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Pierangelo Di Vittorio - Enrico Mastropierro L’informe, il rizoma, il blob. Per un divenire minore della filosofia Peer-reviewed Article. Received: December, 20, 2015; Accepted: January 15, 2016 Abstract: It is not usual to associate George Bataille with Gilles Deleuze. It is nearly impossible to find anything in common between the two philosophers but their ancestry from Nietzsche. What do they talk about together? In this paper it is suggested a comparison of two of their concepts: the shapeless and the rhizome. This comparison is not a theoretical outcome, it is the result of pratical researches carried out by Action30. The collective Action30 is a research group of investigators and artists active since ten years in different areas of interest (publishing, performing, didactics), who have chosen the shapeless and rhizome as ways of playing. The collective named blob-philosophy this way of performing researches and the reflections on it, in order to denominate a style and a tradition. A parte la comune ascendenza nietzschiana, i nomi di Georges Bataille e di Gilles Deleuze non sono fra quelli che si associano più facilmente. Come giustificare la decisione di farli dialogare? Il paragone sviluppato in quest’articolo si concentra su due nozioni – l’informe e il rizoma – e non deriva tanto da un percorso intellettuale, quanto da un’esperienza pratica, all’interno della quale tali nozioni si sono imposte più per il loro valore d’uso che per il loro status di concetti. Il collettivo Action30, un gruppo di ricercatori e artisti attivo da una decina d’anni in ambiti diversi (editoria, spettacolo, didattica), ha adottato queste nozioni perché permettevano di fare qualcosa, di compiere certi gesti, di assumere una certa postura. Tale dimensione performativa, accompagnata da una costante riflessione sulle sperimentazioni in atto, ha condotto il collettivo a coniare il termine ‘blob-filosofia’, per designare sia il suo stile di ricerca sia la ‘tradizione’ nella quale potrebbe radicarsi. Keywords: Formless, Rhizome, Blob-Philosophy, Deleuze, Derrida Parole chiave: informe, rizoma, blob-filosofia, Deleuze, Derrida ***

1) Alla ricerca di una tradizione Nel 2005, nasceva il collettivo Action30, un gruppo di ricercatori (filosofi, sociologi) e di artisti (scrittori, videomaker, musicisti, grafici, fotografi, disegnatori) raccolti intorno a una semplice domanda: e se stessimo vivendo una strana riedizione degli anni 30? 1 Domanda che all’epoca poteva apparire un po’ scabrosa, ma che è diventata nel frattempo, soprattutto dopo la crisi economica esplosa nel 2008, una specie di ritornello. Gli anni 30 alludevano ovviamente alla crisi della democrazia e all’avvento dei regimi fascisti in Europa, e dinanzi all’eventualità che una simile situazione potesse ripresentarsi, era chiaro che bisognasse fare qualcosa, mobilitarsi in qualche modo. Da qui il richiamo all’azione, che il collettivo porta scritto nel suo nome. La mobilitazione ha assunto subito l’aspetto di una macchina analogica. L’analogia non è, banalmente, una ricerca delle somiglianze, ma piuttosto una ricerca che, facendo leva sulle somiglianze, cerca di far emergere e di esaltare le differenze. Il collettivo ha quindi cominciato a riflettere sul presente, imbastendo una fitta rete di risonanze analogiche con il passato. Tuttavia, la macchina non si limitava a funzionare su un registro riflessivo. O meglio, anche a causa dell’eterogena composizione del collettivo – aspetto per nulla accidentale o secondario, trattandosi appunto di un gruppo di per sé magmatico o informe – la riflessione si è legata a filo doppio con una Per approfondire le ragioni che sono alla base della nascita del collettivo, cfr. P. Di Vittorio, Penser le fascisme aujourd’hui, Reflets italiens, “Lignes”, 33/2010; P. Di Vittorio, A. Manna, E. Mastropierro, G. Palumbo, A. Russo, Pensare il fascismo, in L. Curreri e F. Foni (a cura di), Fascismo senza fascismo? Indovini e revenants nella cultura popolare italiana (1899-1919 e 1989-2009), Nerosubianco, Cuneo, 2012. 116 1

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dimensione pratica, sperimentale. Riflettere significava dotarsi di strumenti che consentissero di percepire la ‘catastrofe’ presente 2 , e di muoversi all’interno di tale paesaggio intervenendo in modo performativo su di esso, nel tentativo di resistere alla sua onda d’urto ed eventualmente di modificarlo, di biforcarlo in direzione di altre possibili forme di vita, di esperienza. La macchina analogica era, dunque, al tempo stesso, concettuale e sensoriale, critica e creativa. In altri termini, la riflessione si dispiegava costantemente in una dimensione performativa, e la performatività si ripiegava sempre in una dimensione riflessiva. Al momento di avviare la macchina, la scoperta di “Documents” – la rivista diretta da Georges Bataille nel biennio 1929-1930 – è stata decisiva3. Fu come trovare la benzina giusta da mettere nel motore. Non solo perché permetteva di far funzionare l’analogia con gli anni 30, ma anche perché l’operazione condotta da Bataille in queste pagine, e che può essere complessivamente posta sotto il segno dell’informe, consentiva di raddoppiare l’aspetto riflessivo con quello performativo dell’analogia: e se provassimo a rigiocare oggi – nel nostro paesaggio quotidiano, nella catastrofe che sentiamo venire, o che forse è già arrivata ma che non riusciamo a percepire, su cui non siamo ancora capaci d’intervenire – l’informe di Bataille? In realtà, questa riattivazione dell’informe aveva avuto almeno un precedente. Si tratta della mostra L’informe, mode d’emploi, tenutasi a Parigi presso il Centre Georges Pompidou dal 22 maggio al 26 agosto 1996. I curatori, Yves-Alain Bois e Rosalind Krauss, erano partiti dall’idea che l’informe fosse uno strumento necessario per la comprensione di una serie di pratiche artistiche: da quelle cui il nome di Bataille era di solito associato (la scultura di Giacometti a cavallo tra gli anni 20-30, il repertorio fotografico del surrealismo), fino a certi aspetti dell’opera di autori quali Manzoni, Fontana, Burri, Pollock, Warhol, Twombly, Wols, Sherman ecc. Nella misura in cui l’informe estendeva il suo raggio d’azione, Bois e Krauss furono quasi naturalmente portati a rendere la nozione operativa all’interno di una mostra. Questo, secondo loro, avrebbe consentito, da un lato di mostrare il suo potenziale analitico, dall’altro di farla funzionare come forza di aggressione nei confronti di alcune categorie tradizionali, come quelle di ‘forma’ e ‘contenuto’. Con la mostra al Beaubourg, Bois e Krauss hanno reso insomma operativo l’informe e, in questo modo, ne hanno svelato la portata propriamente ‘operazionale’4. Il valore d’uso dell’informe si manifesta, infatti, nel momento stesso in cui si comincia a usarlo. La scoperta di “Documents”, da cui prenderà le mosse Action30, s’inscrive nella stessa dimensione ‘performativa’: non si può parlare dell’informe senza metterlo in moto, senza farlo funzionare, senza praticarlo 5 . E sebbene, nel caso del collettivo, la riattivazione dell’informe avesse una tonalità o una dominante di carattere piuttosto etico-politico, è chiaro che, a causa della natura eterogenea del collettivo, dove gli studiosi lavoravano a fianco a fianco con gli artisti, l’informe si è messo a funzionare anche su un registro estetico-artistico. In ogni caso, la domanda sul possibile uso dell’informe batailliano ha raddoppiato la domanda iniziale, quella sulla strana riedizione degli anni 30, offrendo al collettivo un terreno concreto di riflessione e di sperimentazione. Sono state messe sul tavolo alcune ipotesi di ricerca, connesse fra loro e tali da formare una sorta di mosaico o di costellazione problematica. In primo luogo, c’è stata l’indagine sul rapporto tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ fascismo, sfociata in un volume collettivo, nel quale i ricercatori hanno chiamato in causa una serie di autori, interrogandoli sulla base dei loro personali background culturali 6 . Cfr. G. Didi-Huberman, Sentir le grisou, Les Éditions de Minuit, Paris, 2014. G. Bataille e M. Leiris, Documents (1929-1930), 2 voll., Éditions Jean-Michel Place, Paris, 1991. 4 Y.A. Bois, R, Krauss, L’informe. Istruzioni per l’uso, Bruno Mondadori, Milano, 2003. 5 Cfr. D. Hollier, La valeur d’usage de l’impossible, in G. Bataille e M. Leiris M., Documents (1929-1930), cit., vol. I, pp. VII-XXXIV. 6 P. Di Vittorio, A. Manna, E. Mastropierro, A. Russo, L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo (Letture di: Bataille, Littell e Theweleit, Jackson, Pasolini, Foucault, Deleuze e Guattari, Agamben, 117 2 3

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Parallelamente, è stata avviata un’indagine sull’‘uomo neoliberale’, nella quale, attraverso un aggiornamento delle Mythologies di Barthes (1957)7, si è provato a cogliere l’emergenza di questa nuova configurazione antropologica attraverso l’elaborazione di una fenomenologia della ‘supernormalità’8. Su questa strada, si è sviluppata infine un’indagine sulla condizione dell’uomo contemporaneo, immerso in un oceano mediatico nel quale la realtà non si distingue più dal suo spettacolo. Una confusione che rischia di dissolvere le opposizioni sulle quali il nostro tradizionale modo di pensare e di agire è fondato – il vero e il falso, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il pubblico e il privato – e che potrebbe, quindi, costituire uno degli aspetti della catastrofe cui, sin dall’inizio, il collettivo ha cercato di essere sensibile e di reagire. In tal senso, lungi dall’essere un semplice format televisivo, il reality show – lo ‘spettacolo della realtà’ – potrebbe definire una nuova condizione del nostro essere al mondo. Riprendendo ma anche superando le classiche analisi sulla ‘società dello spettacolo’, si è cercato, quindi, di aggiungere un tassello alle analisi sul potere moderno inaugurate da Michel Foucault: la cosiddetta biopolitica neoliberale, oltre a investire la dimensione indistinguibilmente biologica ed economica della vita umana (si pensi alla dottrina del ‘capitale umano’), avrebbe una connotazione propriamente ‘bio-mediatica’, consistente nella messa in spettacolo industriale e permanente della vita quotidiana9. Queste ipotesi di ricerca si sono svolte contemporaneamente su un piano teorico e su un piano pratico. O meglio, la ricerca del collettivo, facendo coesistere sul medesimo tavolo di lavoro la dimensione riflessiva (critica) e quella performativa (creativa), ha cominciato a svilupparsi su un altro livello, una sorta di linea di fuga rispetto a una serie di alternative statutarie, a cominciare da quella tra la trasmissione accademica del sapere e lo spettacolo come semplice intrattenimento. Rimettendo in discussione queste opposizioni binarie, un po’ come la mostra realizzata al Beaubourg da Bois e Kraus cercava di sfuggire all’alternativa tra forma e contenuto, la macchina di ricerca del collettivo mostrava di possedere, appunto, uno stile operazionale di carattere informe. Tale stile si manifestava sia a monte, sia a valle: a monte, attraverso un’aggressione nei confronti di tutti i ‘format’ stabiliti, nel senso che la forma o il formato di ogni progetto culturale, non solo non era mai dato per scontato, ma era anzi esplicitamente messo in discussione e reinventato; a valle, attraverso la realizzazione di prodotti culturali il cui carattere era immancabilmente ibrido. Anche, o forse soprattutto, la progettazione editoriale di un saggio critico – il prodotto culturale più scontato e in apparenza ‘neutro’ dal punto di vista della sua Eco, Ballard), Edizioni Action30, Bari, 2009. La pubblicazione di questo volume ha suscitato un dibattito sul n. 350/2011 della rivista “aut aut”, intitolato Nuovi fascismi? 7 Cfr. R. Barthes, Miti d’oggi, trad. di L. Lonzi, Einaudi, Torino 1974 e 1994. L’esigenza di quest’aggiornamento, dopo l’avvento della tv, era già stata posta, nel 1961, da Umberto Eco: Fenomenologia di Mike Bongiorno, in Id., Diario minimo, Bompiani, Milano, 1992/2008, pp. 29-34. 8 Cfr. i saggi grafici (Graphic Essays), AA.VV., La croce della normalità / L’invasione dei supernormali, Edizioni Action30, Bari 2007 e AA.VV., Politiche del lapsus / Il ritorno degli uomini talpa, Edizioni Action30, Bari 2008. Questa ricerca, cui hanno partecipato tra gli altri A. Di Vittorio, C. Garzia, A. Giorgetti e F. Franchini, si è sviluppata anche attraverso un ciclo di performance-dibattito e di mostre realizzate in Italia e all’estero (se ne trovano alcune tracce nel canale YouTube di Action30: action30media). Cfr. anche P. Di Vittorio, Au-delà du normal et de l’anormal, hypothèse sur l’homme néolibéral, “Essaim”, 31/2013. 9 Cfr. i saggi di P. Di Vittorio, Carismi del reale. L’opera d’arte nell’epoca del marketing e dello spettacolo (“Multitudes”, 48/2012; “aut aut”, 353/2012); Come pesci nell’acqua. Prospettive genealogiche sulla mediatizzazione del quotidiano (“Multitudes”, 51/2012; “aut aut”, 359/2013). Questa ricerca è confluita nella performance-spettacolo del collettivo Action30, Nage, nage petit poisson, Dés/obéir à l’époque de la téléréalité, Festival des Libertés, Théâtre National de Bruxelles, ottobre 2014 (VJing: L. Acito | Music & sampler: A. Casati | Live drawing: P. Todisco “Squaz” | Voice: P. Renaux | Texts: P. Di Vittorio). Il seminario multimediale La verità nell’epoca del populismo culturale è stato presentato il 21 marzo 2015, nell’ambito della “Scuola di Filosofia di Trieste”, diretta da Pier Aldo Rovatti, e con A. Manna e G. Palumbo, nel workshop tenutosi dal 16 al 19 giugno 2015 presso l’ISIA di Urbino, dove è stata riproposta la performancespettacolo con il coinvolgimento degli studenti del I e II anno “Illustrazione”. 118

