Era l’espressione di un uomo che aveva visto morire centinaia di persone, che aveva subito infinite perdite, e ne stava affrontando un’ennesima. — Mio Dio — mormorò. — Era un brav’uomo. — No! — gridò Charlotte. — Vi dico che ho sentito il polso… non parlate di lui come se fosse già morto… Magnus si inginocchiò e allungò una mano verso le palpebre di Henry. Cecily si chiese se avesse intenzione di pronunciare l’addio di prammatica per i Cacciatori, e invece lo stregone ritrasse di colpo la mano, socchiudendo gli occhi. Un attimo dopo, le sue dita erano sulla gola di Henry. Borbottò qualcosa in una lingua che Cecily non capì. Poi, quasi tra sé, disse: — È quasi impercettibile, ma il suo cuore batte davvero. — Ve l’avevo detto — mormorò Charlotte. Gli occhi di Magnus guizzarono su di lei. — È vero. Scusatemi se non vi ho dato ascolto. — Il suo sguardo si abbassò nuovamente su Henry. — Ora state zitti, tutti. — Alzò la mano che non era premuta contro la sua gola e schioccò le dita. Immediatamente l’aria intorno a loro sembrò addensarsi e curvarsi come vetro vecchio. Una solida cupola si materializzò sopra Henry, Charlotte, Cecily e Magnus, intrappolandoli in una bolla scintillante e silenziosa. Attraverso di essa Cecily continuava a vedere la stanza tutt’intorno, gli automi che combattevano, Bridget che proseguiva la sua opera di distruzione, con la spada macchiata di nero. Dentro, era tutto tranquillo.

Cecily gettò una rapida occhiata a Magnus. — Avete creato una parete protettiva. — Sì. — L’attenzione dello stregone era rivolta a Henry. — Non avreste potuto semplicemente crearla intorno a tutti noi e mantenerla? Proteggerci tutti? Magnus scosse la testa. — La magia richiede energia. Potrei mantenere una protezione del genere solo per breve tempo. — Si chinò in avanti mormorando qualcosa, e una scintilla azzurra volò dalle sue dita sulla pelle di Henry: sembrò infilarvisi e accendere una sorta di fuoco nelle vene. Due scie di fuoco gli divamparono su per le braccia, seguendo il contorno del collo e del viso. Charlotte, che lo teneva, sussultò mentre il corpo del marito era scosso da spasmi e la sua testa scattava in avanti. Henry spalancò gli occhi. Avevano la stessa tinta del fuoco azzurro che gli bruciava nelle vene. — Che cosa è successo? — domandò con voce roca. Charlotte scoppiò in lacrime. — Henry! Oh, mio caro Henry. — Gli si aggrappò e si mise a baciarlo freneticamente, e lui le passò le dita tra i capelli tenendola stretta a sé, mentre Cecily e Magnus distoglievano lo sguardo. Quando, alla fine, Charlotte lasciò andare il marito, continuando ad accarezzargli i capelli e a sussurrare, lui cercò di mettersi seduto e cadde all’indietro. I suoi occhi incontrarono quelli di Magnus. Lo stregone abbassò lo sguardo e lo distolse, con le palpebre che gli calavano per la stanchezza e per qualcos’altro. Qualcosa che fece stringere il cuore a Cecily. — Henry, senti molto dolore? — chiese Charlotte, spaventata. — Puoi alzarti? — Il dolore è poco, ma non posso alzarmi — rispose Henry. — Non mi sento più le gambe. Magnus continuava a fissare il pavimento. — Mi dispiace. Ci sono cose che la magia non può fare, alcune ferite su cui non ha effetto. L’espressione sul viso di Charlotte era terribile a vedersi. — Henry… — Posso sempre creare un portale — la interruppe il marito. — Possiamo scappare da questo posto. — Cercò di girarsi, di guardarsi intorno, e sussultò, sbiancando. — Come sta andando? — Siamo in netta minoranza numerica — disse Cecily. — Tutti combattono per salvarsi la vita… — Per salvarsi la vita, ma non per vincere? Magnus scosse la testa. — Non possiamo vincere. Non c’è speranza. Sono in troppi. — E Tessa? — Will l’ha trovata — rispose Cecily. — Sono qui, nella sala. Henry chiuse gli occhi, inspirò a fatica, quindi li riaprì. La tinta azzurra aveva già cominciato a sbiadire. — Allora dobbiamo creare un portale. Ma prima bisogna attirare l’attenzione degli altri, separarli dagli automi in modo che questi non vengano risucchiati con noi verso l’Istituto. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che uno qualsiasi di questi Congegni Infernali se ne vada a passeggio per Londra. — Henry guardò lo stregone. — Metti una mano nella tasca della mia giacca. Magnus prese dalla tasca una piccola scatola dorata, senza cerniere o aperture visibili. Cecily vide che la sua mano tremava leggermente. Senza dubbio lo sforzo per mantenere solida la parete protettiva intorno a loro cominciava a farsi sentire. — Cecily… prendila, per favore. — Henry parlava a fatica. — Prendila, e gettala. Più forte che puoi. Magnus le porse la scatola, con dita tremanti. Cecily la sentì tiepida sul palmo della mano, ma non avrebbe saputo dire se lo era perché conteneva qualcosa di caldo o perché era la sua mano a essere fredda. Spostò lo sguardo sullo stregone, che aveva il viso tirato. — Ora faccio dissolvere la parete — disse Magnus. sollevando le mani.

Ci fu una pioggia di scintille; la parete tremolò e svanì. Cecily spinse indietro il braccio e lanciò la scatola. Per un attimo non successe nulla. Poi ci fu un’implosione sorda… un rumore che confluiva verso l’interno, come se tutto nella sala venisse risucchiato da un enorme tubo di scarico. Cecily si sentì tappare le orecchie e si afflosciò a terra, portandosi le mani ai lati della testa. Anche Magnus era in ginocchio, e il gruppetto si strinse insieme mentre quello che sembrava un vento impetuoso spazzava la sala. Il vento mugghiava, e insieme al rumore del vento risuonò quello del metallo che scricchiolava e si lacerava, mentre le creature meccaniche nella sala cominciavano a vacillare e a inciampare. Cecily vide Gabriel balzare via per evitare un automa che cadeva ai suoi piedi e poi veniva assalito da spasmi, le braccia e le gambe che si agitavano come se fosse in preda a un attacco di convulsioni. Gli occhi della ragazza guizzarono verso Will e il Fratello Silente accanto al quale combatteva, il cui cappuccio era scivolato indietro. Anche nel bel mezzo di quella baraonda, Cecily si sentì assalire da una violenta emozione. Fratello Zachariah era… Jem. Sapeva che Jem era andato nella Città Silente per diventare un Fratello Silente o morire nel tentativo di farlo, ma che sarebbe stato abbastanza bene da essere lì con loro, a combattere a fianco di Will come faceva un tempo, che ne avrebbe avuto la forza… Uno schianto interruppe quei pensieri. Un mostro meccanico era crollato a terra tra Will e Jem, costringendoli a balzare via. La sala era pervasa dal particolare odore che precede una tempesta. — Henry…? — Charlotte aveva un’espressione confusa sul viso. Quello del marito era tirato per il dolore. — È una specie di Pyxis, concepita per staccare le anime dei demoni dai loro corpi. Non ho avuto il tempo di… perfezionarla. Ma mi è sembrato che valesse la pena provare. Magnus si alzò, vacillando. La sua voce si levò al di sopra del rumore del metallo che si accartocciava e delle acute grida dei demoni. — Venite qui! Tutti voi! Radunatevi, Cacciatori! Bridget rimase dov’era, continuando a combattere contro due automi i cui movimenti erano diventati a scatti, irregolari, ma gli altri cominciarono a correre verso di loro: Will, Jem, Gabriel… Cecily vide il fratello rendersi conto dell’assenza di Tessa nello stesso istante in cui se ne accorgeva lei. Will si girò, con la mano sul braccio di Jem, gli occhi azzurri che esploravano la stanza. Cecily vide le sue labbra formare la parola “Tessa”, sebbene non potesse sentire nulla al di sopra dell’urlo sempre più forte del vento, del vibrare del metallo… — Basta. Un lampo di luce argentea si abbatté dalla cima della cupola, ed esplose attraverso l’aria come le scintille di una girandola pirotecnica. Il vento si placò e cessò, lasciando la sala immersa in un silenzio echeggiante. Cecily alzò lo sguardo. Sulla galleria, a metà della cupola, c’era un uomo con un vestito di buon taglio. Lo riconobbe all’istante. Era Mortmain. — Basta. La voce risuonò attraverso la sala, mandando dei brividi nelle vene di Tessa. Riconobbe Mortmain, il suo modo di parlare, la sua voce, pur non potendo vedere nulla da dietro il pilastro che nascondeva la nicchia in cui Armaros l’aveva trascinata. L’automa demoniaco l’aveva tenuta ben

stretta quando un’esplosione sorda aveva scosso la sala, seguita da un vento pungente e spietato che aveva soffiato davanti alla nicchia senza toccarli. Era calato il silenzio, e Tessa voleva disperatamente divincolarsi dalle braccia di metallo che la tenevano, correre nella sala e vedere se le persone a cui voleva bene fossero state ferite o, peggio, uccise. Ma lottare contro l’automa era come lottare contro un muro. Provò comunque a scalciare, proprio mentre la voce di Mortmain risuonava di nuovo nella sala. — Dov’è la signorina Gray? Portatemela. Armaros emise un rumore sordo e si avviò di scatto. Sollevando Tessa per le braccia, la portò dalla nicchia alla sala principale. Trovarono una scena caotica. Gli automi erano immobili, con lo sguardo fisso verso il Magister. Molti erano accasciati a terra o fatti a pezzi. Il pavimento era scivoloso per un miscuglio di sangue e olio. Al centro della stanza, disposti in circolo, c’erano i Cacciatori e i loro compagni. Cyril era inginocchiato sul pavimento con un pezzo lacero di benda insanguinata intorno alla gamba. Accanto a lui c’era Henry, pallido, tra le braccia di Charlotte. Gli occhi di Will incrociarono quelli di Tessa: un’espressione di sgomento gli passò sul viso, e fece per muoversi. Jem lo afferrò per la manica; anche i suoi occhi, scuri e pieni di orrore, erano fissi su Tessa. La ragazza distolse lo sguardo da entrambi e lo sollevò su Mortmain. Era appoggiato alla ringhiera della galleria, come un predicatore a un pulpito, e li guardava con un sorriso compiaciuto. — Signorina Gray, avete fatto bene a unirvi a noi. Tessa sputò, sentendo in bocca il sapore del sangue in corrispondenza del punto in cui le dita dell’automa le avevano graffiato la guancia. Mortmain sollevò un sopracciglio. — Mettila giù — ordinò ad Armaros. — Tienile le mani sulle spalle. Di nuovo con i piedi per terra, Tessa raddrizzò la schiena, alzando il mento e fulminando Mortmain con un’occhiata truce. — Porta sfortuna vedere la sposa prima del giorno delle nozze. — È vero — replicò Mortmain. — Ma a chi? Tessa non si guardò intorno. La vista di tanti automi, fronteggiati unicamente dal gruppetto malmesso di Cacciatori, era troppo pietosa. — I Nephilim sono già penetrati nella vostra fortezza. Altri li seguiranno. Circonderanno in massa i vostri automi e li distruggeranno. Arrendetevi ora, e forse avrete salva la vita. Mortmain scoppiò a ridere. — Davvero divertente! Siete travolti dalla sconfitta, e chiedete a me di arrendermi. — Non siamo sconfitti… — cominciò Will. Mortmain emise un sibilo tra i denti, che risuonò nella sala echeggiante. Tutti insieme, gli automi nella sala girarono di scatto la testa verso di lui… in una sincronia terrificante. — Non una parola, Nephilim — disse il Magister. — La prossima volta che uno di voi aprirà bocca, esalerà il suo ultimo respiro. — Lasciateli andare — disse Tessa. — Loro non c’entrano niente. Lasciateli andare e tenete me. — Mercanteggiate senza avere niente in mano — replicò Mortmain. — Vi sbagliate, se pensate che altri Cacciatori stiano venendo in vostro aiuto. In questo preciso istante, una cospicua parte del mio esercito sta facendo a pezzi il vostro Consiglio. — Il Magister si godette le espressioni sgomente dei Cacciatori, a quella notizia. — Davvero furbi, i Nephilim, a riunirsi convenientemente tutti nello

stesso posto, così da permettermi di spazzarli via in un colpo solo. — Lasciateli stare — implorò Tessa. — Le vostre lagnanze nei confronti dei Nephilim sono giuste. Ma, se moriranno tutti, chi riceverà una lezione dalla vostra vendetta? Chi farà ammenda? Se non ci sarà nessuno a imparare dal passato, non ci sarà neppure nessuno a trarre insegnamento dalle sue lezioni. Lasciateli vivere. Lasciate che portino i vostri insegnamenti nel futuro. Potrebbero rappresentare il vostro retaggio. Il Magister annuì, meditabondo, quasi soppesando quelle parole. — Li risparmierò… li terrò qui come prigionieri. La loro prigionia vi manterrà allegra e obbediente. E, se mai proverete a scappare, li ucciderò tutti. — Mortmain rimase un istante in silenzio. — Che ne dite, signorina Gray? Sono stato generoso, e ora mi spetta un ringraziamento. L’unico rumore nella sala era lo scricchiolio degli automi e il martellare del sangue nelle orecchie di Tessa. In quel momento capì cosa aveva inteso dire la signora Black nella carrozza con le parole: E più conoscenza di loro avrete, più le vostre simpatie andranno a loro, più sarete un’arma efficace per annientarli. Tessa era diventata una dei Cacciatori, se non interamente come loro. Era affezionata a loro e li amava, e Mortmain avrebbe usato quell’affetto e quell’amore per forzarle la mano. Salvando i pochi che amava, li avrebbe condannati tutti. Eppure condannare a morte Will e Jem, Charlotte e Henry, Cecily e gli altri era impensabile. — D’accordo, accetto lo scambio. — Tessa sentì Jem – o Will? – emettere un suono soffocato. — Dite al demone di lasciarmi andare, e salirò da voi. — No. — Mortmain socchiuse gli occhi. — Armaros, portamela. Le mani del demone si serrarono sulle braccia di Tessa, che si morse il labbro per il dolore. Come per solidarietà, l’angelo meccanico al suo collo ticchettò. Pochi possono reclamare un singolo angelo che vegli su di loro. Tu puoi. Tessa portò le mani al collo. L’angelo sembrò pulsare sotto le dita, come se respirasse, come se cercasse di comunicarle qualcosa. La mano si strinse su di esso, le punte delle ali si conficcarono nel palmo. Tessa ripensò al sogno. È questo il tuo aspetto? Tu vedi solo una frazione di ciò che sono. Nella mia vera forma sono gloria letale. Armaros cominciò a sollevarla. All’interno del vostro angelo meccanico c’è un frammento dello spirito di un angelo, aveva detto Mortmain. Tessa ripensò al segno bianco a forma di stella che l’angelo aveva lasciato sulla spalla di Will. Ripensò al viso, bello e impassibile dell’angelo, alle mani fredde che l’avevano tenuta quando si era gettata dalla carrozza della signora Black ed era precipitata nel burrone. Ripensò al sogno. Respirò profondamente. Non sapeva se quanto stava per fare fosse una buona idea o se fosse pura follia. Chiuse gli occhi e cercò di protendere la mente, di protenderla dentro l’angelo meccanico. Ruzzolò per un istante attraverso uno spazio scuro e un limbo grigio, alla ricerca di quella luce, di quella scintilla di spirito, di quella vita… Ed eccola, una vampata improvvisa, un falò, più chiaro di qualsiasi altra scintilla lei avesse mai visto. Tessa allungò la mano avvolgendosi dentro di essa, dentro quelle spire di fuoco bianco che ardevano e le bruciavano la pelle. Gridò forte… E si trasformò. Il fuoco bianco divampava attraverso le sue vene. Si sollevò in aria mentre la tenuta si lacerava, si

strappava e cadeva, e la luce ardeva tutt’intorno a lei. Tessa era fuoco. Era una stella cadente. Le braccia di Armaros lasciarono la prigioniera… il demone si fuse e si dissolse senza rumore, bruciato da quel fuoco celeste. Tessa stava volando… volava verso l’alto. No, si alzava, cresceva. Le sue ossa si tesero e si allungarono, come un graticcio che venisse tirato all’infuori e all’insù crescendo in maniera inaudita. La sua pelle, divenuta dorata, si allungò e si lacerò mentre il corpo si lanciava verso l’alto come la pianta di fagioli della vecchia favola, e dai punti in cui la sua pelle si lacerava colava un fluido dorato. Dalla testa scaturirono riccioli come scaglie di ardente metallo bianco e le circondarono il viso. Dalla schiena spuntarono due ali… ali massicce, più grandi di quelle di qualsiasi uccello. Guardando in basso, Tessa vide i Cacciatori fissarla a bocca aperta. L’intera stanza era piena di una luce accecante, una luce che si riversava da lei. Era diventata Ithuriel. Il fuoco divino degli angeli ardeva attraverso Tessa incendiandole le ossa, bruciandole gli occhi. Ma lei provava soltanto una calma imperturbabile. Era ormai a circa sei metri di altezza. I suoi occhi erano al livello di quelli di Mortmain, che era pietrificato dal terrore, le mani aggrappate alla ringhiera della galleria. L’angelo meccanico, dopotutto, era stato il suo regalo alla madre di Tessa. Evidentemente non aveva mai immaginato che se ne sarebbe potuto fare un simile uso. — Non è possibile — disse il Magister, con voce roca. — Non è possibile… Avete intrappolato un angelo, disse Tessa… ma in realtà non era lei quella che parlava: era Ithuriel che si esprimeva attraverso di lei. La voce echeggiò attraverso il suo corpo come il rimbombo di un gong. Tessa si chiese vagamente se il suo cuore battesse… gli angeli avevano un cuore? Quella trasformazione l’avrebbe uccisa? In tal caso, ne sarebbe valsa la pena. Avete provato a creare la vita. La vita è competenza del Cielo. E il Cielo non ha in simpatia gli usurpatori. Mortmain si girò per scappare. Ma era lento, come tutti gli umani. Tessa allungò una mano, la mano di Ithuriel, e la chiuse su di lui mentre correva, sollevandolo. Mortmain urlò, bruciato dalla stretta dell’angelo. Si contorceva, ormai in fiamme, quando Tessa serrò la presa e schiacciò il suo corpo riducendolo in una poltiglia di sangue scarlatto e ossa bianche. Le dita si aprirono. Quanto restava del Magister cadde, schiantandosi al suolo tra gli automi. Ci fu un fremito, un grande stridore metallico, come di un edificio che crolla, e gli automi cominciarono a cadere, a uno a uno, accartocciandosi a terra, privi di vita senza il loro Magister ad animarli. Un giardino di fiori metallici che appassivano e morivano l’uno dopo l’altro, mentre i Cacciatori si guardavano intorno stupefatti. E poi Tessa si rese conto di avere ancora un cuore, perché sobbalzò di gioia nel vederli sani e salvi. Ma quando protese verso di loro le sue mani dorate – una delle quali era macchiata di scarlatto, del sangue di Mortmain mescolato al fluido dorato di Ithuriel – i Cacciatori si ritrassero dal fulgore che irradiava da lei. No, no, avrebbe voluto dire, non vi farei mai del male. Ma le parole non le vennero. Non poteva parlare; bruciava troppo forte. Cercò di ritrovare se stessa, di trasformarsi di nuovo in Tessa, ma era persa nella vampa del fuoco, quasi fosse precipitata nel cuore del sole. Fu trapassata da un’esplosione di fiamme dolorose e si sentì precipitare. L’angelo meccanico era un laccio incandescente intorno al collo.

Per favore, pensò, ma tutto era fuoco e calore, e cadde, priva di sensi, nella luce.

22 TUONERANNO LE TROMBE

Perché quando tuoneranno le trombe Le anime potranno dividersi dal corpo, Ma non noi l’uno dall’altro Algernon Charles Swinburne, Laus Veneris

Le creature meccaniche cercavano di afferrare Tessa emergendo da nere nebbie. Il fuoco le scorreva nelle vene e, quando abbassò lo sguardo, vide che la sua pelle era incrinata e coperta di vesciche, mntre un fluido dorato le scorreva copioso lungo le braccia. Vide i campi sconfinati del Paradiso, vide divampare un cielo costantemente ardente che avrebbe accecato qualsiasi umano. Vide nuvole argentee dagli orli come rasoi, e sentì il gelido vuoto che scavava i cuori degli angeli. — Tessa… Era Will: avrebbe riconosciuto ovunque il suo modo di parlare. — Tessa, svegliati. Ti prego… Sentiva il dolore nella sua voce e avrebbe voluto allungare le braccia verso di lui ma, quando le sollevò, le fiamme si levarono e le bruciarono le dita. Le mani si ridussero in cenere e volarono via portate dal vento ardente. Tessa si agitava nel letto, in un delirio di febbre e incubi. Le lenzuola, aggrovigliate intorno al corpo, erano zuppe di sudore, i capelli incollati alle tempie. La pelle era quasi trasparente e lasciava intravedere il reticolo delle vene, la forma delle ossa. Al collo c’era l’angelo meccanico; ogni tanto Tessa lo afferrava, per poi gridare con voce smarrita, come se il toccarlo le procurasse dolore. — Soffre talmente tanto… — Charlotte immerse una pezza nell’acqua fredda e la premette sulla fronte ardente della ragazza. Tessa emise un fievole verso di protesta, ma non si mosse. Charlotte avrebbe voluto credere che fosse perché le pezze fredde stavano facendo effetto, ma sapeva che, con tutta probabilità, Tessa stava semplicemente diventando troppo debole. — Non c’è altro che possiamo fare? Il fuoco dell’angelo sta lasciando il suo corpo. Fratello Enoch, al fianco di Charlotte, parlò nel suo inquietante sussurro omnidirezionale. Ci vorrà il tempo che ci vuole. Sarà libera dal dolore quando il fuoco si sarà dileguato. — Ma vivrà? È sopravvissuta finora. La voce del Fratello Silente era cupa. Il fuoco avrebbe dovuto ucciderla.