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composizione formale: la pagina immacolata sulla quale il sapere s’iscrive a chiare lettere, nero su bianco – era l’occasione per cimentarsi in una vertiginosa scommessa performativa, stimolando un intenso dibattito creativo sulle soluzioni grafiche da adottare, e sfociando in prodotti editoriali inediti, nei quali i flussi di testo e i flussi di immagini si ibridavano in modo radicale. Un’ibridazione che si ritrova all’estremo opposto, ossia negli spettacoli realizzati dal collettivo, dove la riflessione filosofica, la ricerca critica, la documentazione storica, la scrittura saggistica e quella letteraria, il teatro e la performance multimediale (video, musica e disegno live), si sovrappongono, s’intrecciano e si mescolano senza soluzione di continuità. Tutta questa ‘materia’ molteplice ed eterogenea, tutti questi linguaggi specifici e disparati, montandosi e contaminandosi a vicenda, iniziano a vibrare sulla scena, si trasformano, subiscono strane ‘mutazioni’: un’immagine legata a un suono può provocare nello spettatore una riflessione, un concetto può suscitare in lui una sensazione o un’emozione. In questo percorso, che prosegue ormai da una decina d’anni, l’entrata del lessico di Deleuze nel lavoro del collettivo è avvenuta in modo abbastanza naturale (ma sarebbe più corretto parlare del lessico di Deleuze-Guattari: collettivo duale, composto da un filosofo e da uno psicoanalista, e non privo, quindi, a sua volta, di un certo carattere magmatico o informe). Concetti come quelli di linea di fuga e di divenire minore consentivano di dotarsi di un ‘linguaggio’ filosofico, ossia, semplicemente, di ‘parlare filosoficamente’ nella quotidianità del lavoro di ricerca. Tali termini erano perciò adottati, ancora una volta, più per il loro valore d’uso che per il loro status di concetti, se il significato delle parole, come dice Wittgenstein, risiede nel loro uso in un determinato contesto, ed è quindi sempre relativo a un determinato ‘gioco’ linguistico. Il lessico deleuziano ha permesso in fondo al collettivo di aggiungere un supplemento di riflessività alla sua ricerca, nel momento stesso in cui questa continuava a svilupparsi in modo performativo attraverso una serie di azioni e di pratiche politico-culturali. Alla fine, la scoperta del rizoma è stata un po’ come il ritrovamento della lettera rubata: considerati dal punto di vista del loro valore operazionale, l’informe e il rizoma apparivano chiaramente come nozioni, non solo contigue, ma persino interscambiabili. In entrambi i casi, si trattava comunque di termini che permettevano di fare qualcosa, di compiere certi gesti e di assumere una certa postura, piuttosto che servire solo per descrivere o dare un senso alle cose. Erano insomma usati più come performativi che come constativi10. Blob-filosofia è il nome coniato dal collettivo per designare il suo stile di ricerca. Uno stile che non è certo un’assoluta novità: l’informe e il rizoma ne sono appunto una premessa. Ma sono mobilitati anche altri riferimenti, per offrire a tale stile un terreno culturale più ampio e profondo nel quale radicarsi e svilupparsi: le genealogie foucaultiane come montaggio tra ricerche storiche e lotte attuali; il montaggio poetico-politico della Rabbia di Pier Paolo Pasolini; il caotico tappeto d’immagini su cui camminava nel suo atelier il pittore Francis Bacon11; il collage citazionistico di Walter Benjamin; la ‘zuppa d’anguilla’ con cui Aby Warburg definiva la sua scrittura saggistica; le pagine elettriche, piene di salti di registro che producono altrettanti sbalzi di tensione, di alcuni ‘romanzi filosofici’ di Denis Diderot (Il nipote di Rameau, Jacques il fatalista). È come se il collettivo, procedendo nella sua ricerca, costruisse mattone dopo mattone la propria tradizione; una tradizione ‘elettiva’, che appare sempre un po’ nell’après coup, e che si presenta, quindi, come un insieme eterogeneo, frammentario e disperso; una tradizione che è perciò di per sé informe o rizomatica. Ed è come se, al contempo, procedendo nella costruzione di questa genealogia un po’ arbitraria, il collettivo finisse per portare alla luce una tradizione sommersa, qualcosa che magari è sempre esistito, come un’antica civiltà sepolta sotto le acque. Pensiamo alla scoperta di una costellazione: le stelle sono sempre 10 11

Cfr. J.L. Austin, Come fare cose con le parole, trad. di C. Villata, Marietti, Torino, 1987. Cfr. J. Edwards, P. Ogden, 7 Reece Mews: Francis Bacon’s Studio, Thames & Hudson, London, 2001. 119

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state lì, nel cielo; d’un tratto, però, lo sguardo scopre che possono essere collegate, grazie a un certo disegno mentale, e in questo modo si comincia a pensare che, in fondo, quella costellazione sia sempre esistita. Semplicemente, non c’erano le condizioni che permettessero di vederla. In questo caso, l’invenzione e il ritrovamento di una tradizione coincidono. Blob-filosofia: perché la scelta di questo nome? In primo luogo, perché Action30 cerca d’inventare e praticare una linea di fuga anche rispetto all’alternativa, e alla conseguente organizzazione gerarchica, tra la cosiddetta cultura ‘alta’ e la cosiddetta cultura ‘bassa’. Sul tavolo di lavoro informe o rizomatico del collettivo, si ammassano e interagiscono materiali e linguaggi provenienti indifferentemente dall’universo colto o universitario e da quello ‘pop’. Il termine inglese blob designa una massa sprovvista di forma e di consistenza, ma è anche il nome di una creatura aliena, protagonista di alcuni film dell’orrore, e soprattutto il titolo di una nota trasmissione televisiva, in onda su Rai3 dal 1989 12 . Montaggio di frammenti estrapolati dal flusso televisivo, questo programma permette di fare una scoperta, al tempo stesso, semplice e decisiva: quella che è ancora possibile sospendere il senso abituale delle cose (di fare un’operazione di epoché, direbbe Husserl) e di porsi delle domande – ossia, in definitiva, di fare l’esperienza del pensiero – pur restando immersi nell’oceano mediatico. Il fine verso cui tende il collettivo è in fondo questo: attraverso una serie di pratiche di montaggio, cercare di produrre degli shock, tali da elettrizzare il pensiero facendo emergere dei punti interrogativi nel corso abituale dell’esperienza. Questo spiega perché il ‘blob’ sia eminentemente ‘filosofico’. Tuttavia, a causa della reciproca implicazione tra la ricerca critica e quella creativa, tali shock, oltre che ‘pensanti’, sono ‘poetici’ (o meglio ‘possono’ esserlo: lo shock è, infatti, un evento, e come tale può avere luogo oppure no). Per questa ragione, con il termine blob-filosofia, il collettivo designa anche, implicitamente, la pratica di una blob-arte. La blob-filosofia è una ‘pratica filosofica’? Questa domanda richiede una risposta articolata. La blob-filosofia si muove certo in uno spazio extra-accademico. È il tentativo di qualificare tale extraterritorialità attraverso uno stile di ricerca concretamente alternativo rispetto a quello universitario, a cominciare dal diverso modo d’istituire e di tessere il ‘legame sociale’ tra i ricercatori. Tuttavia, la blob-filosofia non fa parte, né si riconosce, nello spazio codificato delle cosiddette pratiche filosofiche – caffè filosofici, filosofia per bambini, consulenza filosofica ecc. –, che possono essere viste come il tentativo di offrire una legittimazione filosofica a una serie di pratiche che si collocano al di fuori dello spazio istituzionale della filosofia13. Non si tratta insomma di una pratica della filosofia che provi a riaffermare l’identità filosofica in ambiti diversi da quelli tradizionali, ma di una filosofia che, nella sua stessa pratica, rimette in gioco la sua identità, dissipa il suo capitale di legittimità e di riconoscibilità filosofiche, facendosi intaccare dai linguaggi che incontra e trasformare dai territori in cui migra. Una filosofia che corre, dunque, il rischio di misconoscersi nel suo elemento familiare, per riconoscersi magari in elementi che le sono estranei. Quando, per esempio, in un seminario o in un corso di formazione, si costruisce un percorso nel quale la domanda, che si prova a far emergere e a condividere con i partecipanti, nasce dal montaggio tra una serie di riferimenti colti (autori, ricerche, libri) e una serie di materiali pop (film), si produce una duplice ‘estasi’. Con una terminologia ancora una volta deleuziana, potremmo dire che l’apparato critico si deterritorializza, Blob è stato ideato da Angelo Guglielmi, dirigente storico di Rai 3, e dai critici cinematografici Enrico Ghezzi e Marco Giusti. 13 La stessa riserva si potrebbe esprimere nei confronti di ciò che oggi si chiama ‘pop filosofia’, che spesso si riduce a una colonizzazione filosofica di nuovi territori della cultura di massa o popolare (film, serie televisive ecc.), e che è cosa ben diversa dal divenire-pop della filosofia, così com’è stato tematizzato da G. Deleuze e F. Guattari (Kafka. Per una letteratura minore, trad. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1975) e da M. Foucault, a proposito delle genealogie come accoppiamento tra saperi eruditi e saperi della gente (Bisogna difendere la società, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 11-27). 120 12