Avrebbe ucciso qualsiasi essere umano. Ma lei è parte Cacciatrice e parte demone, ed era protetta dall’angelo al cui fuoco attingeva. L’angelo l’ha difesa anche in quegli ultimi momenti in cui è divampato e ha bruciato la sua forma corporea. Charlotte non poté fare a meno di ripensare a quanto era accaduto sotto il Cadair Idris. Tessa che si faceva avanti e si tramutava in fiamma, ardendo verso l’alto come una colonna di fuoco, con i capelli che si trasformavano in filamenti di scintille, emanando una luce accecante e terribile. Accovacciata a terra accanto al corpo di Henry, Charlotte si era chiesta come gli angeli potessero bruciare in quel modo e rimanere vivi. Quando l’angelo l’aveva lasciata, Tessa era crollata, nuda, con la pelle coperta di segni, come se fosse stata bruciata. Parecchi Cacciatori erano accorsi al suo fianco passando tra gli automi accartocciati, ma per Charlotte erano state tutte macchie sfocate, scene viste attraverso le lenti vacillanti del suo terrore per Henry: Will che prendeva Tessa tra le braccia, la fortezza del Magister che cominciava a richiudersi alle loro spalle, porte che sbattevano mentre loro correvano lungo i corridoi, il fuoco azzurro di Magnus Bane che illuminava una via di fuga. La creazione di un secondo portale. Altri Fratelli Silenti che li aspettavano all’Istituto, con mani e volti coperti di cicatrici, e che allontanavano perfino Charlotte mentre si chiudevano dentro con Henry e Tessa. Will si era rivolto a Jem, con espressione affranta. — James… puoi scoprire cosa le stanno facendo? Se vivrà? Fratello Enoch si era intromesso tra i due. Il suo nome non è James Carstairs. Ora è Zachariah. — Lasciate che parli per sé — aveva detto Will. Ma Jem si era limitato a voltarsi ed era uscito dall’Istituto, mentre Will lo guardava incredulo, e Charlotte aveva ricordato la prima volta che si erano incontrati: Stai davvero morendo? Mi dispiace. Era stato Will, con l’aria ancora stordita e incredula, a spiegare a tutti, esitando, la storia di Tessa: la funzione dell’angelo meccanico, la storia degli sfortunati Starkweather e la maniera poco ortodossa del concepimento della bambina. Aloysius Starkweather aveva ragione: Tessa era la sua pronipote. Una discendente che non avrebbe mai conosciuto, perché era stato ucciso nel massacro del Consiglio. Charlotte non poté fare a meno di immaginare la scena quando le porte della sala del Consiglio si erano aperte e gli automi vi si erano riversati. Per partecipare ai Consigli non era obbligatorio essere disarmati, ma i presenti non erano preparati a combattere, e la maggior parte di loro non aveva mai affrontato un automa. Immaginare il massacro la sgomentava. Charlotte era sopraffatta dall’enormità della perdita per il mondo dei Cacciatori, benché sarebbe stato molto più grave se Tessa non si fosse sacrificata come aveva fatto. In seguito alla morte di Mortmain, tutti gli automi erano crollati a terra, anche quelli nella sala del Consiglio, e molti Cacciatori erano sopravvissuti, sebbene ci fossero state gravi perdite… tra cui il Console. — Parte demone e parte Cacciatrice — mormorò Charlotte fissando Tessa. — Quindi che cos’è? Il sangue dei Nephilim è dominante. Un nuovo tipo di Cacciatrice. Non sempre il nuovo è una cosa cattiva. Era grazie al sangue dei Nephilim che si erano spinti tanto in là da provare le rune guaritrici su Tessa, ma quelle si erano limitate a penetrare nella pelle e a svanire, come parole scritte sull’acqua. Charlotte allungò una mano per toccarle la clavicola, dove una runa era stata tracciata con l’inchiostro. La pelle era calda al tocco. — Il suo angelo meccanico ha smesso di ticchettare. Ithuriel è libero. Ora Tessa è senza protezione, anche se, con il Magister morto e in quanto lei

stessa una Nephilim, sarà probabilmente al sicuro. Ma rimarrebbe sicuramente uccisa, se provasse a trasformarsi di nuovo in un angelo. — Ci sono altri pericoli. Tutti noi dobbiamo affrontare dei pericoli , disse Fratello Enoch. Era la stessa voce mentale, fredda e imperturbabile, che aveva usato per comunicarle che Henry sarebbe sopravvissuto, sì, ma non avrebbe più camminato. Nel letto, Tessa si mosse e gridò. Più di una volta aveva gridato dei nomi nel sonno. Aveva chiamato Nate, e zia Harriet, e Charlotte. — Jem… — stava sussurrando in quel momento, mentre stringeva convulsamente il copriletto. Charlotte si scostò da Enoch per prendere di nuovo la pezza fredda e metterla sulla fronte della ragazza. Sapeva che non avrebbe dovuto chiederlo, ma… — Come sta, il nostro Jem? Si sta… adattando alla Fratellanza? — Percepì il biasimo di Enoch. Sai bene che non posso dirtelo. Non è più il vostro Jem. Ora è Fratello Zachariah. Devi dimenticarlo. — Dimenticarlo? Non posso dimenticarlo — ribatté Charlotte. — Non è come i vostri altri Fratelli, Enoch; e tu lo sai. I rituali per diventare Fratello Silente sono i nostri segreti più riposti. — Non ti sto chiedendo di svelare i vostri rituali — disse Charlotte. — So bene che i Fratelli Silenti recidono ogni vincolo con la loro vita mortale prima di entrare nella Fratellanza. Ma James non ha potuto farlo. Ne ha ancora uno che lo lega a questo mondo. — Abbassò lo sguardo su Tessa, le cui palpebre tremolavano, mentre dalla bocca le usciva un respiro stanco. — È un cordone che li lega reciprocamente e, a meno che non si dissolva a dovere, temo proprio che possa fare del male a entrambi. Eccola, arriva, la mia lei, la mia dolce; Avesse anche il più etereo dei passi, Il mio cuore la udirebbe e batterebbe, Foss’anche terra in un letto di terra; Le mie ceneri la udirebbero e batterebbero, Fossi morto e sepolto da un secolo; Sussulterebbero e tremerebbero sotto i suoi piedi, E fiorirebbero rosse e purpuree. — Oh, per l’amor del cielo! — esclamò Henry, sollevando le maniche della vestaglia macchiate di inchiostro. — Non potresti leggere qualcosa di meno deprimente? Qualcosa che parli di una bella battaglia? — È Tennyson — disse Will, facendo scivolare i piedi giù dall’ottomana accanto al caminetto. — Migliorerà il tuo spirito. Erano in soggiorno. La sedia di Henry era accostata al fuoco, e lui aveva un album per schizzi sulle ginocchia. Era ancora pallido, com’era da quando aveva avuto luogo la battaglia all’interno del Cadair Idris, ma stava cominciando a riprendere colore. Prima che Henry potesse replicare, la porta si aprì e Charlotte entrò, con l’aria stanca, le maniche bordate di pizzo macchiate di acqua. Will depose immediatamente il libro, e anche Henry alzò uno sguardo alquanto interrogativo.

Charlotte spostò gli occhi dall’uno all’altro, notando il libro sul tavolino accanto al servizio da tè in argento. — Hai letto qualcosa a Henry, Will? — Sì, cose spaventose traboccanti di poesia. — Henry aveva una penna tra le dita e fogli sparpagliati sul plaid avvolto intorno alle ginocchia. Aveva accolto con la consueta forza d’animo la notizia che neppure le cure dei Fratelli Silenti sarebbero riuscite a farlo camminare di nuovo, e aveva deciso che si sarebbe costruito una sedia speciale, con ruote a propulsione autonoma e ogni sorta di equipaggiamento. Aveva stabilito che la sedia doveva essere in grado di fare le scale, in modo da poter scendere ancora nella cripta, tra le sue invenzioni. Aveva scarabocchiato disegni per tutta l’ora che Will aveva passato a leggergli Maud; decisamente la poesia non era il suo campo d’interesse. — Bene, sei esonerato dai tuoi doveri, Will, e tu, Henry, sei esonerato da quello di ascoltare altre poesie — disse Charlotte. — Se vuoi, caro, posso aiutarti a raccogliere i tuoi appunti… — Scivolò dietro la sedia del marito e gli passò le braccia sopra le spalle, aiutandolo a radunare in una pila ordinata i fogli sparpagliati. Mentre lo faceva, Henry le prese il polso e alzò gli occhi su di lei… in uno sguardo di una tale fiducia e adorazione che a Will sembrò di sentirsi trafiggere la pelle da minuscoli coltelli. Non invidiava Charlotte e Henry per la loro felicità, ma non poteva fare a meno di pensare a Tessa. Alle speranze che aveva nutrito un tempo e poi soffocato. Si chiese se lei lo avrebbe mai guardato così. Non lo credeva. Lui aveva fatto di tutto per distruggere la sua fiducia e, sebbene non desiderasse altro che una concreta possibilità di ricostruirla, non poteva fare a meno di temere… Scacciò quei cupi pensieri e si alzò per dire che intendeva andare a trovare Tessa ma, prima che potesse parlare, bussarono alla porta. Sophie entrò con un’aria stranamente ansiosa e, un attimo dopo, l’Inquisitore la seguì nella stanza. Will, abituato a vederlo nelle vesti da cerimonia alle riunioni del Consiglio, quasi non riconobbe l’uomo, con quell’espressione severa in tight grigio e pantaloni scuri. Sulla guancia aveva una cicatrice livida che Will non aveva mai visto prima. — Inquisitore Whitelaw. — Charlotte si raddrizzò, l’espressione subito seria. — A cosa dobbiamo l’onore della vostra visita? — Charlotte… — L’Inquisitore allungò la mano. Stringeva una lettera che recava il sigillo del Consiglio. — Vi ho portato un messaggio. — Non avreste potuto mandarlo semplicemente per posta? — chiese la donna, sconcertata. — Si tratta di una lettera della massima importanza. È imperativo che la leggiate adesso. Charlotte prese la lettera. Fece per strappare il lembo, poi aggrottò le sopracciglia e attraversò la stanza per prendere il tagliacarte dallo scrittoio. Will approfittò dell’occasione per osservare furtivamente l’Inquisitore, che stava guardando Charlotte con espressione accigliata e non faceva assolutamente caso a lui. Non poté fare a meno di chiedersi se la cicatrice sulla guancia fosse un lascito della battaglia contro gli automi di Mortmain. Will aveva creduto che sarebbero morti tutti insieme, là sotto la montagna, finché Tessa non era divampata in tutta la gloria dell’angelo e non aveva abbattuto Mortmain come un fulmine abbatte un albero. Era stata una delle cose più meravigliose che avesse mai visto, ma la meraviglia era stata consumata rapidamente dal terrore, quando Tessa era crollata a terra dopo la trasformazione, sanguinante e senza riprendere conoscenza, per quanto cercassero di rianimarla. Magnus, prossimo allo sfinimento, era riuscito a fatica ad aprire un portale per l’Istituto con l’aiuto di Henry, dopodiché Will aveva solo un confuso ricordo in cui si mischiavano stanchezza, sangue e paura, altri Fratelli

Silenti chiamati a prendersi cura dei feriti, oltre alla notizia dei molti Cacciatori che erano stati uccisi nella battaglia al Consiglio, prima che gli automi si disintegrassero per la morte di Mortmain. E Tessa… Tessa che non parlava, non si svegliava, che veniva portata nella sua stanza dai Fratelli Silenti, e lui non aveva potuto andare con lei. Non essendo suo fratello né suo marito, aveva potuto soltanto seguirla con lo sguardo. Non si era mai sentito più impotente. E quando si era girato per cercare Jem, per condividere la propria paura con l’unica altra persona al mondo che amava Tessa quanto lui… Jem se n’era andato, era tornato nella Città Silente agli ordini dei confratelli. Andato, senza neppure una parola di addio. Sebbene Cecily avesse provato a calmarlo, Will si era infuriato… con Jem, e con il Consiglio, e con la Fratellanza stessa per avergli permesso di diventare un Fratello Silente; si era infuriato pur sapendo che era ingiusto, che era stata una scelta di Jem: l’unico modo per mantenerlo in vita. Eppure, da quando era tornato all’Istituto, Will soffriva di qualcosa di molto simile al mal di mare: gli sembrava di essere stato per anni una nave alla fonda per poi ritrovarsi all’improvviso in balia delle maree, con nessuna idea della direzione verso cui fare rotta. E Tessa… Il rumore della carta strappata interruppe quei pensieri quando Charlotte aprì la lettera e la lesse, sbiancando. La donna alzò gli occhi e li fissò sull’Inquisitore. — Che cos’è, uno scherzo? L’Inquisitore si accigliò ancora di più. — Nessuno scherzo, ve l’assicuro. Avete una risposta? — Lottie? — Henry alzò lo sguardo sulla moglie, mentre perfino i suoi ciuffi di capelli fulvi emanavano ansia e amore. — Lottie, che succede? Cosa c’è che non va? Lei lo guardò, quindi tornò a rivolgersi all’Inquisitore. — No, non ho una risposta. Non ancora. — Il Consiglio non desidera… — cominciò l’Inquisitore, poi sembrò accorgersi della presenza di Will. — Vorrei parlarvi in privato, Charlotte. Lei raddrizzò la schiena. — Non manderò via né Will, né Henry. I due si fissarono intensamente. Will sapeva che Henry guardava Whitelaw con ansia. Nel periodo immediatamente successivo alla disputa tra Charlotte e il Console, e poi nalla morte di quest’ultimo, avevano tutti aspettato con il fiato sospeso che il Consiglio emettesse un giudizio punitivo. Il loro controllo dell’Istituto appariva precario. Will lo vedeva nel lieve tremolio delle mani di Charlotte e nella piega della sua bocca. D’un tratto desiderò che Jem o Tessa fossero lì, qualcuno a cui poter parlare, qualcuno a cui poter chiedere cosa dovesse fare per Charlotte, a cui era tanto debitore. — Non c’è problema — disse, alzandosi. Voleva vedere Tessa, anche se lei non avrebbe aperto gli occhi, non lo avrebbe riconosciuto. — Pensavo di andare comunque. — Will… — protestò Charlotte. — Non c’è problema — ripeté lui, e si avviò verso la porta passando accanto all’Inquisitore. Una volta nel corridoio, si appoggiò un secondo alla parete per riprendersi. Non poteva fare a meno di ricordare le proprie parole… gli sembrava di averle pronunciate un milione di anni prima, e non suonavano più per niente buffe: Il Console che piomba qui nel bel mezzo della colazione? Cos’altro ci aspetta? Un tè con l’Inquisitore? Se il Consiglio avesse tolto l’Istituto a Charlotte… Se avessero perso la loro casa… Se Tessa… Non poté concludere il pensiero. Tessa sarebbe vissuta; doveva vivere. Mentre si avviava lungo il

corridoio, pensò ai blu, ai verdi e ai grigi del Galles. Forse, se l’Istituto fosse andato perduto, lui e Cecily avrebbero potuto tornarci e iniziare una nuova vita da soli nel loro paese natale. Non sarebbe stata una vita da Cacciatori, ma senza Charlotte, senza Henry, senza Jem o Tessa o Sophie o perfino senza quei dannati Lightwood, Will non voleva essere un Cacciatore. Erano la sua famiglia, gli erano preziosi… ecco un’altra cosa, pensò, di cui si era reso conto all’improvviso e troppo tardi. — Tessa, svegliatevi. Vi prego, svegliatevi. Questa volta era la voce di Sophie a penetrare nell’oscurità. Tessa si sforzò, costringendo i suoi occhi ad aprirsi per una frazione di secondo. Vide la sua stanza all’Istituto, i mobili familiari, le tende aperte, i fievoli raggi del sole che proiettavano quadrati di luce sul pavimento. Lottò per restarvi aggrappata. Era così, brevi periodi di lucidità tra febbre e incubi… mai abbastanza, mai abbastanza tempo per allungare la mano, per parlare. Sophie, cercò di sussurrare, ma le labbra secche non riuscivano a pronunciare le parole. Lampi tremolavano davanti ai suoi occhi, lacerando il mondo. Emise un grido muto mentre l’Istituto andava in pezzi e fuggiva via da lei nelle tenebre. Fu Cyril a dire finalmente a Gabriel che Cecily era nelle stalle, dopo che il minore dei fratelli Lightwood aveva trascorso gran parte della giornata a cercarla invano – sperando di non farsi notare – per tutto l’Istituto. Era sceso il crepuscolo, e le stalle erano pervase della calda luce di una lanterna e dell’odore dei cavalli. Cecily era in piedi accanto al box di Balios, la testa contro il collo del grande cavallo nero come l’inchiostro. I suoi capelli, quasi dello stesso colore, erano sciolti sulle spalle. Quando si girò per guardarlo, Gabriel scorse lo scintillio del rubino al collo. Un’espressione preoccupata passò sul viso di Cecily. — È successo qualcosa a Will? — Will? — ripeté Gabriel, trasalendo. — Ho pensato… dalla vostra espressione… — Cecily sospirò. — È stato così turbato negli ultimi giorni. Come se non bastasse Tessa malata e ferita, sapere quello che sa di Jem… — Scosse la testa. — Ho provato a parlargliene, ma non vuole saperne. — Credo che ora stia parlando a Jem — disse Gabriel. — Confesso di non conoscere il suo stato d’animo. Se volete, potrei… — No. — La voce della ragazza era calma. I suoi occhi azzurri erano fissi su un punto in lontananza. — Lasciatelo stare. Gabriel avanzò di qualche passo. Il morbido bagliore della lanterna ai piedi di Cecily proiettava una fievole lucentezza dorata sulla sua pelle. Le sue mani erano senza guanti, bianchissime contro il pelo nero del cavallo. — Io non… — cominciò Gabriel. — Sembra che questo cavallo vi piaccia molto. — Si maledisse in silenzio. Ricordò che una volta il padre gli aveva detto che le donne amavano essere corteggiate con belle parole e frasi a effetto. Non era esattamente sicuro di cosa fosse una frase a effetto, ma era certo che quanto aveva appena detto non lo fosse. Ma Cecily non sembrò farci caso. Diede un colpetto affettuoso al cavallo. — Balios ha salvato la vita a mio fratello. — Partirete? — chiese all’improvviso Gabriel. Sophie spalancò gli occhi. — Cosa dite, signor Lightwood? — No. — Gabriel alzò una mano. — Non chiamatemi signor Lightwood, vi prego. Siamo Cacciatori. Per te sono Gabriel.

Le guance di Cecily si tinsero di rosa. — Gabriel, dunque. Perché mi hai chiesto se partirò? — Sei venuta qui per portare a casa tuo fratello… ma è chiaro che lui non ci verrà, no? È innamorato di Tessa. Starà ovunque starà lei. — Lei potrebbe non rimanere qui — disse Cecily, con un’espressione indecifrabile negli occhi. — Io credo di sì. Ma, anche se così non fosse, lui la seguirà. E Jem… è diventato un Fratello Silente. Se Will spera di rivederlo, e sappiamo bene entrambi che lo spera, rimarrà. Gli anni lo hanno cambiato, Cecily. Ora la sua famiglia è qui. — Pensi di dirmi qualcosa di cui non mi sia già resa conto da sola? Il cuore di Will è qui, non nello Yorkshire, in una casa in cui non ha mai vissuto, con genitori che non vede da anni. — Allora, se lui non può andare a casa… pensavo che forse tu lo avresti fatto. — In modo da non lasciare soli i miei genitori… Sì, capisco perché tu lo abbia pensato. — Cecily esitò. — Ma, come senza dubbio saprai, si presume che tra pochi anni mi sposerò e li lascerò comunque. — Ma non per non rivolgere più loro la parola. Sono in esilio, Cecily. Se rimani qui, dovrai rompere i rapporti con loro. — Lo dici come se volessi convincermi a tornare a casa. — Lo dico perché ho paura che tu lo faccia. — Le parole gli uscirono di bocca prima che potesse trattenerle. Gabriel non poté fare altro che guardare Cecily mentre un rossore imbarazzato gli infiammava il viso. La ragazza fece un passo avanti. I suoi occhi azzurri, sollevati su quelli di lui, erano spalancati. Gabriel si chiese quando avessero smesso di ricordargli gli occhi di Will; ormai erano solo gli occhi di Cecily, una sfumatura di azzurro che associava a lei sola. — Quando sono venuta qui pensavo che i Cacciatori fossero dei mostri — disse Cecily. — Pensavo di dover salvare mio fratello. Pensavo che saremmo tornati a casa insieme, e che i miei genitori sarebbero stati fieri di noi. Che saremmo stati di nuovo una famiglia. Poi mi sono resa conto… tu mi hai aiutata a rendermi conto… — Io ti ho aiutata? E come? — Vostro padre non vi ha dato scelta, ha preteso che foste ciò che lui voleva. E questa pretesa ha spaccato la vostra famiglia — disse Cecily. — Mio padre ha scelto di lasciare i Nephilim e di sposare mia madre. È stata la sua scelta, proprio come rimanere con i Cacciatori è la scelta di Will. Amore o guerra: sono entrambe scelte coraggiose, a loro modo. E io non penso che i miei genitori portino rancore a Will per la sua scelta. Più di ogni altra cosa, a loro preme che sia felice. — Ma tu? — chiese Gabriel, e ormai erano molto vicini, si toccavano quasi. — Ora sei tu che devi fare la tua scelta, rimanere o tornare. — Rimarrò — rispose Cecily. — Ho scelto la guerra. Gabriel buttò fuori il fiato che non si era reso conto di trattenere. — Rinuncerai alla tua casa? — Una casa piena di correnti nello Yorkshire? Questa è Londra. — E rinuncerai a ciò che ti è familiare? — Ciò che è familiare è noioso. — E rinuncerai a vedere i tuoi genitori? È contro la Legge… Cecily sorrise, la parvenza di un sorriso. — Tutti infrangono la Legge. — Cecy… — Gabriel annullò la distanza che li separava, sebbene non fosse molta, e la baciò. Le sue mani, inizialmente goffe intorno alle spalle di lei, scivolarono poi sul rigido taffettà del vestito

prima di far scivolare le dita sulla sua nuca e infilarle nei capelli soffici. Cecily si irrigidì per la sorpresa, quindi si rilassò contro di lui. Le labbra le si schiusero mentre il Nephilim assaporava la dolcezza della sua bocca. Quando alla fine Cecily si ritrasse, Gabriel si sentiva stordito. — Cecy? — mormorò, con voce roca. — Cinque — disse lei. Aveva le labbra e le guance arrossate, ma il suo sguardo era fermo. — Cinque? — ripeté lui, con espressione vacua. — Il mio voto. — Cecily sorrise. — Forse dovrai lavorare su destrezza e tecnica, ma hai certamente un talento innato. Ciò di cui hai bisogno è la pratica. — Sei disposta a farmi da insegnante? — Sarei davvero offesa se tu scegliessi un’altra — ribatté lei, e si sporse in su per baciarlo di nuovo. Quando Will entrò nella stanza di Tessa, Sophie era seduta accanto al letto mormorando a bassa voce. Nel sentire la porta richiudersi, si girò. Aveva gli angoli della bocca serrati in una smorfia preoccupata. — Come sta? — chiese Will. Gli faceva male vedere Tessa in quello stato, gli faceva male come se una scheggia di ghiaccio gli si fosse piantata sotto le costole e gli stesse affondando nel cuore. Sophie aveva intrecciato ordinatamente i lunghi capelli castani della ragazza, in modo che non si arruffassero quando scuoteva convulsamente la testa contro i cuscini. Tessa respirava affannosamente, il petto si alzava e si abbassava veloce, gli occhi si muovevano distintamente sotto le palpebre pallide. Will si chiese cosa stesse sognando. — Sempre uguale — disse Sophie, alzandosi con una mossa aggraziata e cedendo a Will la poltrona accanto al letto. — Ha chiamato di nuovo. — Qualcuno in particolare? — chiese il Nephilim, e subito si pentì di averlo fatto. Gli occhi di Sophie guizzarono via dai suoi. — Suo fratello — rispose. — Se volete stare qualche momento da solo con la signorina Tessa… — Sì, per favore. Sophie si fermò un attimo sulla soglia. — Signorino William… Will, che si era appena sistemato sulla poltrona accanto al letto, guardò verso di lei. — Mi dispiace di aver pensato e parlato così male di voi in tutti questi anni. Ora capisco che stavate solo facendo ciò che tutti noi cerchiamo di fare. Del nostro meglio. — Grazie — disse Will, incapace di guardare Sophie dritto negli occhi. Quando sentì la porta richiudersi piano, prese tra le sue dita la mano sinistra di Tessa, che stringeva febbrilmente il copriletto. In quel momento, la ragazza era tranquilla, con le ciglia che tremolavano mentre respirava. I cerchi sotto gli occhi erano blu scuro, le vene una delicata filigrana alle tempie e all’interno dei polsi. Nel ricordarla, mentre divampava soffusa di gloria, era impossibile crederla fragile com’era adesso. La mano di Tessa era calda nella sua e, quando Will le sfiorò la guancia con le nocche, sentì che la sua pelle ardeva. — Tess… — sussurrò. — L’inferno è freddo. Ricordi quando me l’hai detto? Eravamo nelle cantine della Casa Oscura. Chiunque altro sarebbe stato in preda al panico, ma tu eri calma come un’istitutrice quando mi hai detto che l’inferno era coperto di ghiaccio. Se è il fuoco del