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incarnandosi nella materia filmica, e che, nello stesso tempo, le immagini cinematografiche si deterritorializzano, assumendo una valenza critica e riflessiva. I concetti e i film non sono più gli stessi, al punto che si stenta a riconoscerli, ma questo vuol dire, precisamente, che la macchina blob-filosofica ha iniziato a funzionare. Più che una pratica filosofica, in senso convenzionale, la blob-filosofia può essere allora definita come quella particolare tensione per cui l’interrogazione filosofica, implicando sempre una dimensione performativa, esce da se stessa, si disloca in nuovi territori, si concatena e si ibrida con altri linguaggi. Diventa ‘altro da sé’. In tal senso, si potrà assistere, per esempio, a un ‘divenire-film’ dell’interrogazione filosofica, e a un ‘divenirefilosofia’ dell’espressione cinematografica. Rinunciando programmaticamente a insediarsi in vecchi o nuovi territori nei quali far regnare sovranamente la filosofia, la blob-filosofia espone il filosofico al suo divenire ‘minore’14. Questa condizione minoritaria metterà in perdita l’identità filosofica, destinando la filosofia a un’esistenza interstiziale o spettrale. D’altra parte, però, essa offrirà all’interrogazione filosofica una consistenza leggera, volatile, stimolando la sua natura nomade, permettendole di fare molti ‘incontri’ e di esercitarsi, con disinvoltura e in modo trasversale, all’interno di un ventaglio molto ampio ed eterogeno di possibilità: dalla produzione editoriale, a quella di performance e spettacoli, dalla realizzazione di videoclip e cortometraggi, alla creazione di tutta una serie di ‘situazioni didattiche’ (conferenze, seminari, corsi di formazione, interventi negli istituti scolastici e universitari, workshop). Da un altro punto di vista, la blob-filosofia s’inscrive in una precisa tendenza del pensiero contemporaneo. Com’è noto, la ferita aperta da Kant nella metafisica, temporaneamente rimarginata dall’idealismo speculativo, è stata riaperta da Marx, Nietzsche e Freud, i quali hanno rovesciato il tradizionale rapporto gerarchico tra il sensibile e il soprasensibile: ciò che è vero ed essenziale non sta nel mondo di lassù, ma si trova nel mondo di quaggiù. Tuttavia, come suggerisce Heidegger, non basta un simile gesto per uscire dalla metafisica: infatti, l’elemento meta-fisico della metafisica, cioè la ‘trascendenza’ (Transzendenz), piuttosto che dissolversi, si trasforma, per ripresentarsi nella forma della ‘rescendenza’ (Reszendenz) 15 . In tal senso, il rovesciamento del platonismo operato in modi diversi da Marx, Nietzsche e Freud, e in base al quale ‘il sensibile diventa il mondo vero e il soprasensibile il mondo non vero’, non solo resterebbe all’interno della metafisica, ma ne rappresenterebbe la sua estrema manifestazione, il suo compimento16. Da Bataille a Heidegger, da Derrida a Foucault e a Deleuze, la ‘filosofia’ del Novecento può essere vista come il tentativo di andare oltre il semplice platonismo rovesciato, attraverso l’elaborazione e la sperimentazione di un pensiero della differenza o, per meglio dire, di un pensiero (del) ‘differenziale’. Dopo un excursus esplicativo sulle nozioni d’informe e di rizoma, cercheremo di mostrare come la blob-filosofia provi anche a riattivare, proseguendola, questa fondamentale tendenza del pensiero contemporaneo.

Cfr. P. Di Vittorio, Oscillazioni dell’identità filosofica. Nietzsche attraverso Derrida e Foucault, “aut aut”, 367/2015. 15 M. Heidegger, “La questione dell’essere”, in Id., Segnavia, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1987, p. 347. 16 M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1976-1985, p. 51. «Attraverso tutta la storia della filosofia il pensiero di Platone resta, in forme diverse, determinante. La metafisica è platonismo. Nietzsche definisce la sua filosofia come platonismo rovesciato. Con il rovesciamento della metafisica, che è già attuato con Karl Marx, è raggiunta la possibilità estrema della filosofia. Essa è entrata nella sua fine» (M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Id., Tempo ed essere, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1980, p. 165). 121 14

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2) L’informe Per comprendere l’informe di Bataille, bisogna in primo luogo considerare il contesto storico, politico e culturale nel quale si manifesta. «È proprio intorno al 1930 – scriverà più tardi Breton – che le menti acute si accorgono del ritorno imminente, ineluttabile della catastrofe mondiale»17. L’epoca è rivoluzionaria: il fascismo si è già insediato in Italia, Hitler non tarderà ad assumere il potere in Germania, mentre la rivoluzione d’ottobre e la nascita dell’Unione Sovietica alimentano a livello internazionale gli sforzi e le speranze del movimento operaio. Nel 1936, l’alzamiento dei generali, tra cui Francisco Franco, fa esplodere la guerra civile in Spagna: è la prova generale della catastrofe che, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, si abbatterà sull’Europa. Sferzato dal vento della storia, il mondo della cultura è in ebollizione. La questione dell’impegno politico s’intreccia con le preoccupazioni di ordine filosofico e artistico, andando a formare un continuum incandescente e magmatico. Tra il 1935 e il 1936, Benjamin e Heidegger sviluppano parallelamente importanti riflessioni sull’opera d’arte, anche se, dal punto di vista politico, si trovano dai lati opposti della barricata 18 . In particolare, nel 1929-30, André Breton pubblica il Secondo Manifesto del Surrealismo, inaugurando una nuova stagione del movimento, la cui rivista cesserà di chiamarsi la “Révolution surréaliste”, per assumere il nome di “Surréalisme au service de la Révolution”. A Parigi, l’atmosfera è carica di tensione: a cavallo tra filosofia, arte e politica, non si smette di litigare, senza esclusione di colpi, e di dividersi su tutto19. Raccolti intorno a Bataille, il 15 gennaio 1930, gli epurati del Secondo manifesto pubblicano un pamphlet nel quale, sotto la scritta Un cadavre, campeggia il volto di Breton, gli occhi chiusi e una corona di spine sulla testa. Definito ‘vecchio esteta’, ‘falso rivoluzionario con la faccia di Cristo’, gli autori dell’attacco si domandano se «l’atteggiamento rivoluzionario di Breton possa essere considerato come qualcosa di diverso da un’impostura». Tuttavia, le spade si erano già incrociate. Il duello nasce spesso prima che si abbia il tempo di dichiararlo, e senza che si sappia con precisione chi sia stato il primo a provocarlo. In effetti, nel giugno 1929, Bataille aveva pubblicato un testo intitolato Il linguaggio dei fiori20, nel quale faceva riferimento all’episodio secondo cui Sade si sarebbe fatto portare in prigione delle magnifiche rose, per poi strapparne i petali e lasciarli cadere nello scolo di una fogna. Poco dopo, nel Secondo Manifesto, Breton insorgerà contro il modo ‘vile’ con cui era stato trattato il Divin Marchese, rinfacciando a Bataille le sue morbose passioni scatologiche, e finendo per attribuirgli l’appellativo di ‘filosofoescremento’. In ogni caso, sembra evidente che il dissidio risalga almeno alla nascita della rivista “Documents”, terreno sul quale Bataille cercherà di affermare la sua idea di ‘basso materialismo’, facendola funzionare in modo performativo attraverso l’operatore-informe. Dietro la sua apparenza colta e ricercata, si cela uno strumento di attacco contro il surrealismo (visto come un ‘alto’ o un ‘super-materialismo’) e più in generale contro tutte le forme di sublimazione e d’idealismo. “Documents” si presenta come un ‘miscuglio propriamente impossibile’, non solo per la diversità delle discipline e dei linguaggi che vi A. Breton, Avvertimento per la ristampa del Secondo Manifesto del Surrealismo (1946), Einaudi, Torino, 2003, p. 28. 18 Si tratta di W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935-36) Einaudi, Torino 2000, e di M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte (1935-36) in Sentieri interrotti, trad. it. P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze, 1993. 19 Cfr. il saggio grafico di G. Palumbo, P. Di Vittorio, Tutto si divide. Il duello rivoluzionario tra Breton e Bataille, che prosegue con l’adattamento a fumetti, realizzato da Palumbo, di alcuni testi pubblicati da Bataille su “Documents” (in P. Di Vittorio et al., L’uniforme e l’anima, cit.); e il cortometraggio Grande Brasserie Cyrano: motion comic di P. Di Vittorio e G. Palumbo, con regia di L. Acito e musiche di A. Casati (una App per Ipad è scaricabile gratuitamente: Versus-Grande Brasserie Cyrano). 20 G. Bataille, Documents, trad. di S. Finzi, Dedalo, Bari, 1974. Faremo riferimento a questa edizione, che raccoglie i testi pubblicati da Bataille su “Documents”, modificando all’occorrenza la traduzione. 122 17

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sono mobilitati, ma anche, e in primo luogo, per l’eterogeneità dell’approccio di chi vi partecipa: alcuni chiedono solo di svolgere il loro lavoro di studiosi, di critici e storici dell’arte, altri s’ingegnano, invece, «a utilizzare la rivista come una macchina da guerra contro le opinioni comuni»21. Basta scorrere le due annate della rivista, per rendersi conto dello ‘strano amalgama’ che si produce sulle sue pagine: riproduzioni di opere d’indiscusso valore artistico e austeri testi scientifici sfilano accanto alle cose più bizzarre, scabrose e raccapriccianti; un disegno di Delacroix può trovarsi a poche pagine di distanza dagli orrendi ex-voto di Notre Dame de Liesse, un paesaggio di Constable può annunciare le foto di un incidente stradale. Non esistono insomma oggetti degni e oggetti indegni di essere studiati, né saperi legittimi e saperi illegittimi attraverso cui studiarli, né linguaggi qualificati e linguaggi squalificati attraverso cui trattarli. “Documents” è lo spazio in cui si manifestano strani assemblaggi, minestroni informi, blob che, a causa dell’accostamento di materiali eterogenei, possono elettrizzare il pensiero. Come sono realizzati concretamente questi assemblaggi? Si tratta, in primo luogo, di sospendere il giudizio estetico sulle immagini, ossia di operare un’epoché rispetto al loro valore statutario. Rimettendo in discussione il tradizionale sistema di opposizioni binarie – bello/brutto, artistico/non artistico, nobile/triviale ecc. – che predetermina il modo di rapportarsi a esse, le immagini sono riconsegnate alla loro materialità fisica e storica. Si tratta, dunque, di un gesto che abbassa, che livella le immagini riconoscendo loro unicamente lo statuto orizzontale di ‘documenti’. Questo consente di «aprire il gioco delle forme ad ambiti fino allora trascurati, disprezzati»22. Insomma, non c’è l’Arte, da un lato, e la spazzatura o il semplice folklore, dall’altro. Nella stessa sequenza si possono trovare un’opera di Botticelli e una maschera africana, un quadro di Picasso e le foto di un cadavere pubblicate su un quotidiano. L’abbassamento e il livellamento delle immagini creano, così, la possibilità di mettere in rapporto materiali eterogenei. Oggetti considerati di solito ‘alti’ si trovano improvvisamente a coesistere con oggetti ritenuti ‘bassi’. Oggetti della storia dell’arte stanno accanto a documenti etnografici o d’attualità, come se, d’un tratto, gli steccati accademico-disciplinari fossero stati aboliti o neutralizzati 23 . In tal modo, inscritti nel medesimo piano d’immanenza (il tavolo di lavoro del ricercatore), questi materiali, saperi e linguaggi danno luogo a montaggi inattesi, impensabili, al limite ‘impossibili’; montaggi in grado di produrre shock pensanti (a causa della loro capacità di sospendere il senso e di far emergere delle domande) o poetici (a causa della loro capacità di dischiudere nuovi orizzonti di senso), o entrambe le cose insieme. Sospensione del giudizio, abbassamento e livellamento, montaggio: nel caso di Bataille, tutta quest’operatività si riassume e si pone sotto il segno dell’informe. Il termine appare in un breve testo omonimo, pubblicato nell’ultimo numero della prima annata di

M. Leiris, De Bataille l’impossible à l’impossible “Documents”, in AA.VV., Hommage à Georges Bataille, “Critique”, 195-196/1963, pp. 688-689. 22 G. Didi-Huberman, La ressemblance informe, ou le Gai Savoir visuel selon Georges Bataille, Macula, Paris, 1995, p. 381. A questo proposito, l’autore avvicina la straordinaria manipolazione di testi e immagini realizzata da Bataille in “Documents”, all’Atlante della memoria (Bilderatlas Mnemosyne) di Aby Warburg, realizzato negli stessi anni: questo celebre progetto, rimasto incompiuto, fu reso pubblico per la prima volta il 19 gennaio 1929, durante una conferenza tenuta dallo studioso tedesco presso la Biblioteca Hertziana di Roma (A. Warburg, Mnemosyne. L’atlante delle immagini, Aragno, Torino, 2002). 23 Cfr. J. Clifford, Sul surrealismo etnografico, in Id., I frutti impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX. L’autore sviluppa un’interessante analisi sul rapporto tra etnografia e surrealismo in Francia tra le due guerre: in entrambi i casi, la «realtà è posta radicalmente in questione» (p. 146). In particolare, Clifford pone l’accento sul duraturo intreccio della riflessione di Bataille con la ricerca etnografica, per poi focalizzarsi sulla rivista “Documents”, considerata come «una sorta di esposizione etnografica d’immagini, testi, oggetti, etichette, un divertito museo che raccoglie e, nello stesso tempo, riclassifica i suoi esemplari»; un ‘bizzarro museo’ che «si limita a documentare, giustapporre, relativizzare» (p. 159 e 161). Ringraziamo Alessandro Manna per averci segnalato questo riferimento. 123 21

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“Documents”. Si presenta come una voce del Dizionario critico, che costituiva una sorta di rubrica fissa della rivista. Il Dizionario di “Documents” resta uno dei gesti più efficaci di sabotaggio di Bataille contro il mondo accademico e lo spirito di sistema. Questo sabotaggio trae la sua efficacia dal contrasto tra l’astuzia formale – l’impiego della ‘forma dizionario’ stessa, che è uno dei simboli più usati e più convenzionali dell’idea di totalità – e l’effetto sorpresa24.