Paradiso a portarti via da me, che crudele ironia sarebbe. Tessa inspirò bruscamente e, per un momento, il cuore di Will diede un balzo… l’aveva sentito? Ma gli occhi della ragazza rimasero ben chiusi. — Torna — disse il Nephilim, stringendole la mano. — Torna da me, Tessa. Henry ha detto che forse, dal momento che hai toccato l’anima di un angelo, ora sogni il Paradiso, campi di angeli e fiori di fuoco. Forse sei felice in quei sogni. Ma te lo chiedo per puro egoismo. Torna da me. Perché non posso sopportare di perdere tutto il mio cuore. Il capo di Tessa si girò lentamente verso di lui, le labbra si aprirono come se fossero sul punto di parlare. Will si chinò in avanti, con un tuffo al cuore. — Jem? — disse lei. Will impietrì, immobile, la mano ancora stretta su quella di lei. Tessa sbatté gli occhi e li aprì… grigi come il cielo prima della pioggia, grigi come le colline di ardesia del Galles. Il colore delle lacrime. Lo guardò, guardò attraverso di lui senza vederlo. — Jem… — ripeté. — Jem, mi dispiace tanto. È tutta colpa mia. Will si chinò di nuovo in avanti. Non poté trattenersi. Tessa stava parlando, e in maniera intelligibile, per la prima volta da parecchi giorni. Anche se non a lui. — Non è colpa tua — le disse. La mano ardente di Tessa gli restituì la stretta; le sue dita sembravano bruciare attraverso la pelle di Will. — E invece sì. È a causa mia se Mortmain ti ha privato del tuo yin fen. È a causa mia se tutti voi siete stati in pericolo. Io avrei dovuto amarti, e non ho fatto altro che accorciarti la vita. A Will si spezzò il respiro. La scheggia di ghiaccio gli era tornata nel cuore e sembrava impedirgli di respirare liberamente. Eppure non era gelosia, ma il dispiacere più profondo e intenso che avesse mai provato. Gli tornò in mente Sydney Carton. Pensate di quando in quando che c’è un uomo che darebbe la vita per conservare accanto a voi una vita che amate. Sì, l’avrebbe fatto per Tessa – sarebbe morto per conservare accanto a lei le persone di cui aveva bisogno –, come Jem avrebbe fatto per lui o per Tessa, e come lei avrebbe fatto per loro due. Erano un groviglio quasi incomprensibile, loro tre, ma c’era anche una certezza, ed era che l’amore non mancava. Sono abbastanza forte per questo, si disse Will, sollevando delicatamente la mano della ragazza. — Vivere non significa solo sopravvivere — le disse. — C’è anche la felicità. Tu conosci il tuo James, Tessa. Sai che sceglierebbe sempre l’amore. Ma la testa della ragazza si limitò ad agitarsi irrequieta sul cuscino. — Dove sei, James? Ti cerco nelle tenebre, ma non riesco a trovarti. Sei il mio promesso sposo, dovremmo essere legati da vincoli inscindibili. Eppure, quando stavi morendo, io non c’ero. Non ti ho mai detto addio. — Quali tenebre? Tessa, dove sei? — Will le strinse la mano, più forte. — Dammi il modo di trovarti. All’improvviso Tessa si inarcò sul letto, e la sua mano si serrò su quella di lui. — Mi dispiace! Jem… mi dispiace tanto… ti ho fatto torto, ti ho fatto un terribile torto… — Tessa! — Will balzò in piedi, ma lei era già ricaduta inerte sul materasso, respirando forte. Will non poté trattenersi. Chiamò Charlotte, come un bambino che si fosse risvegliato da un incubo. Gridò come non aveva mai permesso a se stesso di gridare quando era poco più che un bambino e si svegliava tra le pareti poco familiari dell’Istituto desiderando ardentemente un conforto,

ma pensando di non poterlo accettare. Charlotte accorse, come Will aveva sempre saputo che avrebbe fatto se lui l’avesse chiamata. Arrivò, senza fiato e spaventata; diede un’occhiata a Tessa sul letto e a Will che le stringeva la mano, e il ragazzo vide il terrore lasciare il suo viso, sostituito da un’espressione di muto dolore. — Will… Lui staccò delicatamente la mano da quella di Tessa, girandosi verso la porta. — Charlotte, prima d’ora non ti ho mai chiesto di usare la tua posizione di capo dell’Istituto per aiutarmi… — La mia posizione non può guarire Tessa. — E invece sì. Devi far venire qui Jem. — Non posso chiederlo — disse Charlotte. — Jem ha appena cominciato il suo periodo di servizio nella Città Silente. Gli iniziati non possono assolutamente lasciarla per tutto il primo anno… — Ha partecipato alla battaglia. Charlotte si scostò dal viso una ciocca ribelle. A volte, come in quel momento, sembrava giovanissima, ma poco prima, quando aveva affrontato l’Inquisitore, non era stato così. — Quella è stata una scelta di Fratello Enoch. La sicurezza di sé fece raddrizzare la schiena a Will. Per tanti anni aveva dubitato del contenuto del proprio cuore. Ora non più. — Tessa ha bisogno di Jem. Conosco la Legge, so che non può tornare a casa, ma… i Fratelli Silenti devono recidere ogni vincolo che li leghi al mondo mortale prima di entrare nella Fratellanza. Anche questa è la Legge. Il vincolo tra Tessa e Jem non è stato reciso. Dunque come può Tessa ricongiungersi al mondo mortale, se non può neppure vedere Jem un’ultima volta? Charlotte rimase a lungo in silenzio. C’era un’ombra sul suo viso, difficile da definire. — Molto bene — disse infine. — Vedrò cosa posso fare. Scesero a bere Alla fonte che scorreva così chiara, E lei vide il sangue del suo bello Scorrere nel torrente. «Fermo, fermo, Lord William» disse «Temo che siate morto». «È solo la tinta dei miei vestiti scarlatti, Che risplende nel torrente.» — Oh, per l’amor del cielo — borbottò Sophie, passando davanti alla cucina. Bridget doveva proprio essere così morbosa in tutte le sue canzoni? E doveva usare proprio quel nome? Come se quel povero ragazzo non avesse sofferto abbastanza… Un’ombra si materializzò dall’oscurità. — Sophie? La cameriera gridò e fece quasi cadere la spazzola per tappeti. La stregaluce divampò nel corridoio buio, e lei scorse i familiari occhi verdi. — Gideon… Santo cielo, mi hai quasi spaventata a morte! — Scusa. Volevo solo augurarti la buona notte… e mentre camminavi sorridevi. Ho creduto che… — Stavo pensando al signorino Will — disse Sophie, e poi sorrise di nuovo davanti all’espressione costernata di Gideon. — Solo un anno fa, se mi avessi detto che qualcuno lo stava tormentando, sarei stata felice, mentre adesso mi fa pena. Tutto qui. — Anche a me fa pena. Ogni giorno che passa senza che Tessa si svegli, si vede un po’ di vita

defluire da lui. — Se solo il signorino Jem fosse qui… — Sophie sospirò. — Ma non c’è. — Ci sono tante cose senza le quali dobbiamo imparare a vivere, di questi tempi. — Gideon le sfiorò la guancia. Erano ruvide, callose. Non le dita lisce di un gentiluomo. Sophie gli sorrise. — Non mi hai guardato durante la cena — disse Gideon, abbassando la voce. Era vero. La cena era stata una faccenda sbrigativa a base di pollo arrosto e patate. Nessuno sembrava avere molto appetito, tranne Gabriel e Cecily, che avevano mangiato come se avessero passato la giornata a esercitarsi. E forse l’avevano fatto. — Ero preoccupata per la signora Branwell — confessò Sophie. — È così in pena per il signor Branwell e per la signorina Tessa…. si sta consumando… e il bambino… — La ragazza si morse il labbro. — Sono preoccupata. — Non riuscì a dire altro. Per lei era difficile perdere la riservatezza di una vita passata a servizio, anche se ormai era fidanzata con un Cacciatore. — Il tuo è un cuore gentile — disse Gideon, facendo scivolare le dita lungo la guancia fino a toccarle le labbra. Poi si ritrasse. — Ho visto Charlotte entrare da sola nel soggiorno, solo pochi minuti fa. Perché non provi a parlarle delle tue preoccupazioni? — Non potrei… — Sophie, non sei soltanto la cameriera di Charlotte. Sei sua amica. Se c’è qualcuno a cui parlerà, quella sei tu. Il soggiorno era freddo e scuro. Il focolare era spento, e nessuna delle lampade era accesa per contrastare il manto della notte, che inondava la stanza di tenebre e ombre. Sophie impiegò un momento per rendersi conto che una delle ombre era Charlotte, una piccola figura muta sulla sedia dietro la scrivania. — Signora Branwell… — disse, sentendosi invadere da un grande imbarazzo, nonostante le parole incoraggianti di Gideon. Due giorni prima lei e Charlotte avevano combattuto fianco a fianco dentro il Cadair Idris. Adesso lei era di nuovo una cameriera intenta a pulire il focolare e a spolverare la stanza con un secchio di carbone in una mano e la scatola per l’esca nella tasca del grembiule. — Mi dispiace… non volevo interrompervi. — Non mi stai interrompendo, cara. Non era niente di importante. — La voce di Charlotte… Sophie non l’aveva mai sentita così prima d’ora… così esile, o così sconfitta. Mise giù il carbone accanto al fuoco e si avvicinò esitante alla padrona. Charlotte era seduta con i gomiti sulla scrivania, il viso appoggiato alle mani. Sulla scrivania c’era una lettera con il sigillo del Consiglio. Il cuore di Sophie accelerò di colpo, ricordando come il Console avesse ordinato a tutti loro di lasciare l’Istituto prima della battaglia del Cadair Idris. Ma era stato dimostrato che erano nel giusto, no? La sconfitta di Mortmain aveva senz’altro annullato l’ordine del Console, soprattutto ora che era morto. — Va… va davvero tutto bene, signora? Charlotte indicò il foglio con un cenno, un movimento disperato della mano. A Sophie si gelarono le viscere. Si avvicinò svelta a Charlotte e prese la lettera dalla scrivania. Signora Branwell, considerata la natura della corrispondenza che avevate intrattenuto con il mio defunto collega, il Console Wayland, potrete essere ben sorpresa di ricevere questa missiva. L’Enclave tuttavia si

trova nella posizione di avere bisogno di un nuovo Console, ed essendo stata la cosa messa ai voti, la scelta è caduta quasi all’unanimità su di voi. Posso capire perfettamente che siate soddisfatta di dirigere l’Istituto e che non desideriate la responsabilità di questa nuova carica, soprattutto considerando le ferite subite da vostro marito nella coraggiosa battaglia da voi sostenuta contro il Magister. Tuttavia mi sono sentito obbligato a offrirvi questa opportunità, non solo perché siete chiaramente la scelta auspicata del Consiglio, ma perché, a giudicare da ciò che ho visto di voi, penso che sareste uno dei migliori Consoli accanto a cui io abbia avuto il privilegio di svolgere il mio servizio. Vostro, con la massima stima, Inquisitore Whitelaw — Console! — disse Sophie senza fiato, e il foglio le volò dalle dita. — Vogliono farvi Console? — Così pare — mormorò Charlotte, con voce spenta e priva di entusiasmo. Sophie cercò qualcosa da dire. L’idea di un Istituto di Londra senza la guida di Charlotte era terribile. Ma la carica di Console, la più alta conferita dall’Enclave, era un onore, e vedere Charlotte investita di quell’onore guadagnato a così caro prezzo… — Non c’è nessuno che lo meriti più di voi — disse infine. — Oh, Sophie, no. Io ho scelto di mandare tutti noi sul Cadair Idris. È colpa mia se Henry non camminerà più. È opera mia. — Non può rimproverarvelo. Non ve lo rimprovera. — No, non lo fa, ma sono io che rimprovero me stessa. Come posso fare il Console e mandare i Cacciatori a morire in battaglia? Non voglio questa responsabilità. Sophie le prese la mano e la strinse. — Charlotte… Non si tratta solo di mandare i Cacciatori in battaglia; a volte si tratta di trattenerli. Voi avete un cuore compassionevole e una mente profonda. Avete diretto l’Enclave londinese per anni. Naturalmente avete il cuore spezzato per il signor Branwell, ma fare il Console significa non soltanto prendere vite, ma anche salvarle. Se non fosse stato per voi, quanti Cacciatori sarebbero morti per mano delle creature di Mortmain? Charlotte abbassò lo sguardo sulla mano rossa e irruvidita dal lavoro che stringeva le sue. — Sophie, quand’è che sei diventata così saggia? La ragazza arrossì. — Ho imparato da voi la saggezza, signora. — Oh, no… Un momento fa mi hai chiamata Charlotte. Ed è così che mi chiamerai d’ora in poi, Sophie, in qualità di futura Cacciatrice. E prenderemo un’altra cameriera per sostituirti, in modo che tu abbia il tempo per prepararti all’Ascensione. — Grazie — sussurrò Sophie. — Dunque accetterete l’offerta del Consiglio? Sarete Console? Charlotte liberò delicatamente la mano da quella di Sophie e prese la penna. — Sì. A tre condizioni. — Quali sono? — La prima è che mi sia permesso di dirigere l’Enclave dall’Istituto, da qui, e di non trasferirmi con la mia famiglia a Idris, almeno per i primi anni. Perché non voglio lasciare tutti voi, e perché desidero rimanere per addestrare Will a subentrarmi alla guida dell’Istituto quando me ne sarò andata. — Will? — chiese Sophie, sorpresa. — Subentrare alla guida dell’Istituto?

Charlotte sorrise. — Certo. Questa è la seconda condizione. — E la terza? Il sorriso di Charlotte svanì, sostituito da un’espressione determinata. — Della terza vedrai i risultati domani, sempre che venga accettata — disse, e chinò la testa per mettersi a scrivere.

23 PIÙ FORTI DI QUALSIASI MALE

Vieni, andiamo: le tue guance sono pallide; Ma io mi lascio alle spalle metà della mia vita: Mi sembra che il mio amico abbia una ricca tomba; Ma io passerò, la mia opera svanirà. … Ora lo sento, più e più volte, L’eterno saluto rivolto ai morti; Un “Ave, ave, ave… Addio, addio”, detti per sempre. Alfred, Lord Tennyson, In memoriam A.H.H.

Tessa rabbrividì; l’acqua gelida scorreva impetuosa intorno a lei, nell’oscurità. Pensò che forse era adagiata sul fondo dell’universo, dove il fiume dell’oblio divideva il mondo in due, o forse si trovava ancora nel torrente in cui era precipitata dopo essersi gettata dalla carrozza della Sorella Oscura, e tutto quanto era successo da allora non era stato che un sogno. Il Cadair Idris, Mortmain, l’esercito meccanico, le braccia di Will intorno a lei… Senso di colpa e dolore la penetrarono come una lancia, e si inarcò all’indietro, con le mani che cercavano tentoni un punto d’appoggio nelle tenebre. Il fuoco le scorreva nelle vene, mille rivoli di sofferenza se ne diramavano. Cercò di prendere fiato, e d’un tratto sentì qualcosa di freddo contro i denti separarle le labbra, e la bocca riempirsi di un’asprezza glaciale. Deglutì a fatica, soffocando… E sentì il fuoco nelle vene diminuire. Il ghiaccio l’attraversò facendola rabbrividire. I suoi occhi si spalancarono mentre il mondo ruotava e si raddrizzava. La prima cosa che vide furono due mani pallide e sottili che allontanavano una fiala – il freddo nella bocca, il sapore amaro sulla lingua – e poi i contorni della sua stanza all’Istituto. — Tessa, questo ti manterrà lucida per un po’, ma non devi lasciarti sprofondare di nuovo nelle tenebre e nei sogni — disse una voce familiare. — Jem? — sussurrò. Non osava guardare. Un sospiro. — Sì. — Il rumore della fiala che veniva posata sul comodino. — Non vuoi

guardarmi? Tessa si voltò e lo guardò. E trattenne il fiato. Era Jem e non era Jem. Indossava la tonaca color pergamena dei Fratelli Silenti, aperta sul davanti. Sotto di essa, si intravedeva il colletto di una normale camicia. Il cappuccio era tirato indietro, lasciando scoperto il viso. Tessa vide i cambiamenti sopravvenuti in lui, quei cambiamenti che nel fragore e nella confusione della battaglia all’interno del Cadair Idris aveva scorto appena. Gli zigomi delicati erano deturpati dalle rune che Tessa aveva già notato, una su ogni zigomo, lunghi solchi di cicatrici che non sembravano normali rune dei Cacciatori. I capelli non erano più argento puro… alcune ciocche erano diventate più scure, tra il castano e il nero, senza dubbio il colore che avevano avuto alla nascita. Anche le ciglia erano diventate nere. Sembravano sottili fili di seta contro la pelle pallida… sebbene non più pallida come un tempo. — Com’è possibile che tu sia qui? — sussurrò Tessa. — Il Consiglio mi ha richiamato dalla Città Silente. — Neanche la voce era più quella di una volta. Aveva una sfumatura fredda, una sfumatura che prima non c’era. — Grazie all’intervento di Charlotte, mi è stato fatto capire. Ho il permesso di rimanere con te un’ora, non di più. — Un’ora — gli fece eco Tessa, stordita. Sollevò una mano per scostarsi i capelli dal viso. Doveva avere un aspetto orribile, con la camicia da notte spiegazzata, i capelli che le penzolavano in ciocche arruffate, le labbra secche e screpolate. Allungò la mano verso l’angelo meccanico che portava al collo… un gesto familiare, abituale, destinato a darle conforto. Ma l’angelo non c’era più. — Jem… Pensavo che fossi morto. — Mi dispiace — disse lui, e nella sua voce c’era ancora quel distacco, una distanza che le ricordò gli iceberg che aveva visto dalla fiancata del Main, banchi di ghiaccio che galleggiavano lontano nell’acqua gelata. — Mi dispiace di non aver potuto in qualche modo… di non avertelo potuto dire. — Pensavo che fossi morto — ripeté Tessa. — Non posso credere che tu sia reale, ora. Ti ho sognato, in continuazione. C’era un corridoio scuro e tu ti allontanavi da me, e sebbene ti chiamassi, non potevi, o non volevi, girarti per guardarmi. Forse questo è solo un altro sogno. — Questo non è un sogno. — Jem si alzò e rimase di fronte a lei, con le mani pallide intrecciate davanti a sé, e Tessa non poté non ricordare che era così che lui aveva chiesto la sua mano: in piedi, mentre lei stava seduta sul letto, con lo sguardo sollevato su di lui, incredula com’era in quel momento. Jem aprì lentamente le mani, e sui palmi, come sulle guance, Tessa vide incise delle grandi rune nere. Non conosceva abbastanza il Codice per riconoscerle ma, istintivamente, capì che non erano le rune di un normale Cacciatore. Lasciavano intuire un potere ben superiore. — Mi avevi detto che era impossibile, per te, diventare un Fratello Silente — sussurrò Tessa. Jem distolse lo sguardo. Nei suoi movimenti c’era qualcosa di diverso, qualcosa della morbidezza felpata dei Fratelli Silenti. Era insieme bello e agghiacciante. Perché si era voltato? Forse non sopportava di guardarla? — Ti ho detto quello che credevo — disse Jem, rivolto verso la finestra. Vedendolo di profilo, Tessa si accorse che un po’ della penosa magrezza del suo viso era scomparsa. Gli zigomi non erano più così pronunciati, gli incavi delle tempie non più così scuri. — Ed era vero. Lo yin fen nelle mie vene impediva che mi venissero imposte le rune della

Fratellanza. Tessa vide il suo petto sollevarsi e abbassarsi sotto la tonaca color pergamena, e ne fu quasi stupita: sembrava così umano, il bisogno di respirare. — Tutti gli sforzi fatti per disabituarmi lentamente all’assunzione di yin fen mi avevano quasi ucciso. Quando ho smesso di prenderne perché non ce n’era più, ho sentito che il mio corpo cominciava ad andare in pezzi dall’interno. E ho pensato di non avere più niente da perdere. — L’intensità con cui Jem parlava gli scaldò la voce… c’era in essa una sfumatura di umanità, un’incrinatura nella corazza della Fratellanza? — Ho chiesto a Charlotte di chiamare i Fratelli Silenti e ho chiesto loro di impormi le rune della Fratellanza all’ultimo istante, quello in cui la vita avrebbe lasciato il mio corpo. Sapevo che le rune avrebbero potuto farmi morire tra dolori atroci. Ma era l’unica possibilità. — Avevi detto che non desideravi diventare un Fratello Silente. Che non desideravi vivere per sempre… Jem aveva fatto alcuni passi nella stanza, avvicinandosi alla toletta di Tessa. Allungò la mano e prese un oggetto metallico e scintillante da una ciotola per gioielli. — Non ticchetta più. Tessa si rese conto, con un sussulto, che si trattava del suo angelo meccanico. Non riusciva a decifrare la voce di Jem; la sentiva distante, liscia e fredda come una pietra. — Il suo cuore è andato. Quando mi sono trasformata nell’angelo, l’ho liberato dalla sua prigione meccanica. Non vive più là dentro. Non mi protegge più. — Devo dirtelo… — Le mani di Jem si chiusero sull’angelo, le cui ali gli si conficcarono nella carne del palmo. — Quando Charlotte mi ha chiamato qui, è stato contro i miei desideri. — Non volevi vedermi? — No. Non volevo che mi guardassi come mi stai guardando ora. — Jem… — Tessa deglutì, sentendo sulla lingua il sapore amaro della tisana che le aveva dato. Un turbinio di ricordi: l’oscurità sotto il Cadair Idris, la città in fiamme, le braccia di Will intorno a lei… Will. Ma pensavano entrambi che Jem fosse morto. — Quando ti ho visto vivo, laggiù al Cadair Idris, ho pensato che fosse un sogno o una menzogna. Ti avevo creduto morto. È stato il momento più buio della mia vita. Credimi, ti supplico di credermi, la mia anima gioisce nel rivederti mentre pensavo che non l’avrei più fatto. È solo che… Jem allentò la presa sul piccolo angelo. Sul suo palmo, nel punto in cui era stato ferito dalle ali metalliche, Tessa vide due linee insanguinate incise sopra le rune. — Ti sembro strano. Non umano. — Per me sarai sempre umano — mormorò lei. — Ma ora non riesco proprio a vedere in te il mio Jem. Jem chiuse gli occhi. Le ombre scure sulle sue palpebre, a cui Tessa era abituata, erano scomparse. — Non avevo scelta. Eri stata rapita, e Will era venuto a cercarti al posto mio. Non temevo la morte, ma temevo di abbandonare tutti e due. Questa, dunque, era la mia unica risorsa. Vivere, continuare a esistere e a combattere. — Nella sua voce era affluito un po’ di colore: c’era passione, sotto il gelido distacco dei Fratelli Silenti. — Ma sapevo cosa avrei perso — disse Jem. — Una volta capivi la mia musica. Ora mi guardi come se non mi conoscessi affatto. Come se non mi avessi mai amato. Tessa scivolò fuori del copriletto e si alzò. Fu un errore. La testa le ondeggiò all’improvviso, le ginocchia si piegarono. Allungò una mano per afferrare una delle colonnine del letto, e invece la ritrovò serrata sulla tonaca color pergamena di Jem. Si era lanciato verso di lei con il passo

leggiadro e silenzioso dei Fratelli Silenti, simile a fumo che si levi in spire, e ora le sue braccia erano intorno a lei e la sostenevano. Tessa si irrigidì nell’abbraccio. Era vicino, abbastanza vicino perché sentisse il calore che si sprigionava dal suo corpo, ma non lo sentì. Il suo consueto odore di fumo e zucchero bruciato era svanito. C’era solo un vago odore di qualcosa di secco e freddo come la pietra, o la carta. Sentiva il pulsare attutito del suo cuore, ne vedeva il battito sulla gola. Alzò lo sguardo su di lui, stupita, memorizzando le linee e gli angoli del suo viso, le cicatrici sugli zigomi, la seta ruvida delle ciglia, l’arco della bocca. — Tessa. — La parola venne fuori in un gemito, come se l’avesse colpito. C’era una traccia appena percettibile di colore nelle sue guance, sangue sotto la neve. — Oh, per l’Angelo… — Jem affondò il viso nell’incavo del collo della ragazza, dove iniziava la curva della spalla, la guancia contro i capelli di lei. I suoi palmi erano piatti sulla schiena di Tessa e la premevano più forte contro di lui. Per un istante Tessa fu sbloccata dal sollievo inebriante di sentire Jem sotto le proprie mani. Lo sentì tremare. Forse non si crede davvero a qualcosa finché non si può toccarla. E lì c’era Jem, che aveva creduto morto, e invece la teneva in piedi, e respirava, ed era vivo. — Io ti sento quello di sempre — disse Tessa. — Eppure sembri così diverso. Sei diverso. A quelle parole, Jem si allontanò bruscamente da lei, con uno sforzo che gli fece mordere il labbro e tendere dolorosamente i muscoli del collo. Tenendola delicatamente per le spalle, la guidò di nuovo verso il letto e la fece sedere sul bordo. Quando la lasciò, chiuse le mani a pugno. Fece un passo indietro. — Sono diverso, certo — disse a bassa voce. — Sono cambiato. E in maniera irreversibile. — Ma non sei ancora completamente uno di loro — disse Tessa. — Puoi parlare… e vedere… Jem buttò fuori l’aria lentamente. Stava ancora osservando la colonnina del letto, quasi contenesse i segreti dell’universo. — C’è un processo. Una serie di rituali e procedure. No, la mia trasformazione non è ancora definitiva. Ma lo sarà presto. — Dunque lo yin fen non l’ha impedita. — Quasi. C’è stato… dolore durante il passaggio. Molto dolore, mi ha quasi ucciso. Hanno fatto quello che hanno potuto. Ma non sarò mai come gli altri Fratelli Silenti. — Jem abbassò lo sguardo, con gli occhi nascosti dalle ciglia. — Non sarò… esattamente come loro. Sarò meno potente, perché ci sono tuttora rune che non posso sopportare. — Non possono aspettare che lo yin fen lasci completamente il tuo corpo? — Non accadrà. Il mio corpo è stato bloccato nello stato in cui si trovava quando mi hanno imposto queste prime rune, qui. — Jem indicò le cicatrici sul volto. — Per questo motivo ci saranno facoltà che non potrò acquisire. Impiegherò molto più tempo a impadronirmi della loro vista e del linguaggio della mente. — Questo significa che non ti caveranno gli occhi… e non ti cuciranno le labbra? — Non lo so. — La sua voce era dolce, quasi identica alla voce dello Jem che Tessa conosceva. I suoi zigomi erano arrossati, e a Tessa venne in mente una pallida colonna di marmo cavo che si riempiva lentamente di sangue umano. — Mi terranno a lungo, forse per sempre. Non posso dire cosa accadrà. Mi sono consegnato ai Fratelli Silenti. Ora il mio destino è nelle loro mani. — Se potessimo liberarti da questo destino… — Allora lo yin fen che ho ancora in corpo tornerebbe a bruciare, e sarei di nuovo quello che ero.

Un schiavo della droga, con un piede nella fossa. Questa è la mia scelta, Tessa, perché in caso contrario significherebbe la morte. Sai che è così. Io non voglio lasciarti. Anche sapendo che diventare un Fratello Silente poteva assicurarmi la sopravvivenza, ho fatto di tutto per evitarlo, come se fosse una condanna a morte. I Fratelli Silenti non possono sposarsi. Non possono avere parabatai. Possono vivere soltanto nella Città Silente. Non ridono. Non possono suonare. — Oh, Jem… I Fratelli Silenti non potranno suonare, ma non possono farlo neppure i morti. Se questo è il solo modo perché tu possa vivere, allora nel profondo gioisco per te, anche se il mio cuore è addolorato. — Ti conosco troppo bene per pensare che potresti provare qualcosa di diverso. — E io ti conosco troppo bene per non sapere che ti senti schiacciato dal senso di colpa. Ma perché? Non hai fatto nulla di sbagliato. Jem piegò la testa in modo da appoggiare la fronte alla colonnina del letto. Chiuse gli occhi. — È per questo che non volevo venire. — Ma io non sono arrabbiata… — Non pensavo che saresti stata arrabbiata — esplose Jem, e fu come se il ghiaccio di una cascata gelata si crepasse, liberando un torrente. — Eravamo fidanzati, Tessa. Una proposta – una domanda di matrimonio – è una promessa. La promessa di amare e di prendersi cura per sempre di qualcuno. Io non intendevo rompere quella che ti avevo fatto. Ma era questo o la morte. Avrei voluto aspettare, sposarti e vivere con te per anni, ma non era possibile. Stavo morendo troppo in fretta. Avrei rinunciato a tutto per essere sposato con te un solo giorno. Un giorno che non sarebbe mai venuto. Tu mi ricordi… mi ricordi tutto ciò che sto perdendo. La vita che non avrò. — Rinunciare alla tua vita per un giorno di matrimonio… non ne sarebbe valsa la pena — disse Tessa. Il battito impetuoso del suo cuore componeva un messaggio che le parlava delle braccia di Will intorno a lei, delle sue labbra sulle proprie nella caverna sotto il Cadair Idris. Lei non meritava le dolci confessioni di Jem, il suo pentimento, e neppure il suo desiderio. — Jem, devo dirti una cosa. — Quando lui si voltò a guardarla, Tessa vide il nero nei suoi occhi, fili di nero mescolati all’argento, belli e strani. — Si tratta di Will, e di me. — Ti ama. — Jem annuì. — So che ti ama. Ne abbiamo parlato prima che partisse. — Sebbene il gelo non fosse tornato nella sua voce, d’un tratto sembrò innaturalmente calmo. Tessa era confusa. — Non sapevo che aveste parlato. Will non me l’ha detto. — E neppure tu mi hai mai parlato dei suoi sentimenti, sebbene li conoscessi da tempo. Tutti noi nascondiamo dei segreti perché non vogliamo ferire le persone che ci amano. C’era una sorta di avvertimento nella sua voce, o Tessa lo stava solo immaginando? — Non voglio tenerti più nulla segreto — disse la ragazza. — Pensavo che fossi morto. Io e Will lo credevamo. Al Cadair Idris… — Mi amavi? — la interruppe Jem. Fece quella domanda senza allusioni o ostilità, e aspettò tranquillamente la risposta. Tessa ripensò alle parole di Woolsey Scott, come il sussurro di una preghiera. La maggior parte delle persone è già fortunata ad avere un grande amore nella propria vita. Voi ne avete trovati due. Per un momento dimenticò la sua confessione. — Sì, ti ho amato. Ti amo ancora. Amo anche Will. Non posso spiegarlo. Non lo sapevo quando ho accettato di sposarti. Ti amavo, ti amo ancora, non ti ho mai amato di meno sebbene ami pure lui. Sembra folle, ma se c’è qualcuno che può capirlo…

— Io lo capisco — disse Jem. — Non c’è bisogno che tu mi dica altro su te e Will. Non c’è nulla che possiate aver fatto che mi indurrebbe a smettere di amarvi. Will è me stesso, è la mia anima, e se non sono destinato ad avere la custodia del tuo cuore, allora non c’è nessun altro a cui vorrei che andasse quell’onore. E quando me ne sarò andato, tu dovrai aiutarlo. Sarà… dura per lui. Tessa studiò il viso di Jem, pallido ma composto. Il sangue aveva lasciato le sue guance. Le mascelle erano contratte. Con tutto il suo atteggiamento sembrava dire: Non dirmi di più. Non voglio sapere. Alcuni segreti era meglio condividerli, pensò Tessa; altri era meglio che rimanessero un fardello per chi li portava, in modo da non causare dolore agli altri. Per questo non aveva detto a Will che lo amava, visto che non c’era nulla che potessero fare al riguardo. Chiuse la bocca su quanto aveva avuto intenzione di rivelare, e invece disse: — Non so come farò senza di te. — Mi chiedo la stessa cosa. Non voglio lasciarti. Non posso lasciarti. Ma morirò, se rimango qui. — No, non devi rimanere. Promettimi che andrai — disse Tessa. — Va’ e sii un Fratello Silente, e vivi. Se tu potessi credermi, se potesse convincerti ad andare, ti direi che ti odio. Voglio che tu viva. Anche se significa che non ti rivedrò più. — Ci rivedremo — disse Jem, alzando la testa. — In effetti, c’è una possibilità… solo una possibilità, ma… — Cosa? Jem rimase in silenzio… esitò, poi sembrò prendere una decisione. — Niente. Sciocchezze. — Jem… — Mi rivedrai, ma non spesso. Ho appena cominciato il mio viaggio, e sono molte le Leggi che governano la Fratellanza. Mi allontanerò dalla mia vita precedente. Non posso dire quali capacità o quali cicatrici avrò. Non posso dire quanto sarò diverso. Temo che perderò la mia musica e il mio vero essere. Temo che diventerò qualcosa che non sarà completamente umano. So che non sarò più il tuo Jem. Tessa poté solo scuotere la testa. — Ma i Fratelli Silenti… vengono spesso… si mescolano con gli altri Cacciatori… Tu non potresti…? — Non lo fanno durante il periodo di addestramento. E anche dopo averlo finito lo fanno di rado. Ci vedete quando qualcuno è malato o sta morendo, quando nasce un bambino, per i rituali delle prime rune o dei parabatai… ma non onoriamo della nostra presenza le case dei Cacciatori senza essere convocati. — Allora Charlotte ti convocherà. — Mi ha chiamato qui questa volta, ma non può farlo in continuazione. Un Cacciatore non può convocare un Fratello Silente senza una ragione. — Ma io non sono una Cacciatrice — replicò Tessa. — Non proprio. Si guardarono a lungo in silenzio. Entrambi ostinati. Entrambi immobili. Alla fine Jem domandò: — Ti ricordi di quando siamo stati insieme sul Blackfriars Bridge? — E i suoi occhi erano com’erano stati quella notte, tutti nero e argento. — Certo che lo ricordo. — È stato allora che ho capito di amarti — disse Jem. Chiuse gli occhi, poi gli riaprì. — Ti faccio una promessa. Ogni anno, Tessa, quello stesso giorno, c’incontreremo su quel ponte. Uscirò dalla Città Silente, e staremo insieme, anche se solo per un’ora. Ma non dovrai dirlo a nessuno.

— Un’ora all’anno — sussurrò Tessa. — Non è molto. — Poi si ricompose e fece un profondo respiro. — Ma tu vivrai. Vivrai. Questo è ciò che conta. Non andrò a visitare la tua tomba. — No. Non per molto, molto tempo — affermò Jem, e la distanza era tornata nella sua voce. — Dunque è un miracolo, e i miracoli non si mettono in dubbio, né ci si lamenta che non si adattino perfettamente ai nostri desideri. — Tessa alzò la mano e toccò il ciondolo di giada che portava al collo. — Devo restituirtelo? — No, ormai non sposerò nessun’altra. E non porterò il regalo di nozze di mia madre nella Città Silente. — Jem allungò la mano e le toccò lievemente il viso. — Quando sarò al buio voglio pensarlo alla luce, con te — disse, poi si raddrizzò e si avviò verso la porta. Tessa lo guardò paralizzata, mentre ogni battito del suo cuore scandiva la parola che non poteva pronunciare: Addio. Addio. Addio. Jem si fermò davanti alla porta. — Ti vedrò sul Blackfriars Bridge, Tessa. E se ne andò. Se Will chiudeva gli occhi, poteva sentire i rumori dell’Istituto che si animava di prima mattina intorno a lui, o almeno poteva immaginarli: Sophie che preparava il tavolo della colazione, Charlotte e Cyril che aiutavano a mettere Henry sulla sua sedia, i fratelli Lightwood che discutevano ancora assonnati nei corridoi, Cecily che senza dubbio lo cercava nella sua stanza, come faceva ormai da parecchie mattine, tentando – inutilmente – di nascondere la preoccupazione. E, nella stanza di Tessa, Jem e Tessa che parlavano. Sapeva che Jem era lì, perché in cortile era parcheggiata la carrozza dei Fratelli Silenti. La vedeva dalle finestre della sala delle esercitazioni. Ma non poteva pensarci. Era ciò che aveva voluto, ciò che aveva chiesto a Charlotte, ma adesso che stava accadendo si era reso conto di non poterne sopportare a lungo il pensiero. Perciò si era recato nella stanza in cui andava sempre quando la sua mente era turbata; lanciava coltelli contro la parete da quando era sorto il sole, e ormai aveva la camicia zuppa di sudore e incollata alla schiena. Tunf. Tunf. Tunf. I coltelli colpivano la parete senza mai mancare il centro del bersaglio. Will ripensò a quando, all’età di dodici anni, gli pareva che lanciare il coltello in un punto qualsiasi vicino al bersaglio fosse un sogno irrealizzabile. Jem lo aveva aiutato, gli aveva mostrato come tenere una lama, come allineare la punta e tirare. Di tutti i luoghi dell’Istituto, la sala delle esercitazioni era quella che più glielo ricordava, a parte la sua stanza personale, anche se ormai liberata delle sue cose. Era diventata una delle tante stanze vuote dell’Istituto, in attesa che ci si trasferisse un altro Cacciatore. Perfino Church sembrava non avere voglia di entrarci; a volte si metteva accanto alla porta e aspettava, come fanno i gatti, ma non dormiva più sul letto come faceva quando la stanza era occupata da Jem. Will rabbrividì. La sala delle esercitazioni era fredda nel grigiore del primo mattino; il fuoco nel caminetto bruciava con minore intensità, un’ombra di lingue rosse e dorate che mandava braci colorate. Nella sua mente, Will vedeva due ragazzini seduti sul pavimento davanti al fuoco, in quella stessa stanza, uno dai capelli nerissimi, l’altro dai capelli chiari come la neve. Stava insegnando a Jem a giocare a écarté con un mazzo di carte che aveva rubato dal soggiorno. A un certo punto, di cattivo umore perché perdeva, Will aveva gettato le carte nel fuoco e le aveva guardate, incantato, bruciare a una a una, mentre le fiamme bucavano la lucida carta bianca. Jem aveva riso. — Non puoi vincere così. — A volte è l’unico modo per vincere — aveva replicato Will. — Bruciare tutto.

Andò a recuperare i coltelli dalla parete, aggrottando le ciglia. Bruciare tutto. Era tutto dolorante. Mentre staccava le lame, vide che, nonostante gli iratze, aveva ancora le braccia coperte dei lividi e delle cicatrici che si era procurato nella battaglia del Cadair Idris e che gli sarebbero rimasti per sempre. Pensò a quando aveva combattuto al fianco di Jem durante la battaglia. Al momento non l’aveva apprezzata a dovere. Quell’ultima, ultima volta. Come un’eco dei suoi pensieri, un’ombra si proiettò sulla soglia. Will alzò lo sguardo… e lasciò quasi cadere il coltello che aveva in mano. — Jem? — mormorò. — Sei tu, James? — Chi altri? Mentre Jem si sporgeva nella luce della stanza, Will vide che il cappuccio era tirato indietro, lo sguardo era fisso nel suo. Il viso, gli occhi… tutto familiare. Ma Will era sempre stato capace di percepire Jem in anticipo, di avvertire il suo avvicinarsi e la sua presenza. Il fatto che questa volta lo avesse colto di sorpresa era un segno chiarissimo del cambiamento avvenuto nel suo parabatai. Non è più il tuo parabatai, gli disse una vocina in fondo alla mente. Jem entrò con il passo silenzioso dei Fratelli Silenti, chiudendosi la porta alle spalle. Will non si mosse da dov’era. Gli sembrava di non esserne capace. La vista di Jem al Cadair Idris era stata uno shock che gli aveva percorso il corpo come un’incandescenza terribile e magnifica. Jem era vivo, ma era cambiato. Era vivo, ma era perduto. — Non eri venuto per vedere Tessa? — chiese Will, esitante. Jem lo guardò con aria mite. I suoi occhi erano del colore dell’ardesia con striature di ossidiana. — E non hai pensato che avrei approfittato dell’occasione, di qualsiasi occasione mi fosse data, per vedere anche te? — Non sapevo cosa pensare. Dopo la battaglia, te ne sei andato senza un addio. Jem fece qualche passo nella stanza. Will senti la schiena irrigidirsi. C’era qualcosa di strano, qualcosa di differente e compenetrato nel modo in cui l’amico si muoveva; non era la grazia da Cacciatore che lui si era esercitato per tanti anni a imitare, ma qualcosa di strano, di diverso e nuovo. Jem dovette scorgere qualcosa nell’espressione di Will, perché si fermò. — Come avrei potuto dire addio a te? Will lasciò cadere il coltello, che si conficcò nel legno del pavimento. — Come fanno i Cacciatori? Ave atque vale. E in perpetuo, fratello, salute e addio. — Ma quelle sono parole destinate ai morti. Catullo le ha pronunciate sulla tomba del fratello, no? Multas per gentes et multa per aequora vectus advenio has miseras, frater, ad inferias… Will sapeva le parole. Per molte genti e per molti mari portato, sono giunto, fratello, a queste misere esequie, per donarti l’estremo tributo dovuto ai morti. In perpetuo, fratello, salute. In perpetuo, addio. Sgranò gli occhi. — Tu… hai imparato a memoria la poesia in latino? Ma se sei sempre stato quello che imparava a memoria la musica, non le parole… — Si interruppe con una breve risata. — Non importa. I rituali della Fratellanza avranno cambiato le cose. — Si girò e si allontanò di qualche passo, poi fece dietrofront e si mise davanti a Jem. — Il tuo violino è nella sala della musica. Pensavo che magari l’avresti portato con te. Ci tenevi tanto. — Nella Città Silente non possiamo portare altro che non siano i nostri corpi e le nostre menti — disse Jem. — Ho lasciato il violino qui per qualche Cacciatore che in futuro potrebbe avere voglia di suonarlo.

— Non per me, dunque. — Sarei onorato se volessi prenderlo e averne cura. Ma per te ho lasciato qualcos’altro. Nella tua stanza c’è la mia scatola dello yin fen. Ho pensato che forse ti avrebbe fatto piacere averla. — Mi sembra un regalo crudele — disse Will. — Per ricordarmi… — Cosa ti ha portato via da me. Cosa ti ha fatto soffrire. Cosa ho cercato e non sono riuscito a trovare. Come ti ho deluso. — Will, no — replicò Jem che, come sempre, aveva capito senza che l’amico dovesse spiegare. — Non è sempre servita a contenere droga. Era di mia madre. Sul coperchio è raffigurata la dea Kwan Yin. Si racconta che quando morì e raggiunse le porte del Paradiso, si fermò e sentì le grida di angoscia provenienti dal mondo umano sottostante, e non poté lasciarlo. Rimase per dare aiuto ai mortali, visto che non potevano aiutarsi da soli. È il conforto di tutti i cuori sofferenti. — Una scatola non mi conforterà. — Il cambiamento non è una perdita, Will. Non sempre. Will si passò le mani tra i capelli umidi. — Oh, sì — disse in tono amaro. — Forse in qualche altra vita, oltre questa, quando avremo oltrepassato il fiume, o fatto un giro sulla Ruota della Reincarnazione, o in qualsiasi altro modo tu voglia descrivere la dipartita da questo mondo, troverò di nuovo il mio amico, il mio parabatai. Ma ti ho perso ora… ora che ho bisogno più che mai di te! Jem si era mosso attraverso la stanza – come un guizzo d’ombra, con la grazia dei Fratelli Silenti – e ora stava accanto al fuoco. La luce delle fiamme gli illuminava il viso, e Will vide che qualcosa sembrava brillare attraverso di lui: una sorta di luce che non c’era stata prima. Jem aveva sempre brillato di vita tenace e bontà ancora più tenace, ma quella era una cosa diversa. La luce sembrava ardere dentro di lui; era una luce distante e solitaria, come il bagliore di una stella. — Non hai bisogno di me — disse Jem. Will abbassò lo sguardo su di sé. Sul coltello ai suoi piedi, e ricordò quello che aveva sotterrato alla base dell’albero sulla strada Shrewsbury-Welshpool, macchiato del suo sangue e di quello di Jem. — Per tutta la mia vita, da quando sono arrivato all’Istituto, sei stato lo specchio della mia anima. Vedevo in te il bene che c’era in me. Soltanto nei tuoi occhi trovavo la grazia. Quando mi avrai lasciato, chi mi vedrà così? Allora calò il silenzio. Jem era immobile come una statua. Will cercò con lo sguardo la runa parabatai sulla spalla di Jem. Proprio come la sua, era sbiadita in un bianco pallido. Alla fine, Jem parlò. La fredda distanza aveva lasciato la sua voce; Will inspirò a fatica, ricordando quanto quella voce avesse plasmato gli anni della sua crescita, come quella ferma dolcezza fosse stata per lui un faro nelle tenebre. — Abbi fiducia in te. Tu puoi essere lo specchio di te stesso. — E se non ci riesco? — mormorò Will. — Non so nemmeno come essere un Cacciatore, senza di te. Ho sempre combattuto con te al mio fianco. Jem fece un passo avanti, si avvicinò abbastanza da toccarlo. E questa volta Will non si mosse. Pensò distrattamente che, prima di allora, non era mai stato tanto vicino a un Fratello Silente, che la stoffa di cui era intessuta la tonaca color pergamena era spessa e chiara come la corteccia di un albero, e che la pelle di Jem sembrava emanare gelo, come una pietra che perfino in una giornata torrida mantenga un po’ di freddo. Jem mise le dita sotto il mento dell’amico, costringendolo a guardarlo dritto in faccia. Il suo tocco era freddo.

Will si morse il labbro. Quella forse era l’ultima volta che Jem, in quanto Jem, lo toccava. Ricordi vividi lo trafissero come un coltello, delle leggere pacche di Jem sulla spalla, della mano di Jem tesa per aiutarlo ad alzarsi quando cadeva, di Jem che lo tratteneva quando era furioso, della sua mano sulle spalle esili di Jem, mentre l’amico sputava sangue sulla sua camicia. — Ascoltami, Will. Me ne vado, ma sono vivo. Non mi allontanerò completamente da te. Ora, quando combatterai, sarò ancora con te. Quando te ne andrai per il mondo, sarò la luce al tuo fianco, il terreno solido sotto i tuoi piedi, la forza che guiderà la spada nella tua mano. Siamo legati, al di là del giuramento. I marchi non hanno cambiato questa realtà. Il giuramento non l’ha cambiata. Ha semplicemente dato espressione a qualcosa che esisteva già. — Ma… e tu? — replicò Will. — Dimmi cosa posso fare, perché io sono il tuo parabatai, e non voglio che te ne vada da solo nell’ombra della Città Silente. — Non ho scelta. Ma se c’è una cosa che potrei chiederti, è di essere felice. Voglio che tu abbia una famiglia e invecchi con coloro che ti amano. E se desideri sposare Tessa, non lasciare che il mio ricordo vi tenga separati. — Potrebbe anche non volermi — disse Will. Jem sorrise fugacemente. — Be’, questo sta a te, immagino. Will restituì il sorriso, e solo per quell’attimo furono di nuovo Jem e Will. Attraverso l’amico poteva vedere il passato. Ricordò loro due che correvano per le strade buie di Londra, che saltavano da un tetto all’altro, addormentati come cuccioli sul tappeto davanti al fuoco; le ore trascorse nella sala delle esercitazioni, le spinte nelle pozze di fango, le palle di neve gettate a Jessamine da dietro un fortino di ghiaccio in cortile, le lame angeliche che brillavano nelle loro mani. Ave atque vale, pensò Will. Salute e addio. Non aveva dato molto peso a quelle parole prima di allora, non aveva mai pensato al perché non fossero solo un addio ma anche un saluto. Ogni incontro implicava una separazione, e così sarebbe stato finché la vita fosse stata mortale. In ogni incontro c’era un po’ del dolore della separazione, ma in ogni separazione c’era anche un po’ della gioia dell’incontro. Non avrebbe dimenticato la gioia. — Quando Gionata disse addio a David, pronunciò queste parole: «Va’ in pace, perché noi due abbiamo giurato che il Signore sarà tra me e te, per sempre». Non si rividero mai più, ma non dimenticarono. Così sarà per noi — disse Jem. — Quando sarò Fratello Zachariah, quando non vedrò più il mondo con i miei occhi umani, da qualche parte sarò ancora il Jem che conoscevi, e ti vedrò con gli occhi del mio cuore. — Wo men shi sheng si ji jiao — disse Will, e vide gli occhi di Jem allargarsi, impercettibilmente, e un guizzo di divertimento dentro di essi. — Va’ in pace, James Carstairs. Rimasero a guardarsi per un lungo istante, poi Jem tirò su il cappuccio, nascondendo il viso nell’ombra, e si girò. Will chiuse gli occhi. Non poteva sentire Jem andarsene, non più; non voleva conoscere il momento in cui se ne sarebbe andato via e lui sarebbe rimasto solo, non voleva sapere quando sarebbe cominciato davvero il suo primo giorno senza parabatai. E se nel punto sopra il cuore in cui era stata la runa parabatai divampò all’improvviso un dolore bruciante quando la porta si chiuse alle spalle di Jem, Will si disse che era solo una brace volata via dal fuoco. Si appoggiò alla parete, quindi scivolò lentamente giù finché non si ritrovò seduto sul pavimento, accanto al suo coltello da lancio. Non sapeva quanto a lungo rimase seduto così, ma sentì il rumore

dei cavalli nel cortile, lo sbatacchiare della carrozza dei Fratelli Silenti che si allontanava lungo il viale d’accesso. Il fragore del cancello che si chiudeva. Siamo polvere e ombra. — Will? Il ragazzo guardò su. Non aveva notato l’esile figura sulla soglia finché non lo aveva chiamato. Charlotte fece un passo avanti e gli sorrise. C’era dolcezza nel suo sorriso, come sempre, e Will si sforzò di non chiudere gli occhi per scacciare i ricordi… Charlotte sulla soglia di quella stessa stanza. Non ricordi cosa ti ho detto ieri, che oggi avremmo accolto un nuovo ospite nell’Istituto? James Carstairs. — Will, avevi ragione. Lui alzò la testa. — Ragione su cosa? — Su Jem e Tessa. Il loro fidanzamento è finito — disse Charlotte. — Tessa è sveglia. È sveglia, e sta bene, e chiede di te. Quando sarò al buio voglio pensarlo alla luce, con te. Tessa era seduta eretta contro i cuscini che Sophie le aveva sistemato con cura – le due ragazze si erano abbracciate, e Sophie aveva spazzolato i capelli arruffati di Tessa e aveva detto “ cara, cara” tante di quelle volte che Tessa aveva dovuto chiederle di smetterla, prima che scoppiassero tutte e due a piangere – e guardava il ciondolo di giada che teneva tra le mani. Le sembrava di essere divisa in due persone diverse. Una di esse non cessava di rallegrarsi per la fortuna che Jem fosse vivo, che sarebbe vissuto per vedere il sole sorgere ancora, che la droga velenosa che l’aveva fatto tanto soffrire non avrebbe bruciato la vita nelle sue vene. L’altra… — Tess? — Una voce sommessa alla porta. Lei alzò lo sguardo e vide Will, la sua figura stagliata contro la luce proveniente dal corridoio. Pensò al ragazzo che era entrato nella Casa Oscura e l’aveva distratta dal terrore parlando di Tennyson e di porcospini e di tipi affascinanti che venivano a salvarti e non sbagliavano mai. Allora lo aveva trovato bello, ma ormai lo vedeva in modo completamente diverso. Era Will, in tutta la sua perfetta imperfezione; Will, il cui cuore era tanto facile da spezzare quanto custodito con cura; Will, che non amava in maniera assennata ma totalizzante, e con tutto ciò che aveva. — Tess… — ripeté Will, esitante di fronte al suo silenzio, ed entrò, lasciando la porta socchiusa dietro di sé. — Charlotte ha detto che volevi parlarmi… — Will… — disse lei, e sapeva di essere troppo pallida, e di avere la pelle chiazzata di lacrime, gli occhi ancora rossi, ma non importava, perché era Will; protese le mani, e lui si avvicinò e le prese, chiudendole tra le sue dita calde e coperte di cicatrici. — Come ti senti? — le chiese, studiandole il viso. — Devo parlarti, ma non voglio affaticarti prima che ti sia completamente rimessa. — Sto bene — disse Tessa, rispondendo alla pressione delle sue dita con le proprie. — Vedere Jem ha recato sollievo alla mia mente. È stato lo stesso anche per te? Gli occhi di Will guizzarono lontano dai suoi, ma la stretta sulle mani di Tessa non si allentò. — Sì e no. — La tua mente ha avuto sollievo, ma non il tuo cuore. — Sì, proprio così. Mi conosci così bene, Tess. — Will fece un sorriso mesto. — È vivo, e di questo sono felice. Ma ha scelto una strada di grande solitudine. I Fratelli Silenti mangiano da soli, camminano da soli, si alzano da soli e affrontano la notte da soli. Se potessi, glielo risparmierei.