Non si può sabotare da lontano. Non si tratta, infatti, solo di una questione di contenuti o di tono. L’informe non significa semplicemente parlare di piedi, fiori putridi, ragni, mosche, polvere, sputi ecc., né di essere banalmente triviali. Significa invece rinunciare alla distanza di sicurezza ‘teorica’. Significa implicarsi in ciò di cui si parla, mettersi in discussione attraverso ciò di cui si discute. Nel momento in cui parlo d’informe, corro il rischio di partecipare all’informe di cui sto parlando. Mi metto, per così dire, alla prova dell’informe25. Affermare il ‘basso materialismo’ significa abbassarsi nel momento stesso in cui se ne parla. I testi di Bataille, e più in generale le pagine di “Documents”, sono pieni di slittamenti, lapsus, cadute, tagli nel flusso omogeneo della scrittura saggistica; ‘macchie d’inchiostro’ o ‘stecche’, per riprendere i termini usati dallo stesso Bataille, nel già ricordato Linguaggio dei fiori26. Il Dizionario, nel suo complesso, funziona come una ‘grande stecca’: promette quello che non intende mantenere. L’ordine, l’uniformità, la completezza, che in teoria un dizionario dovrebbe garantire, sono puntualmente disattesi: non è pensato come una totalità, è scritto a più voci, non esclude la ridondanza, e i suoi articoli non compaiono nemmeno in ordine alfabetico. E in questo «superlativo disordine»27, a un certo punto, Bataille scrive una voce chiamata appunto ‘Informe’. INFORME – Un dizionario comincerebbe dal momento in cui non fornisse più il senso, ma i compiti (besognes) delle parole. Così informe non è solo un aggettivo dotato di un particolare senso, ma un termine che serve a declassare, esigendo in generale che ogni cosa abbia la sua forma. Ciò che designa non possiede alcun diritto proprio e ovunque si fa schiacciare come un ragno o un verme di terra. Per far contenti gli uomini accademici, sarebbe, infatti, necessario che l’universo prendesse forma. L’intera filosofia non ha altro scopo: mettere una redingote a ciò che è, una redingote matematica. Affermare al contrario che l’universo non somiglia a niente ed è solo informe, equivale a dire che l’universo è qualcosa come un ragno o uno sputo28.

Y.A. Bois, R, Krauss, L’informe. Istruzioni per l’uso, cit., p. 5. «L’articolo Sputo [voce del Dizionario redatta da M. Griaule e M. Leiris], facendo ciò che dice, deve diventare esso stesso un’eiaculazione sacrilega. Quando l’etnologo parla di sputo, deve scioccare come se sputasse davvero. […] Nel momento in cui il sapere etnografico, in nome del “né alto né basso”, pretende di appropriarsi del basso, gli capita qualcosa. Si sporca al contatto con l’oggetto. Se ne lascia contaminare. L’oggetto non mantiene la sua distanza, abbandona il suo riserbo, si dimentica sulla pagina che parla di lui. Dico un fiore – e lui accade. Le cose succedono nel luogo in cui sono raccontate. On the spot» (D. Hollier, La valeur d’usage de l’impossible, cit., pp. XVI-XVII). 26 In un saggio su Bataille (G. Bataille, Le gros orteil & R. Barthes, Les sorties du texte, Farrago, Tours, 2006), Barthes distingue l’écriture dall’écrivance (che «censura di solito il lavoro di ciò che, nella lingua, è al tempo stesso il suo centro ponderante e il suo eccesso; avete mai visto una metafora in uno studio sociologico o in un articolo di Le Monde?», p. 50) –; e quindi tra le ‘parole-valore’ e le ‘parole-sapere’ (per es., l’espressione di Bataille la saleté la plus écœurante «non sarebbe tollerata da nessun discorso “scientifico”», p. 61). Barthes riconduce quest’intrusione del ‘valore’ nel discorso del sapere – attraverso il lavoro di scrittura, attraverso ‘l’apparato terminologico’ delle parole-valore (p. 64) – all’implicazione attiva del soggetto («il per-me nietzschiano», ibidem) in quello che dice. 27 Y.A. Bois, R, Krauss, L’informe. Istruzioni per l’uso, cit., p. 10. 28 G. Bataille, ‘Informe’, in Id., “Documents”, cit., p. 165. Pubblicato alla fine del Dizionario, nel n. 7/dicembre 1929. 124 24 25

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La collocazione periferica, la brevità, la mancanza di enfasi, il tono quasi dimesso con cui il testo è presentato, non devono trarre in inganno. A causa del suo carattere, al tempo stesso, riflessivo e performativo, ossia del fatto che il pensiero è qui associato a un gesto dal quale non può distinguersi, la voce ‘Informe’ del Dizionario di “Documents” custodisce un segreto che agirà tanto più intensamente e in profondità, quanto più resisterà a rivelare il proprio senso (filosofico). Incarnandosi in un gesto, il pensiero acquista una certa materialità: un peso, una densità, un’opacità. Che cosa fa, dunque, Bataille in e con questo testo? In primo luogo, denuncia la funzione oppressiva del termine informe, grazie al quale è posta in generale l’esigenza che ogni cosa abbia la sua forma (è «un termine che serve a declassare»; «ciò che designa non possiede alcun diritto proprio e ovunque si fa schiacciare come un ragno o un verme di terra»). Tuttavia, nel provare a emancipare quello che, attraverso tale termine, si fa opprimere e calpestare sistematicamente, Bataille finisce per ‘qualificare’ il mondo in generale attraverso lo stesso termine informe («affermare al contrario che l’universo non somiglia a niente ed è solo informe, equivale a dire che l’universo è qualcosa come un ragno o uno sputo»), usato di solito per ‘squalificare’ questo o quell’aspetto del mondo stesso (usato per produrre l’immondo del/dal mondo). È come se dicesse: ‘Sì, il mondo è informe, ma (proprio per questo) non si può usare il termine informe per squalificare tutto quello che appartiene al mondo, nemmeno un ragno o uno sputo’. Semplice paradosso? In realtà, Bataille sembra rigiocare l’informe, facendolo passare da una funzione squalificante a una funzione qualificante, o meglio, raddoppiando la sua funzione, mostrando la biforcazione e la divaricazione esistenti fra queste due possibilità coestensive. «La terra è bassa, il mondo è mondo», scriverà in uno dei testi teoricamente più espliciti ed elaborati della sua polemica con Breton29. Eppure, in questo – quasi tautologico – essere basso o informe del mondo, si annida anche la chance di una differenza, o meglio, di un ‘differenziale’: nient’altro che la posta in gioco della proposta (‘filosofica’) di un basso materialismo e dell’operatività informe attraverso cui provare a praticarla. Non si tratterà insomma di liberarsi dall’informe, ma di liberare l’informe stesso, di liberarsi nell’informe e attraverso di esso. Il problema non è negare o abolire l’informe – il carattere bassamente finito (tragico) dell’esperienza umana – ma, al contrario, nietzschianamente, affermarlo e rivendicarlo in modo attivo. Come abbiamo detto, la sfida del pensiero novecentesco potrebbe consistere nel tentativo di andare oltre il semplice platonismo rovesciato, attraverso un pensiero della differenza o, per meglio dire, di un pensiero (del) ‘differenziale’30. In tal senso, il segreto del testo ‘Informe’ potrebbe essere precisamente il pensiero-gesto attraverso cui Bataille prova ad andare oltre l’inversione della gerarchia metafisica tra il sensibile e il G. Bataille, La vieille taupe et le préfixe sur dans les mots surhomme et surréaliste, in Id., Œuvres complètes, 12 voll., Gallimard, Paris, 1970-1988, vol. II, Dossier de la polémique avec André Breton, p. 108. 30 La metafisica è un sistema di opposizioni duali organizzate gerarchicamente. Pur producendo ‘differenza’, il discorso metafisico pregiudica il senso e chiude l’orizzonte del possibile. Superare la metafisica, secondo Derrida, significa operare un ‘doppio gesto’: rovesciare le gerarchie e, al tempo stesso, operare uno spostamento che disorganizzi l’intero sistema. Non ci si può, insomma, limitare a rovesciare l’idealismo, giacché la metafisica può ripresentarsi nella forma di un idealismo rovesciato (per es. di un ‘materialismo metafisico’). Per smarcarsi dalla ‘differenza’ hegeliana – il cui idealismo consiste nel ‘rilevare’ (aufheben) le opposizioni binarie dell’idealismo classico, risolvendone le contraddizioni in una sintesi superiore –, Derrida conia il termine différance: la produzione di ‘differenziale’ è affidata alla disseminazione, nel discorso metafisico, di ibridi ‘indecidibili’ come pharmakon («né il rimedio né il veleno, né il bene né il male, né il dentro né il fuori, né la parola né la scrittura»), o supplemento («né un più né un meno, né un fuori né il complemento di un dentro, né un accidente né un’essenza»). Questi indecidibili «non si lasciano più comprendere nell’opposizione metafisica (binaria) e tuttavia la abitano, le resistono, la disorganizzano, senza però mai costituire un terzo termine, cioè senza mai dar luogo a una soluzione nella forma della dialettica speculativa» (J. Derrida, Posizioni, in Id., Posizioni. Scene, atti, figure della disseminazione, a cura di G. Sertoli, ombre corte, Verona, 1999, pp. 47-117) . 125 29

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soprasensibile, operata da Nietzsche, Marx e Freud, come orizzonte propriamente moderno della metafisica, come compimento della metafisica stessa. Per analizzare questo tentativo, sarebbe necessaria un’analisi dettagliata dei testi pubblicati da Bataille su “Documents”, che vanno visti come altrettante performance: il pensiero alla base dell’esigenza di andare oltre il platonismo rovesciato fa tutt’uno con il gesto che l’accompagna e in cui s’incarna. Ci limiteremo qui a tratteggiare lo schema dell’operazione batailliana, analizzando il testo intitolato Le gros orteil31. Bataille rovescia subito la gerarchia che squalifica il piede: «L’alluce è la parte più umana del corpo umano». Il piede è l’organo che si differenzia maggiormente da quello corrispondente delle scimmie antropoidi, e che fa sì che l’uomo si elevi «dritto nell’aria come un albero». Nonostante il ruolo che il piede svolge, «l’uomo, che ha la testa leggera, cioè elevata verso il cielo e le cose del cielo, lo guarda come uno sputo, con il pretesto che questo piede giace nel fango». L’affermazione iniziale diventa, quindi, contestazione del trattamento che il piede subisce a causa del fatto di stare in basso, e della gerarchia che organizza il rapporto tra alto e basso. In altri termini, Bataille denuncia implicitamente che il piede sia marcato come ‘informe’, nella misura in cui, come si legge nell’omonima voce del Dizionario, l’informe serve a declassare ciò che designa (a togliergli ogni diritto e a farlo schiacciare ovunque come un ragno o uno sputo). Tuttavia, questo primo gesto non basta, per la semplice ragione che il binarismo metafisico continua a funzionare. Nella fattispecie, l’opposizione alto/basso è ciò che, attraverso la sua gerarchia, pregiudica il senso del corpo umano e, più in generale, dell’essere umano: «benché all’interno del corpo il sangue scorra in eguale quantità dall’alto in basso e dal basso in alto, il favore va a ciò che si eleva, e la vita umana è erroneamente considerata come un’elevazione». Mutuando dalla metafisica gnostica un dualismo radicale 32 , Bataille vede nelle opposizioni della metafisica classica – vero/falso, bene/male, giusto/ingiusto ecc. – le espressioni di un monismo travestito da dualismo. Per principio, ossia a causa della stessa organizzazione gerarchica delle opposizioni, il primo termine sarà sempre precedente e superiore rispetto al secondo, in base a un privilegio di carattere ‘ontologico’ (proprio come nell’idealismo platonico, dove la realtà sarà sempre e solo una copia degradata dell’idea). Nell’opposizione alto/basso, Bataille individua, invece, un dualismo irriducibile, una partita nella quale non si sa mai in anticipo, né in modo definitivo, chi vincerà e chi perderà. Nonostante la sua subordinazione, il basso non smetterà mai di opporsi all’alto, di resistergli e di sfidarlo. L’alto e il basso sono inconciliabili, sia attraverso la composizione monistica della metafisica classica, sia attraverso la sintesi superiore della dialettica hegeliana. Ed è proprio in questa divaricazione, in questa ferita (ontologica) che risiede la chance di liberare un differenziale etico-politico e, quindi, di qualificare l’esperienza umana sul piano dell’immanenza storica. Ma, appunto, la denuncia non basta. Il binarismo metafisico, con le sue gerarchie, pregiudica costantemente il senso. Come tornare alle cose stesse? Come compiere una sospensione del giudizio – quel giudizio che ci fa pensare il nostro corpo, la nostra vita come un movimento di «elevazione senza ritorno verso lo spazio puro»? Come realizzare un’epoché, in grado di neutralizzare i giudizi di valore che, declassando e subordinando per principio ciò che è basso, impediscono che la partita si giochi, e che il senso sia una posta G. Bataille, L’alluce, in Id., Documents, cit., pp. 75-84. Inoltre, Bataille potrebbe mutuare da Nietzsche, in particolare dal suo stile di ricerca genealogico, l’opposizione alto/basso in quando fonte di una carica differenziale: «Genealogia vuol dire dunque origine e nascita, ma anche differenza o distanza nell’origine. Genealogia vuol dire nobiltà e bassezza, nobiltà e viltà, nobiltà e decadenza nell’origine. Il nobile e il vile, l’alto e il basso: questo è l’elemento propriamente genealogico o critico». Secondo Deleuze, infatti, «il problema critico sta nel valore dei valori, nella valutazione dalla quale deriva il loro valore; è il problema della loro creazione. La valutazione si profila quale elemento differenziale dei valori ad essa corrispondenti: elemento critico e creativo al tempo stesso». G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino, 2002, p. 5 e 3. 126 31