— Gli hai risparmiato tutto ciò che potevi — replicò Tessa. — Come lui ha fatto con te, e come noi tutti abbiamo cercato in ogni modo di fare l’un l’altro. Alla fine, tutti dobbiamo fare le nostre scelte. — Stai dicendo che non dovrei affliggermi? — No, affliggiti. Lo faremo entrambi. Affliggiti, ma non rimproverarti, perché in questo non hai alcuna responsabilità. Will abbassò lo sguardo sulle loro mani unite. Passò molto delicatamente i pollici sulle nocche di Tessa. — Forse no, ma ci sono altre cose di cui sono responsabile. Tessa fece un respiro rapido, corto. La voce di Will si era abbassata, era roca come non era stata da quando… … il suo alito soffice e caldo contro la pelle, finché anche lei non ansimò, le mani che gli accarezzavano le spalle, le braccia, i fianchi… Tessa batté velocemente le palpebre e ritirò le mani da quelle di lui. Non lo guardava, ma vedeva la luce del fuoco sulle pareti della caverna, e sentiva la sua voce nell’orecchio, e in quel momento era sembrato tutto un sogno, istanti strappati alla vita reale, quasi avessero luogo in un altro mondo. Poteva credere a stento che fosse mai accaduto. — Tessa? — La voce di Will era esitante, le mani ancora tese. Una parte di lei avrebbe voluto prenderle, attirarlo a sé e baciarlo, dimenticare se stessa in lui, come aveva già fatto. Perché Will faceva l’effetto di una droga. E ripensò ai suoi occhi offuscati nella fumeria d’oppio, i sogni di felicità andati in pezzi nel momento in cui gli effetti del fumo erano svaniti. No. Certe cose si potevano risolvere solo affrontandole. Tessa fece un respiro e alzò lo sguardo su Will. — Lo so cosa vuoi dire. Stai pensando a quello che è successo tra noi al Cadair Idris, perché credevamo che Jem fosse morto e saremmo morti anche noi. Sei un uomo d’onore, Will, e sai cosa devi fare ora. Devi chiedermi di sposarti. Will, che era rimasto immobile, si dimostrò ancora capace di stupirla, e rise. Fu una risata sommessa e dolente. — Non mi aspettavo che saresti stata così esplicita, ma suppongo che avrei dovuto. Conosco la mia Tessa. — Sono la tua Tessa… — La ragazza annuì. — Ma non voglio che ne parliamo ora. Di matrimonio, di promesse che durano tutta la vita… Will si sedette sul bordo del letto. Era in tenuta da esercitazione, con l’ampia camicia dalle maniche rimboccate fino ai gomiti, la gola scoperta. — Ti penti di quanto è successo tra noi? — Sulla sua pelle Tessa poteva vedere le cicatrici della battaglia, in via di guarigione. Vedeva anche una punta di amarezza nei suoi occhi. — Ci si può pentire di una cosa che, sebbene sconsiderata, è stata bellissima? — replicò Tessa. L’amarezza negli occhi di Will si addolcì in confusione. — Se temi che io sia restio, che mi senta obbligato… — No. — Tessa sollevò le mani. — Sento solo che il tuo cuore è un groviglio di dolore e disperazione e sollievo e felicità e confusione, e non voglio che tu faccia dichiarazioni finché sei così sconvolto. E non dirmi che non sei sconvolto, perché lo vedo, e mi sento anch’io così. Siamo entrambi sconvolti, e nessuno dei due è in condizione di prendere decisioni. Per un momento, Will esitò. Fece indugiare le dita in un punto sopra il cuore, dov’era stata la runa parabatai – Tessa si chiese se, nel farlo, se ne rendesse conto –, quindi disse: — A volte ho paura

che tu sia troppo saggia. — Be’, uno di noi deve pur esserlo — dichiarò lei, sorridendo. — C’è nulla che io possa fare? — domandò Will. — Preferirei non lasciarti. A meno che tu non lo voglia. Tessa fece cadere lo sguardo sul comodino, dove erano impilati i libri che stava leggendo prima dell’attacco degli automi all’Istituto… sembrava mille anni prima. — Potresti leggermi qualcosa… se non ti dispiace. Will alzò lo sguardo e sorrise. Era un sorriso goffo, strano, ma era vero, ed era Will. — Non mi dispiace, per niente. E fu così che, circa un quarto d’ora dopo, quando Charlotte spinse delicatamente la porta della stanza e vi sbirciò dentro, trovò Will seduto in una poltrona intento a leggere ad alta voce David Copperfield. Non aveva potuto fare a meno di stare in ansia… Will era sembrato così disperato, accovacciato sul pavimento della sala delle esercitazioni, così solo, e lei ricordò la paura che aveva sempre nutrito, che se Jem li avesse mai lasciati, al momento di andarsene avrebbe portato con sé tutto il meglio di Will. E anche Tessa, era ancora così fragile… La voce dolce di Will riempiva la stanza, insieme al tenue scintillio della luce proveniente dal fuoco nel caminetto. Tessa era stesa su un fianco, i capelli castani sparsi sul cuscino, e guardava Will, il cui viso era chino sulle pagine, con negli occhi uno sguardo pieno di tenerezza che si rifletteva nella dolcezza della voce. Era una tenerezza così intima, e così profonda, che Charlotte si ritrasse all’istante, lasciandosi chiudere silenziosamente la porta alle spalle. Eppure la voce di Will la seguì lungo il corridoio, mentre si allontanava con il cuore molto più leggero di quanto lo fosse stato qualche attimo prima. — …non posso accudirlo, se non è cosa troppo ardita da dire, con l’attenzione che vorrei. Ma se qualche frode o tradimento vengono perpetrati contro di lui, spero che l’amore sincero e la verità alla fine siano forti. Spero che alla fine l’amore vero e la verità siano più forti di qualsiasi male o disgrazia al mondo…

24 LA MISURA DELL’AMORE

La misura dell’amore è amare senza misura. Attribuito a Sant’Agostino

La sala del Consiglio era inondata di luce. Sulla pedana rialzata in fondo alla stanza erano stati disegnati due grandi cerchi concentrici e, nello spazio tra di essi, c’erano delle rune: rune di controllo, rune di conoscenza, rune di abilità e destrezza, infine le rune che simboleggiavano il nome di Sophie. La ragazza era inginocchiata al centro dei cerchi. I capelli scuri sciolti le arrivavano alla vita, un’onda di riccioli scuri contro la tenuta da combattimento più scura. Era bellissima alla luce che si riversava dalla cupola a lucernario, la cicatrice sulla guancia simile a una rosa rossa. Il Console era sopra di lei, con le mani bianche sollevate, la Coppa Mortale tra di esse. Charlotte indossava una semplice veste scarlatta che ondeggiava intorno a lei. Il suo viso era serio, severo. — Prendete la Coppa Mortale, Sophie Collins — disse, e nel locale non si sentì volare una mosca. La sala del Consiglio non era piena, ma lo era la fila alla cui estremità era seduta Tessa: Gideon e Gabriel, Cecily e Henry, e lei e Will, tutti piegati ansiosamente in avanti, in attesa che avesse luogo l’Ascensione di Sophie. A ciascuna estremità della pedana c’era un Fratello Silente, a testa china, con la tonaca color pergamena che sembrava scolpita nel marmo. Charlotte abbassò la Coppa Mortale e la porse alla ragazza, che la prese con cautela. — Sophie Collins, giurate di rinunciare al mondo dei mondani e di seguire la via dei Cacciatori? Accoglierete in voi il sangue dell’Angelo Raziel e onorerete quel sangue? Giurate di servire l’Enclave, di seguire la Legge com’è stabilita dall’Alleanza e di obbedire alla parola del Consiglio? Difenderete ciò che è umano e mortale, sapendo che per il vostro servizio non ci sarà altra ricompensa e ringraziamento che l’onore? — Lo giuro — disse Sophie, con voce ferma. — Potrete essere uno scudo per i deboli, una luce nel buio, una verità tra le menzogne, una torre in mezzo all’inondazione, un occhio che veda quando tutti gli altri sono ciechi? — Sì. — E, quando sarete morta, consegnerete il vostro corpo ai Nephilim perché lo brucino, affinché ci si serva dei vostri resti per edificare la Città di Ossa? — Sì. — Allora bevete — disse Charlotte.

Tessa sentì Gideon trattenere il fiato. Quella era la parte pericolosa del rituale, la parte che poteva uccidere chi non fosse addestrato o degno. Sophie chinò la testa e si portò la Coppa Mortale alle labbra. Tessa si sporse in avanti, con il petto serrato per la tensione; sentì la mano di Will scivolare sulla sua, un peso caldo, confortante. La gola di Sophie si mosse mentre beveva. Il cerchio che circondava lei e Charlotte emise una vampata di fredda luce, nascondendole entrambe. Tessa si ritrovò a sbattere gli occhi mentre la luce si affievoliva. Sbatté in fretta le palpebre, e vide Sophie sollevare la Coppa Mortale avvolta da un bagliore e porgerla a Charlotte, che fece un largo sorriso. — Ora siete una Nephilim — disse Charlotte. — Vi nomino Cacciatrice, Sophie, del sangue del Cacciatore Jonathan, discendente dei Nephilim. Alzatevi. E Sophie si alzò, tra le acclamazioni della folla, le più sonore delle quali erano quelle di Gideon. La nuova Cacciatrice sorrideva, tutto il suo viso risplendeva alla luce del sole invernale che brillava debolmente attraverso il lucernario trasparente. Ombre si mossero sul pavimento, guizzanti e veloci. Tessa sollevò lo sguardo, stupita: il biancore striava le finestre, turbinando delicatamente al di là del vetro. — Nevica — le sussurrò Will all’orecchio. — Buon Natale, Tessa. Quella sera ebbe luogo l’annuale festa natalizia dell’Enclave londinese. Era la prima volta che Tessa vedeva la grande sala da ballo dell’Istituto aperta e gremita di gente. Le enormi finestre sfolgoravano di luce riflessa, proiettando uno splendore dorato sul pavimento lucido. Al di là dei vetri si vedeva la neve cadere in bianchi fiocchi grandi e soffici, ma dentro l’Istituto era tutto caldo, dorato e tranquillo. Il Natale dei Cacciatori non era come quello che Tessa conosceva. Non c’erano corone dell’avvento, né canti tradizionali, né petardi. C’era un albero, ma non era decorato nel modo tradizionale; era un abete massiccio che si innalzava fin quasi a toccare il soffitto dalla parte opposta della sala. Quando Will aveva chiesto a Charlotte come diamine fosse finito lì, lei si era limitata a nominare Magnus, sorridendo. Candele stavano in equilibrio su ogni ramo, ma Tessa non vedeva come fossero attaccate o cosa le sostenesse. Inondavano ulteriormente la sala di luce dorata. Fissate ai rami dell’albero – e appese alle appliques, ai candelieri sui tavoli, ai pomi delle porte – c’erano sfolgoranti rune cristalline: erano trasparenti come vetro, eppure rifrangevano la luce, proiettando arcobaleni scintillanti attraverso la sala. Le pareti erano decorate con ghirlande di agrifoglio e edera intrecciati, le bacche rosse brillavano contro le foglie verdi. Qua e là c’erano rametti di vischio dalle bacche bianche; uno era perfino legato al collare di Church, che gironzolava sotto i tavoli apparecchiati. Tessa pensava di non avere mai visto tanto cibo in vita sua. I tavoli traboccavano di polli e tacchini tagliati a pezzi, selvaggina di penna e lepri, prosciutti e pasticci, sandwich, gelati e zuppe inglesi, biancomangiare e budini di crema, gelatine dai colori brillanti, torte alle mandorle con vino e pudding flambé con brandy, sorbetti alla frutta, vino speziato caldo e grandi ciotole d’argento piene di punch. C’erano cornucopie piene di prelibatezze e dolci, e sacchetti di San Nicola contenenti ciascuno un pezzo di carbone, una zolletta di zucchero o una caramella al limone, per dire a chi lo riceveva se quell’anno si era comportato in maniera birichina, dolce o acida. In precedenza c’era stato un tè riservato ai residenti nell’Istituto, che si erano scambiati i doni prima dell’arrivo degli

ospiti. Charlotte, in equilibrio sulle ginocchia di Henry seduto sulla sua sedia a rotelle, aveva aperto i regali per il bambino che sarebbe nato ad aprile. Si sarebbe chiamato Charles Fairchild, aveva annunciato tutta fiera Charlotte sollevando la piccola coperta che Sophie aveva fatto ai ferri, con le graziose iniziali C.F. in un angolo. — Charles Buford Fairchild — l’aveva corretta Henry. Charlotte aveva fatto una smorfia. Tessa, ridendo allegramente, aveva chiesto: — Fairchild? Non Branwell? Charlotte aveva sorriso con un po’ d’imbarazzo. — Io sono il Console. È stato deciso che, in questo caso, il bambino avrebbe portato il mio nome. A Henry non dispiace, vero, Henry? — Niente affatto — aveva risposto lui. — Soprattutto perché Charles Buford Branwell sarebbe suonato piuttosto sciocco, mentre Charles Buford Fairchild fa un ottimo effetto. — Henry… Tessa sorrise al ricordo. Stava accanto all’albero di Natale e osservava la folla festante dei membri dell’Enclave londinese in ghingheri, le donne nelle intense tinte gioiello dell’inverno, con abiti di raso rosso e seta blu e taffettà dorato, gli uomini in eleganti vestiti da sera. Sophie era con Gideon, radiosa e rilassata in un elegante abito di velluto verde. Cecily, in blu, correva tutta contenta di qua e di là senza lasciarsi sfuggire nulla, seguita da Gabriel, divertito e adorante, tutto braccia e gambe e capelli arruffati. Un grosso ciocco natalizio avvolto in ghirlande di edera e agrifoglio ardeva nell’enorme camino di pietra, e appese sopra il camino c’erano reticelle contenenti mele dorate, noci e dolci. E poi c’era la musica, delicata e struggente; a quanto pareva, Charlotte aveva finalmente trovato un impiego degno per il canto di Bridget, che si levava al di sopra del suono degli strumenti, cadenzato e dolce. Ahimè, amore mio, tu mi ferisci Rifiutandomi con malagrazia. Mentre io ti ho amata talmente a lungo, Godendo della tua compagnia. Greensleeves era tutta la mia gioia; Greensleeves era il mio diletto; Greensleeves era il mio cuore d’oro, Chi, se non la mia signora Greensleeves? — “Ora il cielo può piovere tartufi” — canticchiò all’improvviso una voce meditabonda. — “Può tuonare sull’aria di Greensleeves”. Tessa sussultò. Will si era materializzato al suo fianco come per incanto, il che era irritante, visto che l’aveva cercato invano da quando era entrata nella sala. Come sempre, la vista di Will in abito da sera le tolse il respiro, ma lei nascose la forte emozione in petto con un sorriso. — Shakespeare… Le allegre comari di Windsor. — Non una delle sue commedie migliori — commentò Will, osservandola con gli occhi socchiusi. Quella sera Tessa aveva scelto un vestito di seta rosa e non aveva indossato gioielli, ma solo un nastro di velluto che si avvolgeva due volte intorno al collo e pendeva sulla schiena. Sophie le aveva acconciato i capelli – a titolo di favore, ormai, e non più nelle vesti di cameriera – e le aveva intrecciato delle piccole bacche bianche tra i riccioli pettinati all’insù. Tessa si sentiva molto

sofisticata e vistosa. — Tuttavia ha i suoi buoni momenti — aggiunse Will. — Per fortuna che c’è il nostro critico letterario. — Tessa sospirò, distogliendo lo sguardo da lui e spostandolo sulla sala, nel punto in cui Charlotte stava conversando con un uomo alto dai capelli biondi, che lei non riconobbe. Will si chinò su di lei. — Quelle che hai tra i capelli sono bacche di vischio — disse. — Teoricamente, credo significhi che chiunque può baciarti in qualsiasi momento. — Ritieni probabile che ci provino? Will le toccò lievemente la guancia; indossava candidi guanti di pelle scamosciata, ma le sembrò ugualmente di sentire la sua pelle sulla propria. — Ucciderei chiunque lo facesse. — Bene — disse Tessa. — Non sarebbe la prima volta che fai qualcosa di scandaloso a Natale. Will rimase un istante in silenzio e poi sorrise, quel suo raro sorriso che gli illuminava il viso e ne cambiava interamente l’aspetto. Era un sorriso che Tessa temeva scomparso per sempre, scomparso insieme a Jem giù nelle tenebre della Città Silente. Jem non era morto, ma un frammento di Will lo aveva seguito quando se n’era andato, un frammento scalpellato via dal suo cuore e sepolto laggiù, tra le ossa mormoranti. E Tessa si era preoccupata che Will non si riprendesse, che rimanesse per sempre una specie di fantasma che girovagava per l’Istituto senza mangiare, rivolgendosi in continuazione a qualcuno che non era lì, con la luce che gli moriva sul viso mentre ricordava in silenzio. Ma era stata determinata. Anche il proprio cuore era stato spezzato, ma aggiustare quello di Will, ne era certa, avrebbe significato aggiustare in qualche modo anche il proprio. Non appena era stata abbastanza forte, aveva cominciato a portargli tè che non voleva e libri che voleva, non gli dava pace dentro e fuori la biblioteca, gli chiedeva aiuto durante le esercitazioni. Aveva detto a Charlotte di smettere di trattarlo come fragile vetro e di mandarlo in città a combattere, come prima, con Gabriel o Gideon invece che con Jem. E Charlotte lo aveva fatto, sebbene dubbiosa, e Will era tornato insanguinato e ammaccato, ma con gli occhi vivi e accesi. — È stata un’idea intelligente — le aveva detto in seguito Cecily mentre stavano accanto alla finestra e guardavano Will e Gabriel che parlavano nel cortile. — Essere un Nephilim dà uno scopo a mio fratello. Essere un Cacciatore riparerà ciò che ancora è incrinato dentro di lui. E tu lo aiuterai. Tessa aveva lasciato ricadere la tenda, con aria pensosa. Lei e Will non avevano parlato di quanto era successo al Cadair Idris, della notte che avevano passato insieme. A dire il vero, sembrava lontana come un sogno. Era come se fosse successo a un’altra persona, non a lei. Ignorava se Will provasse la stessa cosa. Sapeva che Jem aveva saputo, o indovinato, e perdonato entrambi. Ma, da quando Jem se n’era andato, Will non l’aveva avvicinata di nuovo, non le aveva detto che la amava e non le aveva chiesto se lo amava. Le era sembrato che fosse trascorsa un’eternità, e non due sole settimane, prima che Will passasse in biblioteca, dov’era da sola, e le chiedesse – piuttosto bruscamente – se il giorno seguente avrebbe voluto fare un giro in carrozza. Confusa, Tessa aveva acconsentito, chiedendosi se ci fosse stata qualche ragione speciale per cui lui volesse la sua compagnia. Un mistero su cui indagare? Una confessione da fare? Ma no, era stato un semplice giro in carrozza nel parco. La temperatura era calata, il ghiaccio bordava le rive degli stagni. I rami nudi degli alberi erano spogli e belli, e Will l’aveva intrattenuta garbatamente sul tempo e sui luoghi più caratteristici della città. Sembrava deciso a ricominciare le

lezioni su Londra dal punto in cui Jem le aveva interrotte. Erano andati al British Museum e alla National Gallery, ai Kew Gardens e alla cattedrale di St. Paul, dove Tessa aveva finalmente perso la pazienza. Si trovavano nella famosa camera a sussurro. Tessa era appoggiata alla ringhiera e guardava la cattedrale sottostante. Will stava traducendo l’iscrizione in latino sulla parete della cripta in cui era sepolto Christopher Wren – se cerchi il monumento, guardati attorno – quando Tessa aveva fatto scivolare distrattamente la mano nella sua. Will si era ritratto immediatamente, arrossendo. Lei lo aveva fissato, sorpresa. — C’è forse qualcosa che non va? — No — aveva risposto lui, troppo in fretta. — È solo che… non ti ho portata qui per molestarti nella camera a sussurro. Tessa era esplosa. — Non ti sto chiedendo di molestarmi nella camera a sussurro! Ma… per l’Angelo, vuoi smetterla di essere tanto cortese? Will sembrava sbalordito. — Ma non preferiresti…? — No, non preferirei. Non voglio che tu sia cortese, voglio che tu sia Will! Non voglio che mi mostri i punti di interesse architettonico come se fossi una guida Baedeker. Voglio che tu dica cose spaventosamente folli e divertenti e che inventi canzoni e tu sia… — Il Will di cui mi sono innamorata, era mancato poco che dicesse. — Will — aveva concluso invece. — O ti dò un’ombrellata. — Sto provando a farti la corte — aveva replicato lui. — A farti la corte in maniera corretta. Era questo lo scopo di tutto ciò. Lo sai, non è vero? — Il signor Rochester non ha mai fatto la corte a Jane Eyre — aveva osservato Tessa. — No, si vestiva da donna e faceva impazzire di paura quella povera ragazza. È questo che vuoi? — Saresti una donna molto brutta. — Non è vero. Sarei uno schianto. Tessa aveva riso. — Ecco, questo è Will. Non è meglio, così? — Non lo so. Ho paura di rispondere. Ho sentito dire che, quando parlo con le donne americane, viene loro voglia di prendermi a ombrellate. Tessa aveva riso di nuovo, quindi avevano riso tutti e due, e le loro risatine soffocate erano rimbalzate sulla parete della camera a sussurro. Di lì in poi, le cose erano state decisamente più facili tra loro, e il sorriso di Will, quando al ritorno l’aveva aiutata a scendere dalla carrozza, era stato smagliante e autentico. Quella notte, qualcuno aveva bussato piano alla porta di Tessa, e quando lei era andata ad aprire non aveva trovato nessuno, solo un libro sul pavimento del corridoio: Il racconto di due città. Uno strano regalo, aveva pensato. In biblioteca c’era una copia del libro, che lei poteva leggere ogni volta che lo desiderava, ma quella era nuova di zecca, con una ricevuta di Hatchards infilata in corrispondenza del frontespizio. Solo quando se l’era portato a letto si era resa conto che sul frontespizio c’era anche una dedica. Tess, Tess, Tessa. È mai esistito un suono più bello del tuo nome? Pronunciarlo a voce alta mi fa tintinnare il cuore come un campanello d’argento. Strano, vero? Un cuore che tintinna... Ma quando mi tocchi è così che succede: ho la sensazione che il cuore mi si metta a suonare nel petto e che il tintinnio scorra fremendo nelle vene e vada a infrangersi gioiosamente contro le ossa.

Perché ho scritto queste parole qui, in questo libro? Per te... grazie a te. Mi hai insegnato ad amarlo quando lo disprezzavo. L’ho letto una seconda volta, con la mente e il cuore aperti, e sono sprofondato nella disperazione e nell’invidia per Sydney Carton. Certio, Sydney, perché nonostante non avesse la minima speranza che la donna amata potesse ricambiarlo, alla fine riuscì a parlarle del proprio amore. E poté fare qualcosa per dimostrarle la passione che nutriva, benché questo qualcosa sia stato morire. Anch’io avrei scelto la morte in cambio della possibilità di confessarti la verità, Tessa, se avessi avuto la certezza che si sarebbe trattato solo della mia morte. Ed è questo il motivo dell’invidia per Sydney: lui almeno era libero. Ora finalmente sono libero anch’io e posso dirti, senza il timore di metterti in pericolo, tutto ciò che sento nel cuore. Non sei l’ultimo sogno della mia anima. Sei il mio sogno più bello, il primo, l’unico. Non sono mai stato capace di smettere di sognare. Sei il sogno più bello della mia anima, e da questo ne nasceranno altri, spero. Sogni lunghi una vita. Con tanta speranza, finalmente Will Herondale Tessa era rimasta alzata a lungo, tenendo in mano il libro senza leggerlo, guardando l’alba spuntare su Londra. La mattina si era vestita al volo, poi aveva preso il libro ed era corsa di sotto. Si era imbattuta in Will che usciva dalla sua stanza con i capelli ancora umidi, e si era lanciata verso di lui, gli aveva afferrato i baveri della giacca e lo aveva attirato a sé, affondandogli il viso nel petto. Il libro era caduto a terra quando Will l’aveva abbracciata, lisciandole i capelli sulla schiena, sussurrando dolcemente: — Tessa, che c’è, cosa c’è che non va? Non ti è piaciuto… — Nessuno mi aveva mai scritto nulla di così bello — aveva detto Tessa, con il viso premuto contro il suo petto, il battito sommesso e regolare del cuore di lui sotto la camicia e la giacca. — Mai. — L’ho scritto subito dopo aver scoperto che la maledizione era falsa — aveva detto Will. — Avrei voluto darti il libro allora, ma… — La sua mano si era serrata nei suoi capelli. — Quando ho scoperto che eri fidanzata con Jem, l’ho messo via. Non sapevo quando avrei potuto, quando avrei dovuto dartelo. E poi ieri, quando hai voluto che fossi me stesso, ho sentito nascere in me abbastanza speranza da tirare fuori di nuovo quei vecchi sogni, rispolverarli e darteli. Quel giorno erano andati a Hyde Park, anche se il tempo era freddo ma bello e non c’era molta gente in giro. La Serpentine era luminosa sotto il cielo invernale, e Will indicò il posto dove lui e Jem avevano dato da mangiare pasticci di pollo ai germani reali. Era la prima volta che lo vedeva sorridere parlando di Jem. Tessa sapeva che lei, per Will, non poteva essere Jem. Nessuno poteva. Ma piano piano i vuoti nel cuore di Will si andavano colmando. Avere lì Cecily era una gioia per lui; Tessa lo vedeva quando sedevano insieme davanti al fuoco, parlando piano in gallese, e a Will brillavano gli occhi; avevano finito per piacergli perfino Gabriel e Gideon, che erano diventati suoi amici, sebbene nessuno potesse essergli amico come lo era stato Jem. E, naturalmente, l’affetto di Charlotte e Henry era saldo come sempre. La ferita non sarebbe mai scomparsa, Tessa lo sapeva, né per lei né per Will;

ma via via che il tempo si faceva più freddo e Will sorrideva e mangiava più regolarmente, anche l’espressione tormentata spariva dai suoi occhi. Tessa cominciò a respirare più agevolmente, sapendo che non era un’espressione di morte. — Mmm… forse hai ragione — disse Will, dondolandosi leggermente sui tacchi mentre esaminava la pista da ballo. — Penso che fosse più o meno Natale quando mi sono fatto fare il tatuaggio del drago gallese. A quelle parole, Tessa dovette mettercela tutta per non arrossire. — Come è successo? Will fece un gesto vago della mano. — Ero ubriaco… — Sciocchezze. Tu non sei mai davvero ubriaco. — Al contrario… per imparare a fingere di essere brilli, bisogna esserlo stati almeno una volta, come punto di riferimento. Nigel-Sei-Dita aveva bevuto tanto di quel sidro cotto… — Be’, dai, non dirai sul serio… che esiste davvero un Nigel-Sei-Dita? — Certo che esiste… — cominciò Will con un sorriso che svanì all’istante; stava guardando oltre Tessa, la sala da ballo. Tessa si girò per seguire il suo sguardo, e vide lo stesso signore alto con i capelli biondi che prima stava parlando con Charlotte farsi largo a spallate attraverso la folla, diretto verso di loro. Era tarchiato, forse sulla quarantina, con una cicatrice lungo la mascella. Capelli biondi spettinati e occhi azzurri, con la pelle abbronzata dal sole. Sembrava ancora più scura contro lo sparato bianco inamidato. C’era qualcosa di familiare in lui, qualcosa che Tessa non riusciva a mettere a fuoco. L’uomo si fermò davanti a loro. I suoi occhi guizzarono verso Will. Erano di un azzurro più chiaro dei suoi, quasi del colore dei fiordalisi. — Siete voi William Herondale? Will annuì. — Sono Elias Carstairs. Jem Carstairs era mio nipote. Will sbiancò, e Tessa si rese conto di cosa c’era di familiare nell’uomo… c’era qualcosa in lui, qualcosa in come si muoveva e nella forma delle mani, che le ricordava Jem. Visto che Will sembrava incapace di parlare, Tessa disse: — Sì, questo è Will Herondale. E io sono Theresa Gray. — La ragazza mutaforma… — L’uomo annuì. — Eravate fidanzata con James, prima che diventasse un Fratello Silente. — Sì — disse Tessa, con calma. — Lo amo molto. Carstairs le diede un’occhiata… non ostile o provocatoria, solo curiosa. Poi girò lo sguardo su Will. — Eravate il suo parabatai? Will ritrovò la voce. — Lo sono ancora. — James mi ha parlato di voi — disse Elias. — Dopo aver lasciato la Cina, quando ho fatto ritorno a Idris, gli ho chiesto se volesse venire a stare con me. Lo avevamo mandato via da Shanghai considerandola poco sicura per lui, con i servi di Yanluo a piede libero e ancora assetati di vendetta. Ma quando gli ho chiesto se volesse venire da me a Idris, ha risposto di no, che non poteva. Gli ho chiesto di ripensarci. Gli ho detto che ero la sua famiglia, il suo sangue. Ma lui ha ribattuto che non poteva lasciare il suo parabatai, che ci sono cose più importanti del sangue. — Lo sguardo di Elias era saldo. — Vi ho portato un regalo, Will Herondale. Qualcosa che intendevo dare a Jem quando avesse avuto l’età giusta, perché suo padre non era più vivo per dargliela. Ma ormai non posso più farlo. Will era tutto teso, una corda d’arco troppo tirata. — Non ho fatto nulla per meritare un regalo.

— Io credo di sì. — Elias estrasse dalla cintura che portava alla vita una corta spada dal fodero elaborato. La porse a Will, che dopo un attimo la prese. Il fodero, coperto di elaborati disegni di foglie e rune, era lavorato finemente e scintillava sotto la luce dorata. Con un gesto deciso, Will tirò fuori la spada e la sollevò davanti al viso. L’elsa era coperta dallo stesso disegno di rune e foglie, ma la lama era semplice e nuda, tranne per una serie di parole tracciate nel centro, sul metallo. Tessa si piegò per leggerle. Io sono Cortana, dello stesso acciaio e della stessa durezza di Gioiosa e Durlindana. — Gioiosa era la spada di Carlo Magno — disse Will, con la voce tesa in quel modo che, ormai Tessa lo sapeva, significava che stava controllando le proprie emozioni. — Durlindana era quella di Orlando. Questa è una spada leggendaria. — Forgiata dal primo fabbricante di armi tra i Cacciatori, Wayland il Fabbro. Nell’elsa ha una piuma dell’ala dell’Angelo — disse Elias. — È nella famiglia Carstairs da secoli. Il padre di Jem mi aveva incaricato di dargliela quando avesse compiuto diciotto anni. Ma i Fratelli Silenti non possono accettare regali. — L’uomo guardò Will. — Voi eravate il suo parabatai. Dovreste averla voi. Will infilò di nuovo la spada nel fodero. — Non posso prenderla. Non voglio. Elias restò di sasso. — Ma dovete! Eravate il suo parabatai, e lui vi amava… Will gli porse nuovamente la spada, dalla parte dell’elsa. Poi si girò e si allontanò, scomparendo tra la folla. Elias lo seguì con uno sguardo sconcertato. — Non intendevo offenderlo. — Avete parlato di Jem al passato — osservò Tessa. — Jem non è con noi, ma non è morto. Will non può sopportare che Jem sia considerato perduto, o dimenticato. — Non intendevo dimenticarlo. Intendevo semplicemente dire che i Fratelli Silenti non hanno emozioni come noi. Non sentono come noi. Se amano… — Jem ama ancora Will — affermò Tessa. — Ci sono cose che nessuna magia può distruggere, perché sono esse stesse magiche. Voi non li avete mai visti insieme, ma io sì. — Volevo dargli Cortana — disse Elias. — Non potendo darla a James, ho pensato che dovesse averla il suo parabatai. — Le vostre intenzioni erano buone, signor Carstairs. — Tessa annuì. — Ma, perdonate l’impertinenza, non avete intenzione di avere un figlio vostro, un giorno? Elias spalancò gli occhi. — Non ci avevo pensato… Tessa guardò la lama scintillante, e poi l’uomo che la teneva. In lui vedeva un po’ Jem, come se guardasse il riflesso di ciò che amava nell’acqua increspata. L’amore, ricordato e presente, le ingentilì la voce. — Se non ne siete sicuro, allora tenetela. Tenetela per i vostri eredi. Will lo preferirebbe. Non ha bisogno di una spada per ricordare Jem, per quanto illustre sia il suo lignaggio. Faceva freddo sui gradini d’ingresso dell’Istituto, dove Will stava senza cappotto e senza cappello, con lo sguardo perduto nella notte spolverata di gelo. Aveva le mani nude, il vento gli soffiava minuscoli turbini di neve contro le guance e lui sentiva, come aveva sempre fatto, la voce di Jem in fondo alla testa dirgli di non essere ridicolo, di tornare dentro prima di prendersi l’influenza. L’inverno era sempre sembrata la stagione più pura a Will… perfino il fumo e lo sporco di Londra venivano catturati dal freddo, congelati e purificati. Quella mattina aveva spezzato lo strato di ghiaccio che si era formato nella brocca dell’acqua, prima di spruzzarsi il liquido gelido sulle guance

e rabbrividire guardandosi allo specchio, con i capelli bagnati che gli tingevano il viso di strisce nere. La prima mattina di Natale senza Jem in sei anni. Il freddo più puro portava il dolore più puro. — Will… — La voce era un sussurro, di un tipo molto familiare. Will girò la testa, mentre gli veniva in mente un’immagine della Vecchia Molly… ma i fantasmi si allontanavano di rado dal luogo in cui erano morti o seppelliti, e poi, cosa avrebbe potuto volere da lui adesso? Uno sguardo incontrò il suo, calmo e scuro. Il resto di lei non era tanto trasparente, quanto orlato d’argento: i capelli biondi, il viso da bambola, il vestito bianco in cui era morta. Il sangue, rosso come un fiore, sul petto. — Jessamine. — Buon Natale, Will. Il suo cuore, che si era fermato per un momento, ricominciò a battere, mentre il sangue scorreva veloce nelle vene. — Jessamine, perché… che ci fai qui? Lei mise un po’ di broncio. — Sono qui perché sono morta qui — rispose, e la voce si fece più forte. Non era strano per un fantasma acquistare maggiore solidità quando era vicino a un umano che poteva sentirlo. Indicò il cortile ai loro piedi, dove Will l’aveva tenuta mentre stava morendo e il suo sangue scorreva sulle lastre di pietra. — Non sei contento di vedermi? — Dovrei? — replicò Will. — Jessie, di solito quando vedo i fantasmi è perché c’è qualche faccenda in sospeso o qualche dolore che li tiene aggrappati a questo mondo. Jessamine sollevò la testa, alzando lo sguardo sulla neve. Sebbene le cadesse tutt’intorno, non la toccava, come se stesse sotto una campana di vetro. — E se avessi un dolore, mi aiuteresti a lenirlo? Non mi hai mai voluto troppo bene quando ero viva. — Te ne volevo. E mi dispiace davvero se ho dato l’impressione che non m’importasse nulla di te, o che ti odiassi, Jessamine. Credo che tu mi ricordassi me stesso più di quanto io volessi ammettere, e perciò ti giudicassi con la stessa durezza con cui mi sarei giudicato. — Oh, ma questa era vera sincerità… Come sei cambiato! — Jessamine fece un passo indietro, e i suoi piedi non lasciarono impronte sulla spolverata di neve sui gradini. — Sono qui perché da viva non volevo essere una Cacciatrice, proteggere i Nephilim. Ora sono incaricata di proteggere l’Istituto, finché avrà bisogno di essere protetto. — E non ti pesa? — chiese Will. — Stare qui, con noi, mentre avresti potuto andare nell’aldilà… Lei arricciò il naso. — Non m’importava di andare nell’aldilà. Ho dovuto sopportare tanto in vita, lo sa l’Angelo come avrebbe potuto essere dopo. No, sono felice qui, guardando tutti voi, in silenzio, fluttuante e non vista. — Quando piegò la testa verso di lui, i capelli argentei scintillarono alla luce della luna. — Ma tu mi stai quasi facendo impazzire. — Io? — Proprio tu. Ho sempre detto che saresti stato un pessimo corteggiatore, Will, e lo stai quasi dimostrando. — Sei tornata dalla morte come il fantasma del Vecchio Marley soltanto per stuzzicarmi sulle mie prospettive amorose? — Quali prospettive? Hai fatto fare a Tessa tanti di quei giri in carrozza che potrebbe disegnare una carta di Londra a memoria, ma le hai fatto una proposta di matrimonio? No. Una signora non può farsi da sola una proposta di matrimonio, William, né può dirti che ti ama se non dichiari le tue intenzioni!

Will scosse la testa. — Jessamine, sei incorreggibile. — Ma ho ragione. Di cosa hai paura? — Che, se le dichiaro le mie intenzioni, dirà che non ricambia il mio amore, non come ricambiava Jem. — Non ti amerà mai come amava Jem. Ti amerà come ama te, Will, una persona completamente diversa. Vorresti che non avesse amato Jem? — No, ma non vorrei neanche sposare qualcuno che non mi ama. — Devi chiederlo, per scoprirlo — disse Jessamine. — La vita è piena di rischi. La morte è molto più semplice. — Perché non ti ho vista prima di stasera, se sei stata qui tutto questo tempo? — Non posso ancora entrare nell’Istituto, e quando sei in cortile sei sempre con qualcun altro. Ho provato a passare attraverso le porte, ma una qualche forza me lo impedisce. Però va meglio di prima. All’inizio potevo fare solo pochi passi. Adesso sono come mi vedi. — Jessamine indicò la propria posizione sulla scala. — Un giorno, sarò in grado di entrare. — E quando lo farai, troverai che la tua stanza è rimasta com’era, e anche le tue bambole. Jessamine fece un sorriso che indusse Will a chiedersi se fosse sempre stata così triste, o se la morte l’avesse cambiata più di quanto lui pensava che i fantasmi potessero essere cambiati. Prima che il ragazzo potesse riprendere la parola, però, un’espressione allarmata attraversò il viso di Jessamine, che scomparve in un turbine di neve. Will si girò e vide ciò che l’aveva fatta scappare. La porta dell’Istituto si era aperta, e ne era uscito Magnus. Il suo pesante cappotto di astrakan e l’alto cappello di seta erano già picchiettati dai fiocchi di neve. — Avrei dovuto saperlo, che ti avrei trovato qui facendo del tuo meglio per trasformarti in un ghiacciolo. — Magnus scese i gradini, finché non fu accanto a Will e si mise anche lui a guardare il cortile. Will non aveva voglia di parlare di Jessamine. In qualche modo, pensava che lei non avrebbe voluto che lo facesse. — Lasci la festa? O mi stavi solo cercando? — L’uno e l’altro — rispose Magnus, infilandosi un paio di guanti bianchi. — In effetti, lascio Londra. — Lasci Londra? Non dirai sul serio, spero. — E perché? — Magnus mosse svelto un dito per catturare un fiocco di neve vagante. — Non sono di Londra. Mi sono fermato da Woolsey per un po’, ma la sua casa non è la mia casa, e dopo un po’ io e Woolsey ci stanchiamo della reciproca compagnia. — Dove andrai? — A New York, nel Nuovo Mondo! Vita nuova, continente nuovo. — Magnus alzò le mani. — Posso perfino portare con me il vostro gatto. Charlotte dice che, da quando Jem se n’è andato, non fa che piangere. — Be’, morde tutti. Tu gli sei simpatico. Pensi che gli piacerà New York? — Chissà… Lo scopriremo insieme. L’imprevisto è ciò che mi impedisce di mummificarmi. — Forse a noi che non viviamo per sempre non piace cambiare quanto a voi che potete — osservò Will. — Sono stanco di perdere le persone — Anch’io — disse Magnus. — Ma è come ho detto, no? Si impara a sopportarlo. — Ho sentito dire che, a volte, le persone che perdono un braccio o una gamba sentono ancora il dolore in quegli arti, sebbene non ci siano più. — Will scosse il capo. — A volte mi capita. Mi sento

Jem accanto, sebbene non ci sia più, ed è come se mancasse una parte di me. — Ma non è così — replicò Magnus. — Non è morto, Will. È vivo perché l’hai lasciato andare. Sarebbe rimasto con te e sarebbe morto, se glielo avessi chiesto, ma tu lo amavi abbastanza da preferire che vivesse, anche se in una vita separata dalla tua. E questo prova al di sopra di tutto che non sei Sydney Carton: il tuo non è il tipo di amore che può essere redento solo attraverso la distruzione. È ciò che ho visto in te, ciò che ho sempre visto in te, ciò che mi ha fatto venire voglia di aiutarti. Non sei un caso disperato. Hai in te un’infinita capacità di gioire. — Lo stregone mise una mano inguantata sotto il mento del Nephilim e gli sollevò il viso. Non erano molte le persone per guardare le quali Will doveva sollevare la testa, ma Magnus era una di quelle. — Stella luminosa — disse lo stregone, e i suoi occhi erano pensierosi, quasi stesse ricordando qualcosa, o qualcuno. — Voi mortali ardete così impetuosamente. E tu più impetuosamente di altri, Will. Non ti dimenticherò mai. — Neanch’io ti dimenticherò. Ti devo molto. Hai infranto la mia maledizione. — Non eri maledetto. — Sì che lo ero. Grazie, Magnus, per tutto ciò che hai fatto per me. Se non te l’ho detto prima, te lo dico ora. Grazie. Lo stregone abbassò la mano. — Non credo di essere mai stato ringraziato da un Cacciatore prima d’ora. Will fece un sorriso sbilenco. — Cerca di non abituartici troppo. Non siamo gente riconoscente. — No. — Magnus si mise a ridere. — No, non lo farò. — I suoi luminosi occhi da gatto si strinsero. — Ti lascio in buone mani, mi pare, Will Herondale. — Alludi a Tessa? — Sì, alludo a Tessa. O vuoi negare che tiene il tuo cuore? — Non lo nego. Ma le dispiacerà che tu te ne sia andato senza dirle addio. — Oh, non credo che sarà necessario. — Magnus si girò in fondo ai gradini, con un sorriso. — Dille che la rivedrò. Will annuì. Lo stregone si voltò, con le mani nelle tasche del cappotto, e si avviò verso il cancello dell’Istituto. Will rimase a guardare finché la sua figura che si allontanava non scomparve nel candore della neve che cadeva. Tessa era scivolata alla chetichella fuori della sala da ballo. Neppure Charlotte, che di solito non si lasciava sfuggire nulla, se n’era accorta; seduta accanto a Henry sulla sedia a rotelle, mano nella mano con lui, sorrideva delle buffonate dei suonatori. Non ci volle molto a Tessa per trovare Will. Aveva immaginato dov’era, e non si era sbagliata: era sui gradini d’ingresso dell’Istituto, senza cappotto e senza cappello, e lasciava che la neve gli si depositasse sulla testa e sulle spalle. Ce n’era una spolverata bianca in tutto il cortile; come zucchero a velo, ricopriva la fila di carrozze in attesa, il cancello di ferro, le lastre di pietra su cui era morta Jessamine. Will guardava fisso davanti a sé, come se cercasse di distinguere qualcosa attraverso i fiocchi che cadevano. — Will… — Tessa aveva preso una sciarpa di seta, ma nulla di più pesante, e sentiva le punture gelide dei fiocchi di neve sulla pelle nuda del collo e delle spalle.

— Avrei dovuto essere più educato con Elias Carstairs — disse Will per tutta risposta. Stava osservando il cielo, dove una pallida falce di luna splendeva tra spesse distese di nuvole e nebbia. Fiocchi di neve si erano mescolati ai capelli neri, le guance e le labbra erano arrossate dal freddo; era più bello che mai, si disse Tessa. — Invece mi sono comportato come avrei fatto… prima. Tessa sapeva cosa intendeva; per Will c’era solo un prima e un dopo. — Ti è permesso arrabbiarti. Te l’ho già detto, non voglio che tu sia perfetto. Voglio solo che tu sia Will. — Che non sarà mai perfetto. — La perfezione è noiosa — osservò Tessa, scendendo l’ultimo gradino e mettendosi al suo fianco. — Dentro stanno giocando a “completa la citazione poetica”. Avresti fatto un figurone. Non credo ci sia nessuno che possa sfidare la tua conoscenza della letteratura. — Tranne tu. — Io ti darei davvero del filo da torcere. Forse potremmo improvvisare una squadra e dividere le vincite. — Mi sembrerebbe scorretto. — Will parlò con aria assente, inclinando la testa all’indietro. La neve roteava bianca intorno a loro, come se si trovassero in fondo a un gorgo. — Oggi, durante l’Ascensione di Sophie… — Sì? — È qualcosa che avresti voluto? Per te? — Sai che per me è impossibile, Will. Sono una strega. O almeno, questa è la definizione che più si avvicina a ciò che sono. Non potrò mai essere una perfetta Nephilim. — Lo so. — Will si guardò le mani e aprì le dita per far sì che i fiocchi di neve si posassero sui palmi, sciogliendovisi. — Ma al Cadair Idris hai detto che avevi sperato di essere una Cacciatrice… che Mortmain aveva infranto quelle speranze… — È quello che provavo allora — ammise Tessa. — Ma dopo essere diventata Ithuriel… dopo essermi trasformata e aver distrutto Mortmain… come potrei odiare qualcosa che mi ha permesso di proteggere le persone a cui tengo? Non è facile essere diversi, e ancora meno essere così unici. Ma comincio a pensare di non essere mai stata destinata a una via facile. Will rise. — La via facile? No, non per te, Tessa mia. — Sono davvero la tua Tessa? — Lei si avvolse più strettamente nella sciarpa, fingendo che a farla rabbrividire fosse solo il freddo. — Sei infastidito da ciò che sono, Will? Dal fatto che non sono come te? Le parole rimasero sospese tra loro, non dette: Non c’è futuro per un Cacciatore che si trastulli con una strega. Will impallidì. — Quelle cose che ho detto sul tetto, tanto tempo fa… sai che non le pensavo. — Lo so… — Non voglio che tu sia altro da ciò che sei. Tu sei quello che sei, e io ti amo. Non amo solo le parti di te che incontrano l’approvazione dell’Enclave… Tessa sollevò le sopracciglia. — Sei disposto a sopportare il resto? — No. Mi spiego male. — Will si passò una mano tra i capelli scuri, umidi di neve. — Non c’è niente di te che possa immaginare di non amare. Pensi davvero che per me sia tanto importante che tu sia una Nephilim? Mia madre non è una Cacciatrice. E quando ti ho vista trasformarti nell’angelo – quando ti ho vista divampare con il fuoco del Cielo – è stato magnifico, Tess. — Will fece un passo verso di lei. — Ciò che sei, ciò che sai fare, è come un grande miracolo della terra, come il fuoco o i

fiori di campo o la vastità del mare. Tu sei unica al mondo, proprio come sei unica nel mio cuore, e non ci sarà mai un momento in cui non ti amerò. Ti amerei anche se tu non avessi in te neppure un briciolo della Cacciatrice… Tessa gli rivolse un sorriso incerto. — Ma io sono contenta di esserlo, anche se solo a metà, perché significa che posso stare con te, qui, all’Istituto. Che la famiglia che ho trovato qui può rimanere la mia famiglia. Charlotte ha detto che, se volessi, potrei smettere di essere una Gray e prendere il nome di mia madre prima di sposarsi. Potrei essere una Starkweather. Potrei avere un vero nome da Cacciatore. Will sospirò. Il suo fiato formò una nuvoletta bianca nell’aria fredda. I suoi occhi erano azzurri e grandi e chiari, fissi sul viso di Tessa. Aveva l’espressione di un uomo che si fosse armato di coraggio per fare una cosa terrificante, e la stesse compiendo. — Certo che puoi avere un vero nome da Cacciatore — disse. — Puoi avere il mio. Il tuo nome? — replicò Tessa, esitante. Will fece un passo verso di lei, finché non furono faccia a faccia. Poi le prese la mano e le sfilò il guanto, che si mise in tasca. Tenne la sua mano nuda nella propria, le dita curvate intorno a quelle di lei. La mano di Will era calda e callosa, e il suo tocco la fece rabbrividire. I suoi occhi erano tutto ciò che Will era: sinceri e teneri, penetranti e arguti, affettuosi e gentili. — Sposami — disse. — Sposami, Tess. Sposami e chiamati Tessa Herondale. O chiamati Tessa Gray, o in qualunque modo tu voglia, ma sposami e stai con me e non lasciarmi mai, perché non posso sopportare che un altro giorno della mia vita trascorra senza di te. La neve cadeva turbinando intorno a loro, bianca, fredda e perfetta. Le nuvole sopra di loro si erano separate, e attraverso gli squarci, ora si vedevano le stelle. — Jem mi ha riferito ciò che Ragnor Fell ha detto di mio padre — continuò Will. — Per mio padre c’è sempre stata una sola donna da amare, lei o nessun’altra. Tu sei la stessa cosa per me. Io ti amo, e amerò solo te fino alla morte… — Will! Il Nephilim si morse il labbro. Aveva i capelli ispessiti dalla neve, le ciglia punteggiate di fiocchi. — È stata un’affermazione troppo solenne? Sai come sono con le parole… — Oh, lo so. — Ricordo cosa mi hai detto una volta — continuò Will. — Che le parole hanno il potere di cambiarci. Le tue parole mi hanno cambiato, Tess; mi hanno reso un uomo migliore di quanto non sarei mai stato altrimenti. La vita è un libro, e ci sono migliaia di pagine che non ho ancora letto. Mi piacerebbe leggerle insieme a te, quante più potrò, prima di morire… Tessa gli mise una mano sul petto, subito sopra il cuore, e ne sentì il battito contro il palmo, un’indicazione del tempo unica, che era soltanto sua. — Vorrei solo che non parlassi di morte — disse, con un sorriso mesto. — Comunque, lo so come sei con le parole, e, Will… le amo tutte. Ogni parola che dici. Quelle sciocche, quelle matte, quelle belle, e quelle che sono solo per me. Le amo, e ti amo. — Lui fece per parlare, ma Tessa gli coprì la bocca con la mano. — Amo le tue parole, Will mio, ma per un momento trattienile — disse, e gli sorrise guardandolo dritto negli occhi. — Pensa a tutte le parole che mi sono tenuta dentro per tutto questo tempo, mentre ero all’oscuro delle tue intenzioni. Quando sei venuto da me nel soggiorno e mi hai detto che mi amavi, mandarti via è stata la cosa più difficile che io abbia mai fatto. Hai detto che amavi le parole del mio cuore, la forma della mia anima. Ricordo. Ricordo ogni parola che hai detto da quel giorno a questo. Non le dimenticherò