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in gioco di questa partita? Per realizzare tale sospensione, Bataille fa slittare il discorso su un terreno ‘etnologico’33. Dopo aver mostrato, attraverso alcuni esempi (i Turchi del Volga e dell’Asia centrale, i Cinesi, gli antichi Romani), l’arbitrarietà della discriminazione di cui i piedi sono vittime, introduce un elemento che si rivelerà decisivo: l’episodio del conte di Villamediana. Innamorato della regina Elisabetta, l’uomo avrebbe provocato un incendio per correre in suo aiuto e fare in modo di rubarle alcuni favori, tra cui quello di toccarle il piede (cosa che avrebbe scatenato la terribile vendetta del re). Se l’operazione di Bataille si riducesse al primo gesto, finirebbe per sfociare, o per esaurirsi, in un’idealizzazione del piede (del basso), cioè in una semplice inversione dei valori: la verità dell’uomo non sta nella sua testa, in alto, ma nei suoi piedi, in basso (pensiamo alla ‘rescendenza’ di Heidegger o al ‘materialismo metafisico’ di Derrida), con tutte le conseguenze, anche o prima di tutto ‘politiche’, che questa estrema riproduzione del binarismo metafisico può comportare 34 . Come qualificare il piede (il basso) senza idealizzarlo? Come far emergere una biforcazione rispetto al semplice platonismo rovesciato? Il caso del ‘piede della regina’ è fondamentale, giacché consente di divaricare al massimo la polarità alto/basso, e di mantenere i due poli in una separazione parossistica: «Essendo a priori una regina l’essere più ideale, più etereo di qualsiasi altro, era umano fino allo strazio toccare di lei ciò che non differiva molto dal piede fumante di un soldataccio. In questo caso, si subisce una seduzione che si oppone radicalmente a quella causata dalla luce e dalla bellezza ideale». Insomma, in nessun caso come in quello di una regina, i piedi si presenteranno come la parte più umana del corpo umano. Lo saranno in modo iperbolico: più l’alto si manifesterà come alto, più il basso si manifesterà come basso. Solo che, a questo punto, il basso ha cominciato a sfuggire all’opposizione gerarchica, e a far fuggire tutto il sistema delle opposizioni gerarchiche (sia nella forma classica, sia in quella moderna, rovesciata)35. La bassezza del piede, la sua ‘ignominia’, ci fa ridere, perché il piede è «analogo, psicologicamente, alla caduta brutale di un uomo, cioè alla morte». Possiamo disprezzare quanto vogliamo i piedi, con la scusa che stanno in basso, che giacciono nel fango; resta che ci fanno ridere, e che questo riso è direttamente collegato con la nostra bassezza, con la nostra radicale finitezza. Possiamo desiderare quanto vogliamo di elevarci nello spazio puro; resta che è l’estrema caduta terrestre, cioè la morte stessa, a farci morire dal ridere. Inoltre, il carattere ‘burlesco’ del piede dipende dall’‘estrema seduzione’ che esercita su di noi. La bassezza ci fa ridere, perché – a modo suo ma irresistibilmente – ci seduce: Benché ci sia in un alluce un elemento seducente, è evidente che non vale a soddisfare un’aspirazione elevata, per esempio il gusto perfettamente indelebile che, nella maggior parte dei casi, porta a preferire le forme eleganti e corrette. Al contrario, se si sceglie per esempio il caso del conte di Villamediana, si può affermare che il piacere che provò nel toccare il piede Barthes insiste molto sull’importanza di questo registro ‘etnologizzante’ nel testo di Bataille (Les sorties du texte, cit.). 34 Il fascismo è una nobilitazione della feccia (eterogeneo) nelle figure gloriose del Duce e del Führer (omogeneo), come modelli (rescendenti) dell’uomo nuovo che dev’essere plasmato (cfr. G. Bataille, La struttura psicologica del fascismo, in Id., Scritti sul fascismo 1933-34, a cura di G. Bianco e S. Geroulanos, Mimesis, Milano, 2010). E questa è la contraffazione metafisica del fascismo, o la contraffazione del fascismo come metafisica (cfr. P. Di Vittorio, G. Bataille, Documents 1929-30: l’Informe contro l’Uniforme, in P. Di Vittorio et al., L’uniforme e l’anima, cit., pp. 27-52; in particolare, il paragrafo Modernità e metafisica fascista). Pur non avendo nessuna contiguità culturale e politica con il fascismo, il surrealismo cade in una contraffazione analoga: «Tutte le rivendicazioni delle parti basse sono oltraggiosamente travestite da rivendicazioni delle parti alte» (G. Bataille, La vieille taupe, cit., p. 103). 35 La ligne de fuite è l’invenzione-scoperta di una possibilità pratica, grazie alla quale «far fuggire» un sistema di opposizioni dicotomiche, di «alternative» che chiudono l’orizzonte del possibile, che istituiscono «il regno assoluto (…) dell’alternativa stessa come legge del possibile» (F. Zourabichvili, Ligne de fuite (et mineur-majeur), in Id., Le vocabulaire de Deleuze, Ellipses, Paris, 2004, p. 43). 127 33

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della regina era direttamente connesso con la bruttezza e il carattere infetto rappresentati dalla bassezza del piede, in pratica dai piedi più deformi. Così, anche supponendo che il piede della regina fosse stato perfettamente grazioso, è tuttavia ai piedi deformi e fangosi che doveva il suo fascino sacrilego.

Possiamo declassare, subordinare, sottomettere, opprimere i piedi quanto vogliamo, con la scusa che sono bassi; resta che essi ci seducono, e che questa ‘bassa seduzione’ è capace di opporsi, di resistere, di sfidare costantemente quella ‘alta’, suscitata dalla luce e dalla bellezza ideali. In tal senso, l’alluce (l’informe) funziona come un ibrido indecidibile, una linea di fuga che libera una carica differenziale: non è un semplice neutro, tanto meno è un miscuglio omogeneizzante, ma è quel né (semplicemente) nobile né (semplicemente) ignobile che introduce un’alterità radicale, o un divenire-altro, rispetto agli opposti metafisici che ‘pregiudicano’ l’apertura di un possibile e la possibilità di un senso36. Inoltre, solo restando quello che è, ossia qualcosa di radicalmente basso, l’alluce può acquistare e conservare la sua ‘qualità’ etico-politica, nella misura in cui tale qualità dipenderà, appunto, dalla possibilità di opporsi, di resistere, di sfidare l’alto (sia sul piano soggettivo, cioè etico, sia su quello collettivo, cioè politico). Il ‘valore’ del basso non si riduce, quindi, al semplice rovesciamento dei valori – se il basso si sublimasse o s’idealizzasse (se il sensibile diventasse il mondo vero), verrebbe meno la sua forza di contestazione dell’alto, vale a dire ciò stesso che gli dà valore, che lo qualifica –; ma consiste unicamente nel differenziale etico-politico che è capace di liberare: è grazie al basso che nell’essere si apre la ferita che rende possibile un possibile; che l’esperienza umana diventa il terreno di una partita mai decisa; che il senso diventa una scommessa in tale partita. L’esperienza umana può qualificarsi senza fuoriuscire, anzi nella misura stessa in cui non fuoriesce, dal piano d’immanenza etico-politico: è questo che il basso materialismo di Bataille, attraverso le sue performance informi, prova ad affermare e a dimostrare. Il senso di quest’articolo – conclude Bataille – sta nell’insistenza a mettere direttamente ed esplicitamente in discussione quello che seduce, senza tener conto della cucina poetica che in definitiva è solo uno spostamento (détournement) (la maggior parte degli esseri umani sono naturalmente deboli e possono abbandonarsi ai loro istinti solo nella penombra poetica). Un ritorno alla realtà non implica nessuna accettazione nuova, ma significa che siamo sedotti bassamente, senza trasposizione e fino a urlare, spalancando gli occhi: spalancandoli così davanti a un alluce.

L’articolo termina con uno strano ‘fuori testo’, che ha tutto l’aspetto di un’‘avvertenza’ per il lettore, se non fosse, appunto, che è posto alla fine e non all’inizio dell’articolo. In realtà, questa stranezza ha una spiegazione: il ‘ritorno alla realtà’ di cui parla Bataille (il ‘ritorno alle cose stesse’, direbbe Husserl), è anche, o forse soprattutto, l’esperienza fisica diretta che le foto di alluci presenti nell’articolo inducono a fare. È come se Bataille, attraverso la sua scrittura, avesse accompagnato il lettore in un percorso iniziatico, per metterlo nelle condizioni di spogliarsi dei suoi pregiudizi e di mettersi così alla prova di una nuova ‘esperienza’ della realtà. Ed è come se, alla fine di questo percorso, Bataille prendesse per mano il lettore e lo invitasse a guardare le foto di Boiffard: «Adesso sei pronto: sgrana gli occhi e dimmi ciò che vedi, ciò che senti!»37. Questo dimostra, tra l’altro, come gli articoli di Bataille, e la rivista “Documents” nel suo complesso, siano sempre ‘Informe’ è anche il termine collettivo per designare una serie di ‘realtà basse’ – piedi, polvere, sputo, ragni, mosche, fiori e soli putridi, certe espressioni artistiche (monete galliche, divinità gnostiche, Picasso, Dalì) ecc. – che nel testo di Bataille funzionano come specifici indecidibili: linee di fuga che sprigionano una carica differenziale. 37 C. Chéroux, D. Amao (a cura di), J.A. Boiffard, la parenthèse surréaliste, Galerie de photographies, Centre Georges Pompidou, Paris 5.11.2014-2.2.2015 (catalogo: éditions Xavier Barral, Paris, 2014, Paris). 38 F. Dosse, Gilles Deleuze, Félix Guattari. Biographie croisée, La Découverte, Paris, 2007, p. 117. 128 36

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pensati come un montaggio di testi e immagini, e come queste ultime, in particolare quelle fotografiche, lungi dal ridursi a un mero sussidio decorativo o didascalico, occupino un posto di primo piano, in quel ‘ritorno alla realtà’ di cui il basso materialismo intende farsi l’artefice. Bataille oppone polemicamente il ‘ritorno alla realtà’ alla ‘cucina poetica’: il surrealismo usa materiali bassi e infetti – la follia, l’inconscio, l’erotismo, Sade, l’agitazione proletaria ecc. – ma poi li traspone in salse ideali. In tal senso, la trasposizione surrealista può essere considerata come una forma di platonismo rovesciato: la metafisica sopravvive nel momento in cui la realtà è trasposta-sublimata a partire, e senza fuoriuscire, dal piano della sua immanenza radicale. Un’idealizzazione del e dal basso. Alla fine del nostro articolo, proveremo a considerare se e come un ritorno alla realtà sia oggi possibile, dinanzi a quell’estrema forma di sopravvivenza della metafisica che è il reality come perfetta fusione della realtà e del suo spettacolo. 3) Breve introduzione al divenire-attivo Parigi, 1943-44. La capitale francese è occupata dai nazisti. Deleuze è provato dalla perdita del fratello maggiore, catturato dai tedeschi per aver aderito alla Resistenza e deceduto durante il trasferimento a Buchenwald, al punto da decidere di non arruolarsi con i partigiani. In questi mesi, partecipa con l’amico Maurice de Gandillac a vari salotti letterari e filosofici, tra cui quello che si svolge a casa di Marcel Moré. Lo stesso Gandillac ricorderà la grande dimestichezza con cui il giovane liceale si districava tra i testi di Klossowski e Nietzsche. François Dosse riporta a questo proposito la cronaca dell’incontro del 5 marzo 1944, nel quale si discute di ‘Male e peccato’ a partire dall’opera di Georges Bataille, e dove sono presenti, tra gli altri, Alexandre Kojéve, Roger Caillois, Pierre Klossowski, Jean Hyppolite, Jean-Paul Sartre e lo stesso Bataille 38. In questo periodo, Deleuze anima inoltre con alcuni amici, tra cui Michel Tournier, un piccolo gruppo di giovani studiosi che sostengono la stessa concezione non accademica della filosofia. L’attività del gruppo troverà riscontro nell’unico numero pubblicato della rivista “Espace”, che tradisce inequivocabilmente la sua ispirazione bataillana: sulla copertina è, infatti, raffigurata l’immagine di una tazza del water, cui fa da eco il titolo di sartriana memoria «Un paysage est un état d’âme»39. Senza dubbio, Deleuze condivide con Bataille il riferimento a Nietzsche. Nell’immediato Dopoguerra, fu uno dei principali protagonisti della Nietzsche-Renaissance: un diffuso movimento che cercava, in primo luogo, di strappare Nietzsche alla strumentalizzazione nazista, tentativo inaugurato dallo stesso Bataille negli anni ’30: «i valori nietzscheani, in rapporto ai valori nazisti, si collocano nell’insieme al polo opposto» 40 . Nel 1946, si costituisce la “Société française d’études nietzschéennes”, e qualche anno dopo prende avvio l’edizione delle Opere complete, sotto la direzione di Deleuze e Gandillac. Nel 1967, Deleuze firmerà con Foucault l’introduzione generale alle Opere complete: l’edizione francese si pone in stretta continuità con l’operazione di Colli e Montinari, il cui primo F. Dosse, Gilles Deleuze, Félix Guattari. Biographie croisée, La Découverte, Paris, 2007, p. 117. Nel 1925-26, Bataille scrive un racconto dal titolo W.C., poi distrutto (cfr. M. Surya, G. Bataille. La mort à l’œuvre, Gallimard, Paris, 1992, pp. 111-113). Nulla permette, tuttavia, di ritenere che Deleuze e il suo gruppo fossero a conoscenza di questo racconto. 40 G. Bataille, Nietzsche e il nazionalsocialismo, pubblicato come Appendice in G. Bataille, Su Nietzsche, SE, Milano, 1994, p. 198. Originariamente in Acéphale (2/1937), numero significativamente intitolato Nietzsche et les fascistes. Une réparation. In questo intervento, Bataille si sofferma sulla sensibilità antiborghese di Nietzsche e sulla sua fascinazione per la forza corporea. Questi elementi, insieme all’idea di emancipazione dalle morali del passato, rendevano il filosofo tedesco ‘appetibile’ per le mistificazioni naziste, le quali ignoravano altri aspetti fondamentali del suo pensiero: la discendenza dai Greci (in antitesi rispetto all’origine militaresca del Reich); l’esaltazione del dionisiaco; il rifiuto del concetto di patria e del pangermanismo; la distanza abissale dall’antisemitismo e dalle forme di razzismo. 129 38 39

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obiettivo è di emendare la lettura di Nietzsche dalle falsificazioni operate dalla sorella Elizabeth. Scorrendo le pagine di Logica del Senso, si scopre, tuttavia, che Deleuze, a un certo punto, si è soffermato sulla nozione d’‘informe’. Nella Quindicesima serie, intitolata Sulle singolarità, individua un punto di contatto tra la metafisica e la filosofia trascendentale nel fatto che, in entrambi i casi, il discorso prende le mosse da un’alternativa fondamentale: da un lato, c’è «un fondo indifferenziato, senza forma, abisso senza differenze e senza proprietà»; dall’altro, c’è invece «un Essere sovranamente individuato, una Forma fortemente personalizzata». Al di fuori di questo Essere e di questa Forma, è come se il pensiero fosse colto da un perdurante senso di vertigine. La storia del pensiero sembra essere, dunque, caratterizzata da una sorta di turbamento, basato sul principio che, nel momento in cui si fuoriesce dall’orbita dell’Essere e della Forma, ci si potrà imbattere solo nel Caos, considerato nella sua accezione peggiorativa e minacciosa. È come se la metafisica e la filosofia trascendentale si fossero accordate nel non concepire «singolarità determinabili, se non già prigioniere in un io supremo o in un Io superiore». Nell’illustrare questa dicotomia, Deleuze sostiene che è inevitabile che la metafisica determini «questo io [moi] supremo come ciò che caratterizza un Essere infinitamente e completamente determinato dal suo concetto, e perciò stesso in possesso di tutta la realtà originaria». L’Essere è necessariamente individuato, poiché rigetta nel non-essere o nell’abisso del senza-fondo ogni predicato e ogni proprietà che non esprimesse nulla di reale e delega alle sue creature, cioè alle individualità finite, la cura di ricevere i predicati derivati che esprimono soltanto realtà determinate. All’altro polo c’è la filosofia trascendentale che sceglie la forma sintetica finita della Persona piuttosto che l’essere analitico e finito dell’individuo; e gli sembra naturale determinare questo Io superiore dalla parte dell’uomo, operare la grande permutazione Uomo-Dio di cui la filosofia si è soddisfatta così a lungo. L’Io [Je] è coestensivo alla rappresentazione così come prima l’individuo era coestensivo all’essere.

Deleuze aggiunge poi una considerazione, che è una sorta d’illuminazione; egli si ‘sbilancia’, per così dire, affermando che «furono sempre momenti straordinari quelli in cui la filosofia fece parlare il suo Senza-fondo e trovò il linguaggio mistico del suo corruccio, della sua informità, della sua cecità: Böhme, Schelling, Schopenhauer». E prosegue il suo ragionamento, sostenendo che grande merito ebbe Nietzsche quando, nella prima fase del suo pensiero, senza nascondere l’influenza di Schopenhauer sulla Nascita della tragedia, fece parlare Dioniso senza-fondo, opponendolo sia all’individuazione divina di Apollo, sia alla persona umana di Socrate. In questo passaggio, Deleuze pone implicitamente la domanda: ‘chi fa’ filosofia? Qual è lo statuto del soggetto del discorso filosofico e che cosa implica? Si può filosofare ‘giocando’ con l’informe? A meno di far parlare il fondo informe o l’abisso indifferenziato, con tutta la sua ebbrezza e la sua collera, sembra che non sia possibile sfuggire all’alternativa imposta dalla filosofia trascendentale (e dalla metafisica): al di fuori della persona e dell’individuo, non distinguerete nulla! Nietzsche prova a uscire da questa situazione di stallo e, dopo essersi sbarazzato di Schopenhauer e Wagner, fa una scoperta straordinaria, che libererà il pensiero dalla dialettica e, al tempo stesso, consentirà di mettere qualche passo oltre il semplice platonismo rovesciato. Nietzsche esplora, infatti, un mondo di singolarità impersonali e preindividuali, un mondo che chiama dionisiaco o della volontà di potenza, nel quale fluisce energia libera, non incatenata. A popolare questo mondo sono delle singolarità erratiche, non più imprigionate nell’individualità fissa dell’Essere infinito (la famosa immutabilità di Dio), né entro i limiti sedentari del soggetto finito (i famosi limiti della conoscenza). In Logica del Senso, Deleuze si riconosce nella postura di Nietzsche ed elabora il concetto di singolarità nomade. 130

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Qualcosa che non è né individuale né personale, e che nondimeno è singolare, per nulla abisso indifferenziato, ma che però salta da una singolarità all’altra, che sempre emette un lancio di dadi, che fa parte di uno stesso lancio, sempre frammentato e riformato in ogni lancio. Macchina dionisiaca per produrre il senso, e in cui il non senso e il senso non sono più in opposizione semplice, ma compresenti l’uno con l’altro in un nuovo discorso.

Si delinea un nuovo discorso che, precisa Deleuze, non è più quello della forma né quello dell’informe: è piuttosto quello dell’informale ‘puro’. Che cosa accade allora? Deleuze riconosce l’importanza dell’informe e poi lo rifiuta? A prima vista parrebbe di sì, ma in realtà sembrerebbe più corretto dire che egli coglie il valore d’uso di questa nozione, giacché gli permette di elaborare la seguente riflessione: «questa singolarità libera, anonima e nomade che percorre sia gli uomini, sia le piante, sia gli animali, indipendentemente dalle materie della loro individuazione e dalle forme della loro personalità, popola l’informe, descrive delle traiettorie». Dinanzi a Nietzsche, secondo Deleuze, il lettore sembra trovarsi di fronte a un grande compito, il più profondo, grandioso, ma anche pericoloso, e che fu fatale al filosofo tedesco: «un nuovo modo di esplorare il fondo, di portare in sé un occhio distinto, di discernere in sé mille voci, di far parlare tutte queste voci, a rischio di essere ghermito da questa profondità che egli interpretava e popolava come essa non lo era mai stata»41. Alcuni anni prima, nel suo saggio sul numero di “Critique” dedicato a Georges Bataille (1963), Foucault poneva il problema dell’autodistruzione del soggetto filosofico ai limiti del Sapere assoluto: ricollegando direttamente Bataille a Nietzsche, si soffermava in particolare sulla «possibilità del filosofo pazzo», che si apre fatalmente allo «sbocco del linguaggio filosofico»42. Il filosofo non abita la totalità del proprio linguaggio come un dio segreto e onniparlante; egli scopre di avere accanto a sé un linguaggio che parla e di cui non è padrone […]. Al posto del soggetto parlante della filosofia – di cui nessuno dopo Platone fino a Nietzsche aveva messo in discussione l’identità evidente e ciarliera – si è scavato un vuoto, dove si lega e si snoda, si combina e si esclude una molteplicità di soggetti parlanti. Dopo le lezioni di Omero fino alle grida del pazzo nelle strade di Torino, chi dunque ha parlato questo linguaggio continuo, così ostinatamente identico? Il Viaggiatore o la sua ombra? Il filosofo o il primo dei non filosofi? Zarathustra, la sua scimmia o già il superuomo? Dioniso, il Cristo, le loro figure riconciliate, o infine proprio quest’uomo qui? Il disgregamento della soggettività filosofica, la sua dispersione all’interno di un linguaggio che la spodesta, ma che anche la moltiplica nello spazio della sua lacuna è probabilmente una delle strutture fondamentali del pensiero contemporaneo43.

Foucault descrive la parabola che ha condotto Bataille a liberarsi della dialettica: attraverso le figure nietzscheane del tragico e di Dioniso, della morte di Dio, del martello del filosofo, dell’oltre-uomo e del Ritorno, egli avrebbe messo in crisi il discorso tradizionale del filosofo e, di conseguenza, la prassi stessa del filosofare. L’effettoNietzsche è tale da far scoprire e sperimentare alla filosofia, e al suo linguaggio, una destituzione della propria ‘sovranità’, che diventa però condizione di un’apertura radicale (estatica) nei confronti dell’‘alterità’ e dell’‘eterogeneità’ delle voci, dei linguaggi, dei saperi, delle pratiche. In altri termini, sulla scorta di Nietzsche e Bataille, Foucault denuncia l’illusoria pretesa della filosofia a una qualche forma di autosufficienza, ma si guarda bene dal celebrarne la fine. La frantumazione della soggettività filosofica, la sua dispersione

G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 2005, pp. 99-101. M. Foucault, Prefazione alla trasgressione, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 66. 43 Ivi, pp. 64-65. 41

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all’interno di un linguaggio che la destituisce, non implica la fine della filosofia, ma piuttosto quella del filosofo «come forma sovrana e primaria del linguaggio filosofico». E forse, a tutti quelli che si sforzano di mantenere prima di tutto l’unità della funzione grammaticale del filosofo […] potremmo opporre l’esemplare impresa di Bataille che non ha cessato di frantumare in esso, con accanimento, la sovranità del soggetto filosofante. […] Ed è nel cuore di questa scomparsa del soggetto filosofante che il linguaggio filosofico avanza come in un labirinto, non per ritrovarlo, ma per sperimentare (attraverso il linguaggio stesso), la sua perdita, fino al limite, vale a dire fino a quell’apertura in cui il suo essere sorge ma di già perduto, completamente disperso al di fuori di se stesso, vuotato di sé fino al vuoto assoluto – apertura che è la comunicazione44.