mai. Ci sono tante di quelle parole che desidero dirti, e altrettante desidero sentirmele dire da te. Spero che avremo tutta la vita per farlo. — Dunque mi sposerai? — chiese Will con aria inebetita, come se non riuscisse del tutto a credere alla propria fortuna. — Sì — rispose Tessa… l’ultima, la più semplice e più importante di tutte le parole. E Will, che aveva parole per tutte le occasioni, aprì la bocca e la richiuse in silenzio, e invece protese le braccia e attirò a sé la ragazza. La sciarpa di Tessa cadde sui gradini, ma le braccia di Will erano calde intorno a lei, e la sua bocca ardente contro la sua quando inclinò la testa e l’abbassò per baciarla. Sapeva di fiocchi di neve e di vino, di inverno e di Will e di Londra. Le sue labbra erano morbide contro quelle di lei, le sue mani nei suoi capelli spargevano bacche bianche sui gradini di pietra. Tessa si tenne stretta a Will mentre la neve turbinava intorno a loro. Attraverso le finestre dell’Istituto sentivano il suono fievole della musica eseguita nella sala da ballo: il pianoforte, il violoncello e, sopra tutto il resto, come scintille che volino verso il cielo, le melodie dolci e celebrative del violino. — Non posso credere che stiamo davvero andando a casa — disse Cecily. Aveva le mani serrate davanti a sé e saltellava su e giù negli stivali di capretto bianchi. Era infagottata in un cappotto invernale rosso, la cosa più vivace nella cripta buia oltre al Portale, grande, argenteo e scintillante contro la parete di fronte. Attraverso di esso Tessa colse una fugace apparizione, come quelle che si vedono in sogno: un cielo azzurro – quello fuori dell’Istituto era il classico cielo grigio londinese – e colline spolverate di neve. Will era accanto a lei, le sfiorava la spalla con la sua. Era pallido e nervoso, e Tessa aveva una gran voglia di prendergli la mano. — Non stiamo andando a casa, Cecy — disse Will. — Non per rimanere. Stiamo andando in visita. Voglio presentare i miei genitori alla mia fidanzata, — in modo che conoscano la ragazza che sposerò. — Le labbra si curvarono in un sorriso. — Oh, sciocchezze! — replicò Cecily. — Possiamo usare il Portale per andarli a trovare ogni volta che vogliamo! Charlotte è il Console, perciò non possiamo assolutamente finire nei pasticci. — Questa è una spedizione eccezionale — brontolò Charlotte. — Il Portale non è un giocattolo. Non puoi semplicemente usarlo ogni volta che vuoi, Cecily, e questa uscita va tenuta segreta. Nessuno deve sapere che siete andati a trovare i vostri genitori, che vi ho permesso di infrangere la Legge. — Non lo dirò a nessuno — promise Cecily. — E neppure Gabriel. — Gettò un’occhiata al ragazzo al suo fianco. — Non è vero? — Ma perché ce lo portiamo dietro? — chiese Will. Cecily si mise le mani sui fianchi. — Tu perché porti Tessa? — Perché io e Tessa stiamo per sposarci — rispose Will, e Tessa sorrise; il modo in cui la sorella minore era capace di fargli perdere le staffe come nessun altro la divertiva ancora. — Be’, anche io e Gabriel potremmo sposarci — replicò Cecily. — Un giorno. Gabriel fece un verso come se si stesse strozzando e assunse una allarmante tinta paonazza. Will sollevò le mani. — Non puoi sposarti, Cecily, hai solo quindici anni! Quando mi sposerò io,

ne avrò diciotto. Sarò un adulto! Cecily non parve impressionata. — Possiamo sempre avere un lungo fidanzamento. E comunque non vedo perché mi consigli di sposare un uomo che i miei genitori non hanno mai incontrato. — Io non ti sto affatto consigliando di sposare un uomo che i tuoi genitori non hanno mai incontrato! — farfugliò Will. — Dunque siamo d’accordo. Gabriel deve conoscere mamma e papà. — Cecily si rivolse a Henry. — È pronto il Portale? Tessa si strinse a Will. — Mi piace come ti tiene testa — sussurrò. — È così divertente da guardare. — Aspetta di conoscere mia madre — disse Will, e fece scivolare la mano in quella di lei. Tessa sentì che aveva le dita fredde; di certo gli batteva forte il cuore. Sapeva che Will era stato alzato tutta la notte. L’idea di rivedere i genitori, dopo tanti anni, gli appariva al tempo stesso terribile e gioiosa. Tessa conosceva quella mescolanza di speranza e paura, infinitamente peggiore dei due sentimenti presi singolarmente. — Il Portale è pronto — annunciò Henry. — E ricordate che tra un’ora lo riaprirò, in modo che possiate fare ritorno. — E sia ben chiaro che è solo per questa volta — ripeté Charlotte. — Anche se sono il Console, non posso permettervi di andare a trovare la vostra famiglia mondana… — Nemmeno a Natale? — chiese Cecily, con un’espressione melodrammatica negli occhi. Charlotte si addolcì visibilmente. — Be’, forse a Natale… — E per i compleanni — disse Tessa. — I compleanni sono speciali. Charlotte si mise le mani sul viso. — Oh, per l’Angelo… Henry si mise a ridere e indicò il Portale. — Coraggio, passate. Cecily andò per prima, sparendo come se fosse entrata in una cascata. Gabriel la seguì, e poi Will e Tessa, tenendosi forte per mano. Quando il freddo e il buio li avvolsero, facendoli vorticare per alcuni istanti inquietanti ed eterni, Tessa si concentrò sul calore della mano di Will, sul pulsare del sangue attraverso la sua pelle. Luci le esplosero in fondo agli occhi, e all’improvviso Tessa emerse dalle tenebre, sbattendo le palpebre e inciampando. Will la strinse a sé, evitando che cadesse. Si trovavano sul largo e sinuoso viale d’accesso al Ravenscar Manor. Tessa aveva visto il posto solo dall’alto, quando era stata nello Yorkshire con Jem e Will, senza sapere che la casa era abitata dalla famiglia di quest’ultimo. Ricordava che il maniero si trovava sul fondo di una valle circondata da colline coperte di ginestrone e erica… in quel momento spolverate di neve. Gli alberi erano spogli, non verdi come li aveva visti Tessa l’altra volta, e dallo scuro tetto di ardesia del maniero penzolavano ghiaccioli scintillanti. La porta era di quercia scura, con al centro un pesante batacchio di ottone. Will guardò la sorella, che gli fece un cenno impercettibile, quindi raddrizzò le spalle e alzò la mano per sollevarlo e lasciarlo ricadere. Il fragore che produsse sembrò echeggiare nella valle, e Will imprecò sottovoce. Tessa gli strinse la mano. — Coraggio. Non si tratta di un’anatra, no? Will si girò per sorriderle, facendosi andare i capelli negli occhi, proprio mentre la porta veniva aperta da una cameriera vestita con cura in abito nero e cuffietta bianca. La donna diede un’occhiata al gruppo sulla porta e i suoi occhi si spalancarono come piattini. — Signorina Cecily! — esclamò, senza fiato. Poi il suo sguardo si spostò su Will. Si portò una mano

alla bocca, si girò e scappò dentro casa. — Accidenti — mormorò Tessa. — Faccio un bell’effetto alle donne — commentò Will. — Probabilmente avrei dovuto avvertirti, prima che acconsentissi a sposarmi. — Posso sempre cambiare idea — replicò Tessa, sorridendo. — Non osare… — cominciò Will con una risatina ansimante. Poi all’improvviso sulla porta comparvero due persone: un uomo alto, dalle spalle larghe, con una massa di capelli biondi striati di grigio e gli occhi azzurro chiaro, seguito da una donna snella e incredibilmente bella, con gli stessi capelli neri come l’inchiostro e gli occhi azzurri scuri come violette di Will e Cecily. Nel momento in cui il suo sguardo si posò su Will, la donna gridò, e le sue mani si sollevarono, svolazzando come uccelli bianchi spaventati da una raffica di vento. Tessa lasciò la mano di Will, che sembrava pietrificato come una volpe che sta per essere raggiunta dai segugi. — Avanti — gli sussurrò piano, e lui fece un passo avanti. — Sapevo che saresti tornato, Will — gli disse la madre, abbracciandolo. — Lo sapevo. — Quindi pronunciò un torrente di parole in gallese, in cui Tessa distinse solo il nome di Will. Il padre, inebetito ma sorridente, allungò le braccia verso Cecily, che vi si gettò con più piacere di quanto Tessa le avesse mai visto fare alcunché. Nei momenti che seguirono, Tessa e Gabriel rimasero imbarazzati sulla soglia, incerti su dove posare lo sguardo. Dopo un lungo istante Will si staccò dalla madre, dandole dei colpetti delicati sulla spalla. Lei rise, sebbene avesse gli occhi pieni di lacrime, e disse qualcosa in gallese che Tessa sospettò fortemente essere un commento sul fatto che ora Will era più alto di lei. — La mia piccola mamma — disse Will con affetto, confermando il suo sospetto, e si girò proprio mentre la madre spostava lo sguardo su Tessa, e poi su Gabriel, spalancando gli occhi. — Mamma e papà, questa è Theresa Gray. Siamo fidanzati e ci sposeremo il prossimo anno. La madre di Will rimase senza fiato. Più per la sorpresa che per altro, si disse Tessa con sollievo. Il padre guardò immediatamente Gabriel, e poi Cecily, socchiudendo gli occhi. — È chi è questo gentiluomo? Il sorriso di Will si allargò. — Oh, lui è… un amico di Cecily, il signor Gabriel Lightworm. Gabriel, che aveva allungato a metà la mano per salutare il signor Herondale, impietrì per l’orrore. — Lightwood — farfugliò. — Gabriel Lightwood… — Will! — lo redarguì Cecily, staccandosi dal padre per fulminare con lo sguardo il fratello. Will guardò Tessa, con gli occhi azzurri che scintillavano. Lei aprì la bocca per protestare, come aveva appena fatto Cecily, ma troppo tardi… stava già ridendo.

EPILOGO

Io dico che la tomba che sui morti si chiude Apre il firmamento; E che quanto quaggiù consideriamo la fine Non è che l’inizio. Victor Hugo, A Villequier Londra, Blackfriars Bridge, 2008

Il vento pungente sospingeva terriccio e rifiuti sparsi – pacchetti di patatine vuoti, pagine di giornale, vecchi scontrini – sul selciato, mentre Tessa, guardando svelta da una parte e dall’altra per controllare il traffico, attraversava di corsa il Blackfriars Bridge. A un qualsiasi spettatore sarebbe sembrata una normale ragazza sui vent’anni: jeans infilati negli stivali, golf di cachemire azzurro che aveva comprato a metà prezzo durante i saldi di gennaio e lunghi capelli castani, lievemente arricciati dal tempo umido, che le ricadevano disordinatamente sulle spalle. Se poi fosse stato particolarmente attento alla moda, avrebbe immaginato che la sciarpa dal disegno cachemire che indossava fosse un’imitazione, invece di un pezzo originale vecchio di cento anni, e che il bracciale che aveva al polso fosse vintage, piuttosto che un regalo ricevuto dal marito per il trentesimo anniversario di matrimonio. I passi di Tessa rallentarono, mentre si avvicinava a una delle rientranze di pietra nel parapetto del ponte. Vi erano state costruite delle panche di cemento, in modo da potersi sedere e guardare l’acqua che sciabordava contro i piloni, o St. Paul in lontananza. La città era piena di rumore: i suoni del traffico – clacson che strombazzavano, il rombo degli autobus a due piani –, lo squillare dei telefoni cellulari, lo scalpiccio dei pedoni, i suoni fievoli della musica che si riversava dagli auricolari degli iPod. Tessa si sedette sulla panca, spingendo le gambe sotto di sé. L’atmosfera era incredibilmente pulita e chiara: il fumo e l’inquinamento che avevano reso l’aria gialla e nera quando lei era ragazza erano scomparsi, e il cielo era azzurro. Anche l’orrore architettonico costituito dal ponte della Dover and Chatham Railway era scomparso; solo i piloni spuntavano ancora dal fiume, come un bizzarro promemoria di ciò che c’era stato un tempo. Boe gialle ondeggiavano sull’acqua, e i battelli turistici passavano sbuffando e riversando dagli altoparlanti le voci amplificate delle guide. Autobus rossi come caramelle a forma di cuore sfrecciavano sul ponte, facendo svolazzare le foglie secche sul

marciapiede. Tessa abbassò lo sguardo sull’orologio: mezzogiorno meno cinque. Era in leggero anticipo, ma in fondo lo era sempre in occasione del loro incontro annuale. Le dava modo di pensare e ricordare, e non c’era posto migliore per fare entrambe le cose di quello, il Blackfriars Bridge, il primo posto in cui avessero davvero parlato. Sul polso sinistro di Tessa, accanto all’orologio, c’era il bracciale di perle che portava sempre. Non lo toglieva mai. Will glielo aveva regalato per il trentesimo anniversario di matrimonio e glielo aveva allacciato al polso sorridendo. Al tempo lui aveva i capelli spruzzati di grigio, Tessa lo sapeva, sebbene non l’avesse mai visto per davvero. Come se il suo amore avesse conferito a Will la sua stessa capacità di mutare forma, indipendentemente da quanto tempo fosse passato, lei vedeva sempre in lui l’impetuoso ragazzo dai capelli neri di cui si era innamorata. A volte le sembrava ancora incredibile che fossero riusciti a invecchiare insieme, lei e Will Herondale, di cui una volta Gabriel Lightwood aveva detto che non avrebbe superato i diciannove anni. Erano stati buoni amici dei Lightwood, in tutti quegli anni. Naturalmente, Will non poteva che essere stato amico dell’uomo che aveva sposato sua sorella. Sia Cecily sia Gabriel avevano visto Will il giorno che era morto, e lo stesso Sophie, sebbene Gideon se ne fosse andato, a sua volta, parecchi anni prima. Tessa ricordava chiaramente quel giorno, il giorno in cui i Fratelli Silenti avevano detto che non c’era più niente che potessero fare per tenere in vita Will. Lei aveva raddrizzato le spalle ed era andata a dare la notizia a familiari e amici, cercando di essere più calma che poteva, per loro, sebbene avesse l’impressione che le avessero strappato il cuore dal petto. Era giugno, l’estate luminosa e torrida del 1937, e con le tende aperte la stanza da letto era piena di sole e dei figli suoi e di Will, dei figli dei loro figli, dei loro nipoti – i ragazzi di Cecy, alti, belli e dagli occhi azzurri, e le due ragazze di Gideon e Sophie – e degli altri componenti di quella grande famiglia: Charlotte, con i capelli bianchi, e i figli e le figlie dei Fairchild, con i capelli rossi e ricciuti come un tempo erano stati quelli di Henry. Tessa era stata seduta tutto il giorno sul letto, accanto a Will, appoggiato alla sua spalla. Quello spettacolo sarebbe potuto apparire curioso a un estraneo, una giovane donna che cullava amorevolmente un uomo che sembrava tanto vecchio da essere suo nonno, con le mani agganciate alle sue, ma per la famiglia era una vista consueta… si trattava solo di Tessa e Will. E siccome si trattava di Tessa e Will, gli altri andavano e venivano tutto il giorno, come facevano i Cacciatori al letto di un moribondo, raccontando storie sulla vita di Will e sulle cose che lui e Tessa avevano fatto nei lunghi anni trascorsi insieme. I figli avevano ricordato affettuosamente di come Will avesse sempre amato Tessa, con ardore e devozione, di come non avesse mai avuto occhi che per lei e di come i genitori fossero stati per loro un esempio del tipo di amore che speravano di trovare nella vita. Parlarono del suo rispetto per i libri, e di come avesse insegnato anche a tutti loro ad amarli, a rispettare la pagina stampata e ad avere care le storie in essa contenute. Ricordarono di come, quando faceva cadere qualcosa, imprecasse ancora in gallese, sebbene per il resto usasse di rado quella lingua, e di come, sebbene la sua prosa fosse eccellente – quando era andato in pensione aveva scritto parecchie storie di Cacciatori, che avevano avuto un ottimo riscontro – le sue poesie fossero sempre state orribili, sebbene ciò non gli avesse mai impedito di recitarle. Il figlio maggiore, James, aveva ricordato divertito la paura inveterata di Will per le anatre e la

sua perenne battaglia per tenerle lontane dallo stagno della casa di famiglia, nello Yorkshire. I nipoti gli avevano ricordato la canzone sulla sifilide demoniaca che aveva insegnato loro – quando erano decisamente troppo piccoli, aveva sempre pensato Tessa – e che avevano imparato tutti a memoria. L’avevano cantata tutti insieme in maniera stonata, scandalizzando Sophie. Con il viso rigato di lacrime, Cecily gli aveva ricordato quando, durante la cerimonia delle sue nozze con Gabriel, aveva fatto un bel discorso di lode allo sposo, alla fine del quale aveva annunciato: — Buon Dio, credevo che stesse sposando Gideon. Ritiro tutto quello che ho detto —, irritando in tal modo non solo Cecily e Gabriel, ma anche Sophie… e Will, sebbene troppo stanco per ridere, aveva sorriso alla sorella e le aveva stretto la mano. Avevano riso tutti della sua abitudine di portare Tessa in romantiche “vacanze” nei luoghi dei romanzi gotici, inclusa una lugubre brughiera in cui era morto qualcuno, un castello pieno di correnti con tanto di fantasma e, naturalmente, la piazza di Parigi in cui aveva stabilito che fosse stato ghigliottinato Sydney Carton, dove aveva terrorizzato i passanti gridando in francese: — Vedo il sangue sui ciottoli! Alla fine della giornata, dopo che il cielo si era oscurato, la famiglia si era riunita intorno al letto di Will e ognuno a turno lo aveva baciato e se n’era andato, finché Will e Tessa non erano rimasti soli. Lei si era stesa sul letto e gli aveva fatto scivolare un braccio sotto la testa, quindi gli aveva messo la mano sul petto, ascoltando il battito sempre più debole del cuore. E avevano sussurrato nell’ombra, ricordandosi a vicenda storie note solo a loro. Della ragazza che aveva dato una brocca in testa al ragazzo giunto a salvarla, e di come lui si fosse innamorato di lei in quel preciso istante. Di una sala da ballo e di un balcone e della luna che fluttuava nel cielo come una nave a cui avessero sciolto gli ormeggi. Dello sbattere delle ali di un angelo meccanico. Dell’acqua santa e del sangue. Verso mezzanotte, la porta si era aperta ed era entrato Jem. Tessa immaginava che ormai avrebbe dovuto pensare a lui come a Fratello Zachariah, ma né lei né Will lo avevano mai chiamato così. Era entrato come un’ombra nella sua lunga tonaca chiara e, nel vederlo, Tessa aveva fatto un profondo respiro, perché sapeva che era ciò che Will stava aspettando: l’ora era giunta. Jem non era andato subito da Will, ma aveva attraversato la stanza diretto al cassettone su cui era poggiato un astuccio di palissandro. Avevano sempre conservato il violino di Jem per lui, come Will gli aveva promesso. Lo tenevano pulito e accordato, e le cerniere dell’astuccio non avevano cigolato quando Jem lo aveva aperto e aveva tirato fuori lo strumento. Lo avevano guardato passare la colofonia sull’archetto, con le familiari dita sottili, mentre i polsi pallidi scomparivano nella stoffa ancora più pallida della tonaca dei Fratelli Silenti. Poi aveva portato il violino alla spalla e sollevato l’archetto. E aveva suonato. Zhi yin. Una volta Jem aveva detto a Tessa che significava capire la musica, nonché un legame che era più profondo dell’amicizia. Jem aveva suonato, e aveva suonato gli anni della vita di Will così come li aveva visti. Aveva suonato due ragazzini in una sala delle esercitazioni, uno dei quali mostrava all’altro come lanciare i coltelli, e aveva suonato il rituale dei parabatai: il fuoco e i voti e le rune ardenti. Aveva suonato due ragazzi che correvano per le strade di Londra al buio, fermandosi per appoggiarsi a un muro e ridere insieme. Aveva suonato il giorno in cui, nella biblioteca, lui e Will avevano scherzato con Tessa a proposito delle anatre, e aveva suonato il treno diretto nello Yorkshire, dove lui aveva detto che i parabatai erano destinati ad amarsi a vicenda come amavano le proprie anime. Aveva suonato quell’amore, e aveva suonato il loro amore per Tessa, e il suo per

loro, e aveva suonato Will che diceva: Soltanto nei tuoi occhi trovavo la grazia. Aveva suonato le volte – troppo poche – in cui li aveva visti da quando era entrato nella Fratellanza, i brevi incontri all’Istituto; la volta in cui Will era stato morso da un demone Shax ed era stato per morire, e lui era accorso dalla Città Silente e aveva passato tutta la notte al suo fianco, rischiando di essere scoperto e punito. E aveva suonato la nascita del loro primo figlio, e la cerimonia di protezione che era stata eseguita sul piccolo nella Città Silente. Will non aveva voluto altro Fratello Silente che Jem per compierla. E aveva suonato il modo in cui aveva nascosto il viso pieno di cicatrici tra le mani e si era girato, quando aveva scoperto che il nome del bambino era James. Aveva suonato l’amore e la perdita e gli anni di silenzio, le parole non dette e i voti non espressi, e tutti gli spazi tra il suo cuore e i loro; e quando ebbe finito ed ebbe riposto di nuovo il violino nell’astuccio, gli occhi di Will erano chiusi, ma quelli di Tessa erano pieni di lacrime. Jem aveva posato l’archetto e si era avvicinato al letto, tirando indietro il cappuccio, in modo che lei vedesse i suoi occhi chiusi e il suo viso deturpato. E si era seduto accanto a loro sul letto e aveva preso la mano di Will, quella che Tessa non teneva, e sia Will sia Tessa avevano sentito la sua voce nelle loro menti. Ti prendo la mano, fratello, così che tu possa andare in pace. Will aveva aperto gli occhi azzurri, che col passare degli anni non avevano mai perso il loro colore, e aveva guardato Jem e Tessa, e aveva sorriso, ed era morto, con la testa di Tessa sulla spalla e la mano in quella di Jem. Non aveva mai smesso di farle male, ricordare quando Will era morto. Dopo che se n’era andato, Tessa era scappata. I figli erano ormai grandi, avevano a loro volta dei figli; si disse che non avevano bisogno di lei e nascose in fondo alla mente il pensiero che la tormentava: non sopportava l’idea di rimanere e vederli diventare più vecchi di lei. Era già stata dura sopravvivere alla morte del marito, ma sopravvivere alla morte dei figli… non poteva stare a guardare. Sarebbe successo, doveva succedere, ma lei non ci sarebbe stata. E poi c’era qualcosa che Will le aveva chiesto di fare. La strada che conduceva da Shrewsbury a Welshpool non era più lunga di quando Will l’aveva fatta a cavallo in una corsa folle e temeraria per salvarla da Mortmain. Will aveva lasciato istruzioni, dettagli, descrizioni di città, di una certa quercia dall’ampia chioma. Tessa era andata su e giù lungo la strada con la sua Morris Minor scoppiettante, prima di trovarlo: l’albero, proprio come Will lo aveva disegnato nel diario che le aveva dato, con mano un po’ tremante ma la memoria lucida. Il pugnale era là tra le radici della quercia, che erano cresciute intorno all’impugnatura. Aveva dovuto tagliarne qualcuna e scavare la terra e i sassi con una paletta da giardiniere, prima di poterlo liberare. Il pugnale di Jem, ormai coperto di macchie scure provocate dal tempo e dal passare degli anni. L’aveva portato a Jem in occasione del loro incontro annuale sul ponte. Era il 1937 e il Blitz della Germania nazista non aveva ancora raso al suolo gli edifici intorno a St. Paul, né striato il cielo di fuoco o bruciato i muri della città che Tessa amava. Eppure già c’era un’ombra sul mondo, l’allusione a una tenebra imminente. — Continuano a uccidersi, e noi non possiamo fare niente — aveva detto Tessa, con le mani sulla pietra consumata del parapetto del ponte. Pensava alla Grande Guerra, al folle spreco di vite. Non era una guerra dei Cacciatori, ma dal sangue e dalla guerra erano nati demoni, ed era responsabilità dei Nephilim impedire ai demoni di causare una distruzione ancora maggiore.

Non possiamo salvarli da loro stessi, aveva risposto Jem. Aveva il cappuccio alzato, ma il vento lo spingeva indietro, mostrandole l’orlo della guancia coperta di cicatrici. — Sta per succedere qualcosa. Un orrore che Mortmain avrebbe potuto solo immaginare. Me lo sento nelle ossa. Nessuno può liberare il mondo da tutto il male, Tessa. E quando lei aveva tirato fuori dalla tasca del cappotto il pugnale, avvolto nella seta ma ancora sporco e macchiato di terra e del sangue di Will, e glielo aveva dato, Jem aveva chinato la testa e lo aveva stretto a sé, piegando le spalle su di esso, come proteggendo una ferita del cuore. — Will voleva che lo vedessi — aveva detto Tessa. — So che non puoi portarlo con te. Tienilo tu per me. Magari verrà un giorno… Tessa non gli aveva chiesto cosa intendesse, ma lo aveva tenuto. Lo aveva tenuto quando aveva lasciato l’Inghilterra, e le bianche scogliere di Dover si erano ritirate come nuvole in lontananza mentre attraversava la Manica. A Parigi aveva trovato Magnus, che viveva in una soffitta e dipingeva, un’occupazione per la quale non aveva la minima disposizione. L’aveva fatta dormire su un materasso accanto alla finestra, e di notte, quando lei si era svegliata chiamando Will, era andato ad abbracciarla, odoroso di trementina. — La prima è sempre la più difficile — aveva detto Magnus. — La prima? — La prima persona amata che muore. Poi diventa più facile. Quando la guerra aveva raggiunto Parigi, erano andati insieme a New York, e Magnus le aveva fatto conoscere di nuovo la città dov’era nata, una metropoli attiva e rumorosa che lei aveva riconosciuto a stento, dove le motociclette affollavano le strade come formiche e i treni sfrecciavano sibilando sulle piattaforme sopraelevate. Quell’anno non aveva visto Jem, perché la Luftwaffe inondava Londra di fuoco e lui aveva giudicato troppo pericoloso incontrarsi, ma l’anno dopo… — Tessa? Il suo cuore si fermò. Tessa fu assalita da un’ondata di vertigini così impetuosa da farla barcollare, e per un istante si chiese se non stesse impazzendo, se dopo tanti anni passato e presente non si fossero mescolati nei suoi ricordi tanto che non riusciva più a distinguerli. La voce che aveva sentito non era la voce dolce e senza suono di Fratello Zachariah, la voce che le era echeggiata nella mente una volta all’anno negli ultimi centotrenta anni. Questa era una voce che disseppelliva memorie che si erano assottigliate a forza di essere ricordate, come carta spiegata e ripiegata troppe volte. Una voce che riportava, come un’onda, il ricordo di un altro momento su quel ponte, una notte di tanto tempo prima, quando tutto era nero e bianco e il fiume scorreva veloce sotto i suoi piedi… Il cuore le batteva così forte da darle l’impressione che potesse balzarle fuori della gabbia toracica. Si girò lentamente, allontanandosi dal parapetto. E sgranò gli occhi. Jem era sul marciapiede, davanti a lei, e sorrideva timidamente, con le mani nelle tasche di un paio di jeans. Indossava una maglia di cotone azzurra con le maniche tirate su fino ai gomiti. Vaghe cicatrici bianche gli decoravano gli avambracci, come merletti. Tessa vedeva la forma della runa della Quiete, un tempo nera e nitida sulla sua pelle, ormai ridotta a una lieve impronta argentea. — Jem? — sussurrò, rendendosi conto del perché non lo avesse visto quando lo aveva cercato tra la folla. Lei cercava Fratello Zachariah, avvolto nella sua tonaca color pergamena, invisibile nella

calca dei londinesi. Ma quello non era Fratello Zachariah. Era Jem. Non poteva staccare lo sguardo da lui. Lo aveva sempre trovato bello, e in quel momento non le appariva meno bello. Jem aveva avuto capelli bianco argentei e occhi come un cielo grigio, e ora invece aveva capelli corvini che si arricciavano lievemente nell’aria umida e occhi marroni con scintillii dorati nelle iridi. Una volta la sua pelle era stata chiara; adesso era colorita. Se prima di diventare un Fratello Silente il suo viso era intatto, ora aveva due cicatrici nere, le prime rune della Fratellanza, che risaltavano distintamente sull’arcata di ogni zigomo. Nel punto in cui il colletto della maglia si abbassava leggermente, Tessa vide la forma delicata della runa parabatai che un tempo lo legava a Will. Che forse lo legava ancora a Will, se si immaginava che le anime fossero legate oltre lo spartiacque della morte. — Jem… — mormorò di nuovo. A prima vista dimostrava forse diciannove anni, o venti, un po’ più di quanti ne aveva quando era diventato un Fratello Silente. A uno sguardo più attento, Tessa vide un uomo… con lunghi anni di dolore e saggezza in fondo agli occhi; perfino il modo in cui si muoveva parlava della pena del sacrificio muto. — Sei… ? — La voce di Tessa si alzò, folle di speranza. — È una cosa permanente? Non sei più legato ai Fratelli Silenti? — No — rispose Jem. Gli si spezzò brevemente il fiato; la guardava come se non avesse idea di come avrebbe reagito alla sua apparizione improvvisa. — Non lo sono più. — Hai trovato la cura? — Non l’ho trovata io, ma… è stata trovata. — Ho visto Magnus ad Alicante, solo pochi mesi fa. Abbiamo parlato di te. Non mi ha detto che… — Non lo sapeva — disse Jem. — È stato un anno difficile, un anno buio, per i Cacciatori. Ma dal sangue e dal fuoco, dalla perdita e dal dolore, sono nati nuovi grandi cambiamenti. — Allargò le braccia con fare modesto, quindi, con un lieve stupore nella voce, aggiunse: — Sono cambiato anch’io. — Ma come…? — Ti racconterò la storia. Un’altra storia sui Lightwood, gli Herondale e i Fairchild. Ma mi ci vorrà più di un’ora, e devi avere freddo. — Jem si fece avanti come per toccarle la spalla, poi sembrò ripensarci e lasciò ricadere la mano. — Io… — A Tessa non vennero le parole. Si sentiva ancora profondamente turbata dal vederlo così. Sì, lo aveva visto ogni anno, su quello stesso ponte. Fino a qual momento, però, non si era resa conto di quanto fosse cambiato il Jem che vedeva. E invece… era come ripiombare nel passato, tutto l’ultimo secolo cancellato, e si sentiva stordita, inebriata e terrorizzata. — Ma… dopo oggi? Dove andrai? A Idris? Per un istante, Jem sembrò sinceramente sconcertato… e, sebbene Tessa sapesse quanto fosse vecchio, così giovane. — Non lo so. Non ho mai avuto una vita per cui fare dei piani. — Allora… in un altro Istituto? — Non andare, avrebbe voluto dire Tessa. Resta. Ti prego. — Non credo che andrò a Idris o in un altro Istituto, quale che sia — disse Jem, dopo una pausa tanto lunga da far pensare a Tessa che, se non avesse parlato, avrebbero potuto cederle le ginocchia. — Non so come stare al mondo come Cacciatore, senza Will. Non credo neppure di volerlo. Sono ancora un parabatai, ma la mia altra metà non c’è più. Se dovessi andare in un Istituto e chiedere loro di accogliermi, non lo dimenticherei mai. Non mi sentirei mai completo.

— Allora cosa…? — Questo dipende da te. — Da me? — Tessa fu assalita da una sorta di terrore. Sapeva cosa voleva sentirgli dire, ma le sembrava impossibile. In tutti gli anni in cui lo aveva incontrato, da quando era diventato un Fratello Silente, le era sembrato distante. Non scortese o insensibile, ma come se tra lui e il mondo ci fosse stata una lastra di vetro. Tessa ricordò il ragazzo che aveva conosciuto, che aveva elargito il suo amore liberamente, ma quello non era l’uomo che aveva incontrato solo una volta all’anno per più di un secolo. Tessa sapeva quanto quel lungo intervallo di tempo l’avesse cambiata. Quanto più doveva aver cambiato lui? Non sapeva che cosa Jem volesse dalla sua nuova vita o, più direttamente, da lei. Avrebbe voluto dirgli tutto ciò che lui voleva sentire, avrebbe voluto abbracciarlo e tenerlo stretto, prendergli le mani e tranquillizzarsi nel sentire la loro forma… ma non osava. Non senza sapere cosa voleva da lei. Erano passati tanti di quegli anni. Come poteva immaginare che lui provasse ancora ciò che provava un tempo? Jem abbassò lo sguardo sulle mani sottili, aggrappandosi al calcestruzzo del ponte. — Per centotrenta anni, ogni ora della mia vita è stata programmata. Pensavo spesso a cosa avrei fatto se fossi stato libero, se si fosse trovata una cura. Pensavo che sarei scappato subito via, come un uccello liberato da una gabbia. Non avevo immaginato che, quando fossi venuto fuori, avrei trovato il mondo così cambiato, così disperato. In un bagno di fuoco e di sangue. Desideravo sopravvivere, ma solo per un motivo. Desideravo… — Cosa desideravi? Jem non rispose. Invece allungò la mano e toccò il bracciale di perle, con dita lievi. — Questo è il bracciale del vostro trentesimo anniversario… Lo porti ancora. Tessa deglutì. Le formicolava la pelle, le batteva forte il cuore. Si rese conto che non sentiva quella sensazione, quel particolare tipo di nervosismo eccitato, da tanti di quegli anni da averlo quasi dimenticato. — Sì. — Dopo Will, non hai più amato nessuno? — Non conosci la risposta a questa domanda? — Non intendo il modo in cui si amano i figli, o gli amici. Tessa, sai cosa ti sto chiedendo. — No — replicò lei. — Credo di avere bisogno che tu me lo dica. — Una volta stavamo per sposarci — disse Jem. — Io ti ho amata per tutto questo tempo… un secolo e mezzo. E so che amavi Will. Vi ho visti insieme nel corso degli anni. E so che era un amore così grande da far sembrare altri amori, anche il nostro quando eravamo entrambi tanto giovani, piccoli e insignificanti. Tu hai avuto un’intera vita di amore con lui, Tessa. Tanti anni. Figli. Ricordi che io non posso sperare di… — Si interruppe con un violento sussulto. — No. — Jem le lasciò la mano. — Non posso farlo. È stato sciocco pensarlo… Tessa, perdonami — disse, e si allontanò da lei, tuffandosi nella calca che percorreva il ponte. Tessa rimase un momento in preda a una violenta emozione; fu solo un momento, ma abbastanza perché lui scomparisse tra la folla. Allungò una mano in cerca di un sostegno. La pietra del ponte era fredda sotto le sue dita… fredda proprio com’era stata quella notte in cui erano andati per la prima volta lì e avevano parlato per la prima volta. Jem era stata la prima persona a cui lei avesse mai espresso la sua paura più riposta: che il suo potere la rendesse qualcosa di diverso, qualcosa che non era umano. Tu sei umana, aveva detto lui. In tutti i sensi che contano. Lo ricordò, ricordò il caro ragazzo dai giorni contati che si era preso la briga di confortare una

ragazza spaventata che non conosceva, senza esprimere le sue, di paure. Naturalmente, le aveva lasciato le sue impronte sul cuore. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Ricordò il momento in cui le aveva regalato il ciondolo di giada appartenuto alla madre, porgendoglielo con mano tremante. Ricordò i baci in carrozza. Ricordò quando era entrata nella sua stanza inondata dalla luce della luna, e il ragazzo argenteo in piedi davanti alla finestra, intento a trarre dal violino una musica più bella del desiderio. Will, aveva detto. Sei tu, Will? Will. Per un istante il suo cuore esitò. Ricordò quando Will era morto, la propria sofferenza, le lunghe notti da sola, quando ogni mattina al risveglio allungava la mano sul letto, aspettando per anni di trovarlo lì, e abituandosi solo lentamente al fatto che quel lato del letto sarebbe stato vuoto per sempre. I momenti in cui aveva trovato buffo qualcosa e si era girata per condividere lo scherzo con lui, solo per rimanere nuovamente sconvolta dal fatto che non fosse lì. I momenti peggiori quando, seduta da sola a colazione, si era resa conto che aveva dimenticato l’esatta sfumatura di azzurro dei suoi occhi o la sua risata profonda… come il suono della musica del violino di Jem, erano scomparsi in lontananza, dove i ricordi tacciono. E Jem ormai era mortale. Sarebbe invecchiato come Will, e come Will sarebbe morto, e lei non sapeva se sarebbe stata in grado di sopportarlo di nuovo. Eppure… La maggior parte delle persone è già fortunata ad avere un grande amore nella propria vita. Voi ne avete trovati due. All’improvviso i suoi piedi si mossero, quasi senza il concorso della volontà. Tessa correva tra la folla spingendo via gli estranei, pronunciando scuse affannate quando per poco non inciampava sui piedi dei passanti o dava loro delle gomitate. Non le importava. Corse a precipizio sul ponte, fermandosi con una scivolata alla sua estremità, dove una serie di stretti gradini di pietra conduceva alle acque del Tamigi. Fece due gradini alla volta, slittando quasi sulle pietre umide. In fondo alla scala c’era una stretta banchina di cemento cinta da una ringhiera. Il fiume era alto e sciabordava tra le aperture, riempiendo il piccolo spazio dell’odore di limo e acqua fluviale. Jem era davanti alla ringhiera, con lo sguardo fisso sull’acqua. Aveva le mani ficcate in tasca, le spalle curvate come per proteggersi da un forte vento. Fissava davanti a sé con occhi quasi ciechi e con una tale concentrazione che non parve sentirla quando gli si avvicinò da dietro. Tessa lo prese per la manica, facendolo girare. — Che cosa…? — disse trafelata. — Che cosa stavi provando a chiedermi, Jem? Lui spalancò gli occhi. Aveva le guance arrossate, se per il correre o per l’aria fredda, Tessa non avrebbe saputo dirlo. La guardò come se fosse una strana pianta spuntata lì per lì, lasciandolo senza parole. — Tessa… mi hai seguito? — Certo che ti ho seguito. Sei corso via a metà della frase! — Non era granché come frase. — Jem abbassò lo sguardo a terra e poi lo alzò di nuovo su di lei, mentre un sorriso, che le era familiare come i suoi stessi ricordi, gli curvava l’angolo della bocca. Allora le tornò alla mente, un ricordo perso ma non dimenticato: il sorriso di Jem era sempre stato come la luce del sole. — Non sono mai stato bravo con le parole — disse Jem. — Se avessi il mio violino, saprei suonarti ciò che volevo dirti. — Provaci.

— Non… non sono sicuro di riuscirci. Avevo preparato sei o sette discorsi, e li stavo ripassando tutti, credo. — Aveva le mani ficcate in tasca, e lasciò che Tessa gli prendesse i polsi tra le dita. Rimasero così, con Jem che la guardava da sotto i capelli scuri… il vento che soffiava dal fiume glieli aveva mandati sul viso. Vi era rimasta una sola striatura d’argento, che risaltava contro il nero. — Mi hai chiesto se ho mai amato nessuno oltre a Will — disse Tessa. — E la risposta è sì. Ho amato te. L’ho sempre fatto, e lo farò sempre. Lo sentì inspirare bruscamente. Sulla sua gola il sangue pulsava, visibile sotto la pelle ancora ornata dalle rune della Fratellanza, ormai sbiadite. — Dicono che non si possano amare contemporaneamente due persone nello stesso modo — continuò Tessa. — E forse per gli altri è così. Ma tu e Will… voi non siete come due persone normali, due persone che potrebbero essere state gelose l’una dell’altra, o avrebbero immaginato il mio amore per uno di loro diminuito dal mio amore per l’altro. Avete fuso le vostre anime quando eravate poco più che bambini. Non avrei potuto amare tanto Will se non avessi amato anche te. E non potrei amarti come ti amo se non avessi amato Will come l’ho amato. — Le sue mani si avvolsero leggermente intorno ai polsi di lui, appena sotto i polsini della maglia. Toccarlo così… era talmente strano, eppure le faceva venire voglia di toccarlo ancora. Aveva quasi dimenticato quanto gli mancasse il tocco di qualcuno che amava. Tuttavia si costrinse a lasciarlo e infilò una mano nel colletto della camicia. Afferrò con cautela la catenella che portava al collo e la sollevò in modo da fargli vedere il ciondolo di giada che le aveva regalato tanto tempo prima. La scritta sulla parte posteriore scintillava ancora come nuova: Quando due persone sono unite nel profondo dei loro cuori, superano perfino la resistenza del ferro o del bronzo. — Ricordi di avermelo lasciato? — domandò Tessa. — Non l’ho mai tolto. Jem chiuse gli occhi. Le ciglia sfioravano le guance, lunghe e sottili. — Tutti questi anni… — La sua voce era un sussurro, e sebbene non fosse la voce del ragazzo che era stato un tempo, era ancora una voce che Tessa amava. — Tutti questi anni, l’hai portato? Non l’ho mai saputo. — Mi sembrava che, quando eri un Fratello Silente, sarebbe stato solo un peso per te. Temevo potessi pensare che lo portavo perché avevo una qualche aspettativa su di te. Un’aspettativa che non potevi soddisfare. Jem rimase a lungo in silenzio. Tessa sentiva lo sciabordio del fiume, il traffico in lontananza. Le sembrava di sentire le nuvole muoversi in cielo. Ogni nervo del suo corpo le urlava di parlare, ma aspettava: aspettava che le espressioni si rincorressero sul viso di lui, e finalmente Jem parlò. — Essere un Fratello Silente è vedere tutto e niente allo stesso tempo. Vedevo la grande carta della vita spiegarsi davanti a me. Vedevo le correnti del mondo. E la vita umana ha cominciato a sembrare una sorta di sacra rappresentazione della Passione messa in scena a una certa distanza. Quando mi hanno tolto le rune e il manto della Fratellanza è stato rimosso, è stato come svegliarsi da un lungo sogno, o come se uno schermo di vetro intorno a me fosse andato in frantumi. Ho sentito tutto, contemporaneamente, piombarmi addosso. Tutta l’umanità che gli incantesimi della Fratellanza mi avevano tolto. Se tanta umanità è tornata a me… è stato grazie a te. Se non avessi avuto te, Tessa, se non avessi avuto questi incontri annuali come ancora e guida, non so se sarei potuto tornare. Tessa scorse la luce nei suoi occhi scuri, e il cuore le si levò alto nel petto. Aveva amato solo due uomini in tutta la sua vita, e non aveva mai pensato di poter rivedere, un giorno, il viso di uno di loro.

— Ma sei tornato — sussurrò. — Ed è un miracolo. Ricorda cosa ti ho detto una volta sui miracoli. A quelle parole, Jem sorrise di nuovo. — “I miracoli non si mettono in dubbio, né ci si lamenta che non si adattino perfettamente ai nostri desideri”. Probabilmente è vero. Avrei voluto venire prima da te. Vorrei essere lo stesso ragazzo che ero quando mi amavi, un tempo. Ho paura che questi anni mi abbiano trasformato in qualcos’altro. Tessa lo scrutò in viso. In lontananza sentiva il suono del traffico, ma lì, in riva al fiume, poteva quasi immaginare di essere di nuovo una ragazza, poteva immaginare l’aria piena di nebbia e di fumo, e in lontananza il suono sferragliante della ferrovia… — Gli anni hanno cambiato anche me. Sono stata madre e nonna, ho visto morire le persone che amavo, ho visto nascerne altre. Parli delle correnti del mondo… Anch’io le ho viste. Se fossi ancora la stessa ragazza che ero quando mi hai conosciuta, non sarei capace di aprirti liberamente il mio cuore come ho appena fatto. Non sarei capace di chiederti quanto sto per chiederti adesso. Jem sollevò la mano e gliela mise sulla guancia. Tessa vide la speranza spuntare lentamente su suo volto. — E che cos’è? — Vieni con me — disse Tessa. — Rimani con me. Stai con me. Vedi tutto con me. Ho girato il mondo e ho visto tante cose, ma ce ne sono ancora tante altre, e non c’è nessuno con cui le vedrei più volentieri che con te. Andrei in qualsiasi luogo con te, Jem Carstairs. Il pollice di Jem scivolò lungo l’arcata dello zigomo. Tessa rabbrividì. Era passato tanto tempo da quando qualcuno l’aveva guardata così, come se fosse l’ottava meraviglia del mondo, e sapeva che pure lei lo stava guardando nello stesso modo. — Mi sembra irreale — disse Jem, con voce velata. — Ti ho amata così a lungo. Come può essere vero? — È una delle grandi verità della mia vita — disse Tessa. — Verrai con me? Perché non vedo l’ora di condividere il mondo con te, Jem. C’è troppo da vedere. Tessa non era sicura di chi avesse fatto la prima mossa, ma un momento dopo era tra le sue braccia, e lui sussurrava: — Sì, naturalmente. Sì. Jem cercò la sua bocca con fare esitante… Tessa avvertì la tensione delicata, il peso dei tanti anni tra il loro ultimo bacio e quello. Sollevò le braccia, mettendogli una mano intorno alla nuca, attirandolo a sé, sussurrando — Bie zhao ji. — Non preoccuparti, non preoccuparti . Gli baciò la guancia, l’orlo della bocca e finalmente la bocca, la pressione delle sue labbra sulle proprie intensa, meravigliosa, e Oh, il battito del suo cuore, il sapore della sua bocca, il ritmo del suo respiro … I suoi sensi erano annebbiati dai ricordi: com’era magro un tempo, il tocco delle sue scapole aguzze come coltelli sotto il lino fine delle camicie che indossava una volta. Tessa sentiva muscoli forti e sodi mentre lo abbracciava, il pulsare della vita attraverso il corpo di Jem nei punti in cui si premeva contro il suo. Tessa era consapevole che, sopra la stretta banchina in cui si trovavano, la gente continuava a camminare sul Blackfriars Bridge, che il traffico continuava a circolare e che probabilmente i passanti li stavano guardando, ma non le importava; dopo tanti anni si impara cos’è importante e cosa no. E quello era importante: Jem, il ritmo accelerato e irregolare del suo cuore, la grazia delle mani delicate che scivolavano intorno al suo viso, le labbra morbide che seguivano il contorno della sua bocca. Una calda, solida e definitiva realtà. Per la prima volta in tanti anni Tessa si sentiva il cuore aperto, e capiva l’amore come qualcosa di più che non un semplice ricordo. No, l’ultima cosa di cui le importava era che la gente guardasse un ragazzo e una ragazza che si baciavano in riva al fiume, mentre Londra, i suoi quartieri e le torri e le chiese e i ponti e le strade

giravano tutt’intorno a loro come il ricordo di un sogno. E se anche il Tamigi che scorreva lì accanto, sicuro e argenteo nella luce del pomeriggio, ricordava una notte di tanto tempo prima, quando la luna brillava lucente come uno scellino sullo stesso ragazzo e sulla stessa ragazza, o se le pietre del Blackfriars Bridge riconoscevano il passo dei loro piedi e pensavano: Finalmente la ruota è tornata al punto di partenza, sia l’uno sia le altre rimasero in silenzio.

NOTA SULL’INGHILTERRA DI TESSA

Come nell’Angelo e nel Principe, la Londra e il Galles della Principessa sono una mescolanza – non so quanto riuscita – di reale e irreale, risaputo e dimenticato. La casa di famiglia dei Lightwood si ispira alla Chiswich House, che si può tuttora visitare. Quanto alla casa al 16 di Cheyne Walk, residenza di Woolsey Scott, al tempo era in realtà affittata ad Algernon Charles Swinburne, Dante Gabriel Rossetti e George Meredith. Erano membri del movimento estetico, come Woolsey. Tuttavia nessuno di loro è mai stato – o quantomeno si è dimostrato – un licantropo. Le Argent Rooms si ispirano alle scandalose Argyle Rooms. Quanto alla folle cavalcata di Will attraverso la campagna da Londra al Galles, sono debitrice a Clary Booker, che mi ha aiutato a tracciare l’itinerario, ha trovato le locande in cui Will avrebbe alloggiato lungo la strada e descritto un ipotetico scenario atmosferico. Ho cercato per quanto possibile di citare strade e locande esistite davvero; oggi la strada Shrewsbury-Welshpool è la A458. Sono stata io stessa sul Cadair Idris e mi ci sono arrampicata, ho visitato Dolgellau e il Tal-yLlyn, e ho visto il Llyn Cau, ma non mi ci sono mai tuffata per vedere se mi avrebbe risucchiato. Il Blackfriars Bridge, naturalmente, esisteva allora ed esiste adesso, e la descrizione che ne faccio nell’epilogo si rifà il più possibile alla mia esperienza diretta. I Congegni Infernali sono cominciati con un sogno a occhi aperti di Jem e Tessa sul Blackfriars Bridge, e ritengo giusto che sia lì che finiscano.

RINGRAZIAMENTI

Uno speciale ringraziamento a Cindy e Margaret Pon per l’aiuto con il cinese mandarino; a Clary Booker per avere tracciato l’itinerario del viaggio di Will da Londra al Cadair Idris; a Emily-Jo Thomas per l’aiuto con il gallese di Will e Cecily; ad Aspasia Diafa, Patrick Oltman e Wayne Miller per l’aiuto con il latino e il greco antico. Grazie a Moritz Wiest per avere scannerizzato tutto il manoscritto in modo che potesse essere consegnato durante l’uragano Sandy. Ringrazio infinitamente per il sostegno mia madre e mio padre, nonché Jim Hill e Kate Connor; Nao, Tim, David e Ben; Melanie, Jonathan e Helen Lewis; Florence e Joyce. Una marea di ringraziamenti va a coloro che hanno letto, espresso critiche e rilevato anacronismi: Sarah Smith, Delia Sherman, Holly Black, Kelly Link, Ellen Kushner, Clary Booker. E grazie a coloro i cui volti sorridenti e le cui osservazioni schiette mi fanno andare avanti: Elka Cloke, Holly Black, Robin Wasserman, Emily Houk, Maureen Johnson, Libba Bray e Sarah Rees Brennan. La mia eterna gratitudine va al mio agente Russell Galen, alla mia editor Karen Wojtyla e alle squadre di Simon & Schuster e Walker Books per avere fatto sì che tutto ciò si realizzasse. E infine i miei ringraziamenti a Josh, che mentre lavoravo mi ha portato gatti e tazze di tè.

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