Foucault stesso sperimenterà in prima persona questo processo di destituzione della sovranità filosofica: il grande rifiuto originario della filosofia, di cui il testo dedicato a Bataille rappresenta l’espressione più immediate ed esplicita, quasi lirica, assumerà una piega propriamente ‘etico-politica’, nel momento in cui egli accetterà di lasciarsi spossessare della propria maîtrise (filosofica), cominciando a pensare e a praticare la critica (genealogica) come ‘montaggio’ tra le ricerche erudite e i saperi della gente che lotta in territori specifici del mondo sociale (ospedali, manicomi, prigioni)45. A una conclusione molto simile giunse Deleuze quando, nel suo Nietzsche e la filosofia, contrapponendo il concetto di dionisiaco alla dialettica hegeliana, intuì come la filosofia avesse bisogno di confrontarsi con il ‘fuori’, con il ‘non-filosofico’, per operare una trasgressione rispetto alle costrizioni del negativo. Deleuze individua le «tre idee base della dialettica: il potere del negativo, principio teorico che si manifesta nell'opposizione e nella contraddizione; la valorizzazione della sofferenza e della tristezza […]; la positività quale quadro teorico e pratico della negazione». La dialettica è, quindi, una riflessione sulla differenza, che però ne capovolge l'immagine, giacché «esprime tutte le combinazioni delle forze reattive e del nichilismo, nonché la storia e l’evoluzione dei loro rapporti». All’origine di questo percorso di Nietzsche, c’è l’aver individuato, e rigettato, il risentimento e la cattiva coscienza, che egli affronta creando «un metodo drammatico, tipologico, differenziale; fa della filosofia un’arte, arte d’interpretare e di valutare». Per Deleuze, il senso della filosofia nietzschiana è, infine, l’affermazione pura che ha come oggetto il molteplice, il divenire e il caso. [...] La leggerezza affermativa si contrappone al negativo, i giochi della volontà di potenza si contrappongono al lavoro della dialettica, l’affermazione dell’affermazione si contrappone alla famosa negazione della negazione. [...] L’unica qualità della volontà di potenza sarà l’affermazione, l’unica qualità della forza sarà l’azione, mentre la potenza e il volere assumeranno l’identità creatrice del divenire-attivo46.

In altri termini, il rigetto della dialettica, oltre a mettere in crisi lo statuto del ‘filosofosovrano’, si sostanzia nel riconoscimento del dionisiaco come un performativo e, di conseguenza, nel fare della pratica filosofica una sperimentazione extra-testuale. Foucault riferisce come Bataille abbia colto l’aspetto-limite del linguaggio filosofico: forse non è propriamente quella perdita del linguaggio che la fine della dialettica sembrava indicare: è piuttosto lo sprofondamento stesso dell’esperienza filosofica nel linguaggio e la scoperta che è proprio in questo essere impaccio e nel movimento in cui esso dice ciò che non

Ivi, p. 65. Cfr. P. Di Vittorio, Oscillazioni dell’identità filosofica, cit. 46 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 291-293. 44 45

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può essere detto, che si compie un’esperienza del limite quale la filosofia, oggi, dovrà pur cominciare a pensare47.

È significativo come Félix Guattari, nel 1972, poco dopo l’esperienza di scrittura a due con Deleuze dell’Anti-Edipo e poco prima di Mille piani, riconosca questo impaccio, affermando che ‘militare è agire’ 48, a conforto dell’idea di una filosofia politica che sia anche (e soprattutto) una pratica che si sostanzia con il suo fuori. 4) Pars destruens e pars construens: dall’Anti-Edipo al Rizoma Maggio 1968. Félix Guattari è completamente rapito dai tumulti parigini: «Quand 68 éclate, j’ai l’impression de marcher au plafond» 49 . Del Maggio parigino ammira l’impressionante spontaneità e la forte vocazione antiautoritaria. Il vento del Maggio fa irruzione anche nella clinica di La Borde, dove Guattari lavora, e gli echi della cosiddetta ‘antipsichiatria’, in particolare del movimento guidato in Italia da Franco Basaglia, mettono in discussione gli equilibri della clinica, diretta da Jean Oury, insofferente nei confronti degli atteggiamenti ‘irresponsabili’ del personale50. Negli anni precedenti il 68, Guattari e la ‘sua banda’ hanno militato in numerosissimi gruppi e gruppuscoli, mentre Deleuze, che non conosceva ancora lo psichiatra, non era un militante rivoluzionario. Tuttavia, non faceva mai mancare il suo sostegno ai movimenti, rappresentando un’eccezione rispetto ai colleghi dell’Università di Lione, dove insegnava. L’incontro tra i due avviene in maniera quasi casuale, nel 1969, grazie a un’amicizia comune. In quel periodo, Guattari s’impegna in numerosi gruppuscoli politici, che non cessa di abbandonare per fondarne altri, mentre comunica al suo entourage il desiderio di scrivere, senza mai riuscirci. Tra i suoi amici c’è Jean-Pierre Muyard, psichiatra a La Borde dal 1966 al 1972, il quale ritiene che l’incontro con Deleuze potrebbe giovargli. Muyard aveva conosciuto Deleuze, nel 1967, in seguito alla pubblicazione di Presentazione di Sacher Masoch 51 . Quest’ultimo gli aveva espresso il desiderio di comprendere meglio l’esperienza degli psicotici, pur dicendo di temere il contatto con i folli. La sintonia tra Deleuze e Guattari fu istantanea. La loro amicizia li portò a sperimentare un processo di reciproca perdita di sovranità: il filosofo depose la sua corona, per ibridare la sua ricerca con la sensibilità dell’antipsichiatria, mentre lo psichiatra concatenò le sue pratiche con la scrittura filosofica. I primi incontri tra Muyard, Deleuze e Guattari produssero lunghe discussioni che vertevano sugli argomenti che avrebbero poi nutrito L’anti-Edipo. Nel volgere di breve tempo, Muyard abbandona la compagnia, sentendosi di troppo, e se era stato Guattari a cercare in un primo momento Deleuze, in seguito sarà quest’ultimo a proporgli di lavorare insieme: nel volgere di un paio d’anni, dopo un fitto carteggio denso di correzioni reciproche e di sessioni di lavoro comune, la notte del 31 dicembre 1971, Deleuze e Guattari finiscono la scrittura dell’Anti-Edipo, che andrà in stampa nel marzo 1972 52. Per cogliere l’efficacia e il senso dell’Anti-Edipo, bisogna considerare che si tratta di un’operazione totalmente calata nel periodo storico in cui ha visto la luce: concepita nel clima diffuso di contestazione, si presenta come una macchina da guerra contro tutte le forme di autoritarismo. I due autori hanno organizzato una sorta di concatenamento di demolizione: potenza destruens dell’Anti-Edipo. M. Foucault, Prefazione alla trasgressione, cit., pp. 71 – 72. F. Guattari, Una tomba per Edipo, Bertani editore, Verona, 1972, p. 329. 49 F. Guattari, intervista con D. Linhart, archivi IMEC, 1984. Citato a pagina 209 da F. Dosse in Gilles Deleuze Félix Guattari. Biographie croisée, cit. 50 Cfr. F. Dosse, ivi, p. 215. 51 G. Deleuze, Presentazione di Sacher-Masoch, in Il freddo e il crudele, SE, 1991. 52 Cfr. F. Dosse, Gilles Deleuze Félix Guattari. Biographie croisée, cit., pp. 12-14 133 47

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Distruggere, distruggere: il compito della schizoanalisi passa attraverso la distruzione, tutta una pulizia, tutto un raschiamento dell’inconscio. Distruggere l’Edipo, l’illusione dell’Ego, il fantoccio del superego, la colpevolezza, la legge, la castrazione... Non si tratta di pie distruzioni, come ne opera la psicanalisi dietro la benevola neutralità dell’analista: distruzione alla Hegel, modi di conservare53.

Ritorna, quindi, la vocazione dionisiaca a divergere dalla dialettica, ritenuta intimamente reazionaria e pertanto da superare, pianificando vie di fuga, intraprendendo quello che avrebbero poi definito il divenire-minore. Il modo migliore di comprendere il valore d’uso del lessico deleuzo-guattariano, non è forse quello d’impiegarlo? Che cosa intendono i due autori, quando parlano di schizoanalisi e, soprattutto, a cosa può servire per chi fa indagine filosofica oggi? Nelle prime pagine del volume, scrivono che «ciò che lo schizofrenico vive specificamente, genericamente, non è affatto un polo specifico della natura, ma la natura come processo di produzione»54. Il filosofo, dunque, non più sovrano dei concetti, entra in un nomadismo creativo e produce in virtù degli incontri, delle connessioni, dei concatenamenti che sa operare, anche e soprattutto al di fuori del suo ‘regno’. Lo schizo, nella riflessione di Deleuze e Guattari è importante perché «porta con sé i flussi decodificati, fa attraversare loro il deserto del corpo senza organi, ove installa le sue macchine desideranti e produce uno scorrimento perpetuo di forze agenti». Ma, soprattutto, lo schizo sa indicare le vie di fuga, il divenire. Lo schizo sa partire: ha fatto della partenza qualcosa di altrettanto semplice che nascere e morire. Ma nello stesso tempo, il suo viaggio avviene stranamente sur place. Non parla di un altro mondo [….] è un viaggio di intensità. […] Poiché il deserto propagato dal nostro mondo è qui, ed anche la nuova terra, e la macchina che ronza, attorno a cui girano gli schizi, pianeti per un nuovo sole. Questi uomini del desiderio (oppure non esistono ancora) sono come Zarathustra. Conoscono incredibili sofferenze, vertigini e malattie. Hanno i loro spettri. Devono reinventare ogni gesto. Ma un tal uomo si esibisce come uomo libero55.

La linea di fuga si rivela subito un concetto dall’enorme potenziale e dallo straordinario valore d’uso: un innesco per la deterritorializzazione, una forma attiva e pratica oltre il platonismo e il suo rovescio: «Fuggire non significa affatto rinunciare alle azioni, non c’è niente di più attivo di una fuga. È il contrario dell’immaginario […]; significa tracciare una linea, delle linee, tutta una cartografia» 56 . Ciò cui qui allude Deleuze, è una forma dicotomica della possibilità. Ci sono due grandi tipi di investimento sociale, segregativo e nomadico, come due poli del delirio: un tipo o un polo paranoico fascisteggiante, che investe la formazione di sovranità di tipo centrale, facendone la causa finale eterna di tutte le altre forme sociali della storia, controinveste le enclavi o la periferia, disinveste ogni libera figura del desiderio – sì, sono dei vostri, della classe e della razza superiori. E un tipo o polo schizo-rivoluzionario, che segue le linee di fuga del desiderio, attraversa il muro e fa passare i flussi, monta le sue macchine e i suoi G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, Torino, 1975, p. 355 Ivi, p. 5. Il polo della produzione, preciserà Deleuze nell'Abecedario, alla voce Storia della Filosofia, è il polo creativo immediatamente filosofico che coincide con l'atto di creazione: «Un filosofo non è qualcuno che contempla, e neppure qualcuno che riflette. Un filosofo crea. Semplicemente crea un genere di cose del tutto speciale. Crea dei concetti». È significativo sottolineare come, nel corso di un'altra intervista, anch’essa rilasciata a Claire Parnet, abbia argomentato che «Non c’è alcun bisogno di filosofia: essa viene prodotta forzatamente là dove qualsiasi attività spinge in avanti la propria linea di deterritorializzazione. Uscire dalla filosofia, fare non importa cosa, in modo da poterla produrre dal di fuori. I filosofi sono sempre stati un’altra cosa, sono nati da altro», in G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, ombre corte, Verona, 1998, p. 79. 55 G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, cit., p. 146. 56 G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 40. 134 53

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gruppi in fusione nelle enclavi o alla periferia, procedendo al contrario del precedente: non sono dei vostri, sono eternamente della razza inferiore, sono una bestia, un negro57.

Deleuze e Guattari, sostenendo la sostanziale equazione tra la schizofrenia e il desiderio («la schizofrenia è la produzione desiderante»)58, non intendono offrire un elogio della patologia in sé. Insistono piuttosto sul fatto che il desiderio abbia una valenza politica, ponendosi come antagonista rispetto alla postura del nichilismo, necessaria invece alla riproduzione della repressione e della rimozione. Il desiderio è rimosso, perché ogni posizione del desiderio, per quanto piccola, ha di che mettere in causa l’ordine stabilito della società: non che il desiderio sia asociale, al contrario. Ma è sconvolgente. […] Checché ne pensino certi rivoluzionari, il desiderio è nella sua essenza rivoluzionario, […] e nessuna società può sopportare una posizione di desiderio vero senza che le sue strutture di sfruttamento, d’asservimento, di gerarchia siano compromesse59.

È evidente qui la critica ai ‘militanti’ di professione e alle forme di microfascismo che le organizzazioni politiche degli anni ’60 e ’70 finivano per riprodurre. D’altro canto, queste righe appaiono come la naturale espressione di una filosofia antifinalista, in aperto contrasto con tutte le aspirazioni totalitarie e totalizzanti. Questo costerà a Deleuze e Guattari l’accusa di tradimento da parte della sinistra maoista e stalinista che, vittima di una certa fascinazione per l’autorità, poco o nulla aveva voluto intendere dell’Anti-Edipo. È facile intuire come questa posizione politica comportasse anche una postura etica, che Foucault, nella prefazione all’edizione americana dell’Anti-Edipo, ha saputo riassumere con estrema lucidità con la celebre formula «non innamoratevi del potere». Deleuze e Guattari avevano di fatto tracciato un divenire-minore della filosofia politica militante e, di conseguenza, della filosofia in generale. Partendo proprio dall’espressione «non innamoratevi del potere», è possibile tracciare il percorso che conduce dalla pars destruens (L’anti-Edipo) alla pars costruens (Mille Piani). In un certo senso, è come se Foucault avesse colto la potenza dell’Anti-Edipo, più di quanto non avessero fatto i suoi stessi autori, intercettando quello spirito creativo e dionisiaco che covava sotto le ceneri, e che si sarebbe sostanziato, nel 1980, in Mille piani. La formula di Foucault, che avrebbe potuto ben figurare come esergo, riassume, infatti, l’umore di tutto il libro, e traccia le condizioni del divenire-minore. Mille piani è scritto dopo la corta ma molto significativa parentesi di Kafka. Per una letteratura minore. In questo breve saggio, Deleuze e Guattari affrontano il tema del divenire-minore, da due punti di vista: in primo luogo, quello della lingua, nella letteratura di Kafka (boemo, cresciuto nella cultura ebraica e che scrive in tedesco), dove il linguaggio cessa di essere rappresentativo perché è una «macchina celibe»; in secondo luogo, quello delle figure kafkiane, come per esempio quella di Gregor Samsa, alter ego dello scrittore, colto nel processo di deterritorializzazione del suo divenire-insetto. Deleuze e Guattari ritengono che la letteratura minore non sia la letteratura di una lingua minore, ma quella che una minoranza realizza in una lingua maggiore. A caratterizzare la letteratura minore è il suo elevato coefficiente di deterritorializzazione e il suo carattere radicalmente politico: ogni fatto narrato non è individuale, ma immediatamente sociale e politico. Tutto assume un

G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, cit., p. 315. Questa distinzione consiste nella disgiunzione minore/maggiore, e vede procedere le vie di fuga attraverso i rapporti privilegiati di emancipazione. Quando Deleuze e Guattari riportano la suggestione del divenire-animale, del divenire-donna, del divenire-bambino o del divenire-uccello, non alludono a processi di imitazione, ma alla capacità di saper sottrarsi alla seduzione del potere, di saper resistere e quindi di saper creare. 58 Ivi, p. 146. 59 Ivi, p. 129. 135 57

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valore collettivo, avendo la dimensione politica contaminato ogni enunciato 60. In questo scenario, il divenire-coleottero di Gregor Samsa è l’espressione di uno stato intensivo che percorre le vie di fuga. [Il linguaggio] cessa di essere rappresentativo per tendere verso i suoi limiti o i suoi estremi [...], e [segna] le vie d’uscita [per se stesso], per la scrittura e per la musica. È quello che si chiama Pop – musica Pop, filosofia Pop, scrittura Pop: Wörteflucht. Servirsi del pop-linguismo nella propria lingua, fare di essa un uso minore o intensivo, [...] saper creare un divenir-minore – c’è una chance per la filosofia che per secoli formò un genere ufficiale e referenziale? Oggi l’antifilosofia vuol essere linguaggio del potere 61.

Quello che poteva sembrare all’inizio un delirio filosofico, è in realtà un grido di battaglia: il tentativo di dare una prospettiva dionisiaca alla filosofia. In queste righe, Deleuze e Guattari sembrano voler rispondere alla domanda su come evitare le facili fascinazioni della filosofia rispetto alle forme di dominio, invocando per il filosofo una postura rizomatica: uscire dalla filosofia, per poterla produrre dal di fuori, creando i divenire-minore e cercando le linee di fuga. RIZOMATICA = POP/ANALISI62, avrebbero detto in Mille piani: togliersi la corona del filosofo onnisciente per poter continuare a fare filosofia. Se L’anti-Edipo si caratterizza soprattutto per la sua vocazione destruens, Mille piani si presenta invece come un progetto costruttivista. L’intenzione degli autori è di approdare «a terre sconosciute, vergini d’Edipo, che l’Anti-Edipo aveva visto solo da lontano, senza penetrarvi. [...] L’anti-Edipo aveva un’ambizione kantiana, bisognava tentare una specie di Critica della Ragion Pura a livello dell’inconscio. Mille piani rivendica invece un’ambizione post-kantiana (benché risolutamente anti-hegeliana). Il progetto è costruttivista»63. Deleuze e Guattari tentano d’introdurre nel lessico filosofico una serie di concetti – tra cui rizoma, divenire, molteplicità, deterritorializzazione – o di rinnovarne il valore d’uso. Al tempo stesso, è importante cogliere, seguendo la loro ispirazione spinoziana, la dimensione essenzialmente ‘pratica’ di quello che essi intendono per filosofia. Il molteplice bisogna farlo, non aggiungendo sempre una dimensione superiore, ma al contrario il più semplicemente possibile, a forza di sobrietà, a livello delle dimensioni di cui si dispone, sempre n-1 (l’uno fa parte del molteplice solamente così, essendo sempre sottratto). Sottrarre l’unico dalla molteplicità da costituire; scrivere in n-1. Questo sistema potrebbe essere chiamato rizoma. […] I bulbi sono rizomi... perfino certi animali lo sono, nella loro forma di muta, i topi sono rizomi64.

Il rizoma è costituito da un insieme di punti che possono e devono essere connessi fra loro, soprattutto in base a una condizione di eterogeneità, per cui «un rizoma non cesserebbe di collegare anelli semiotici, organizzazioni di potere, occorrenze rinvianti alle arti, alle scienze, alle lotte sociali»65. Questa natura molteplice lo svincola da ogni possibile riconduzione al modello platonico, sottraendolo dall’Uno come soggetto o oggetto, come realtà naturale o spirituale, come immagine o mondo. Le molteplicità sono essenzialmente rizomatiche e si caratterizzano per un altro aspetto affascinante, giacché si definiscono sempre attraverso il ‘fuori’: attraverso la linea di fuga o di deterritorializzazione, seguendo la quale esse cambiano natura nel connettersi ad altre. Fu un momento molto importante quando, sebbene per ragioni e in modi diversi, prima Riemann e poi Bergson conferirono al sostantivo ‘molteplicità’ una dignità filosofica autonoma, per sfuggire all’opposizione G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit., pp. 29-31. Ivi, p. 38 e 44. 62 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, Castelvecchi, Roma, 1997, p. 47. 63 Ivi, p. 10. 64 Ivi, p. 19. 65 Ivi, p. 21. 60 61

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astratta del molteplice e dell’uno, per sottrarsi alla dialettica, per arrivare a pensare il molteplice in modo radicale, per smettere di farne il frammento numerico di un’Unità o di una Totalità perdute, o al contrario l’elemento organico di un’Unità o di una Totalità future, di un telos. Le molteplicità sono caratterizzate dai loro elementi, le singolarità; dal modo con cui entrano in relazione tra loro attraverso i divenire; dai loro eventi, che sono delle ecceità (cioè le individuazioni senza soggetto che Deleuze aveva scoperto in Logica del senso); dai loro spazi-tempi; dal loro modello di realizzazione, che è il rizoma (per opposizione al modello albero); dal loro piano di composizione, che costituisce dei plateaux (zone d’intensità continua); dai vettori che li attraversano, e che costituiscono territori e gradi di deterritorializzazione66. Ricercare continuamente connessioni tra linguaggi, saperi, espressioni artistiche e forme d’impegno etico-politico, ossia tra dimensioni eterogenee e, almeno per statuto e postura, apparentemente incompatibili o in conflitto tra loro: questo vuol dire fare ‘ricerca’ senza sapere in anticipo dove ci condurrà il suo cammino. Questo vuol dire fare filosofia dal di fuori, come nel caso in cui la lettura dei romanzi di Kafka si rivela capace di stimolare riflessioni sul microfascismo. O si pensi, per esempio, al tavolo di ricerca del collettivo Action30, dove si ammassano, interagiscono e si ibridano costantemente, sulla base di una preoccupazione o di un ‘profilo’ etico-politico, la documentazione storica, la scrittura saggistica e quella letteraria, il fumetto, il video, la fotografia, la musica, il teatro. È come se ogni espressione fosse un punto del molteplice e, al tempo stesso, come se, al proprio interno, ciascuna fosse costituita da una molteplicità di connessioni. Questo permette alla ricerca filosofica di porsi in stretto contatto con il suo fuori, di elaborare quella che Deleuze e Guattari hanno definito Pop-filosofia: non una filosofia che tende a estendere il suo regno, colonizzando nuovi territori, bensì una filosofia nomade che, «interamente rivolta verso una sperimentazione in presa sul reale», «concorre alla connessione dei campi» 67 . Si concorre così a definire una nuova cartografia come espressione di connessioni in tutte le sue dimensioni, smontabile, reversibile, suscettibile di ricevere costantemente modificazioni, dove «il rizoma opera sul desiderio per spinte esteriori e produttrici». Si capisce allora come il rizoma operi in senso ‘orizzontale’, e che sia attivo in un piano in cui non ci sono gerarchie, a differenza dei «sistemi arborescenti [...] gerarchici», dove «un elemento riceve le sue informazioni solo da un’unità superiore, e da una destinazione soggettiva, da collegamenti prestabiliti». Come aveva già notato Bataille, l’albero ha, in un certo senso, forgiato il modo d’intendere la realtà, l’immaginario e tutto il sapere dell’uomo occidentale: dalla botanica alla biologia, dall’anatomia alla gnoseologia, dalla teologia alla filosofia. Il fondamento-radice, Grund, roots e fundations (Dio, patria e famiglia), è l’espressione di un feeling morboso con la verticalità, con la trascendenza: «la trascendenza è una malattia propriamente europea». Il rizoma gronda, invece, sensibilità spinoziana, non si lascia riportare né all’uno né al molteplice: è un sistema acentrato, non gerarchico, senza Generale, senza memoria organizzatrice centrale, definito unicamente dalla circolazione di stati. È peculiare del rizoma l’essere in rapporto con la sessualità, ma anche con l’animale, con il vegetale, con il mondo, con la politica, con il libro, con le cose della natura e dell’artificio: tutte specie del divenire. Questi stati, questi flussi scorrono nel piano d’immanenza, in un movimento pratico di livellamento e di montaggio che avvicina il rizoma all’informe di Bataille, giacché si ritrova la stessa operatività che abbiamo visto agire in “Documents”: piano di assemblaggio di materiali eterogenei, al di fuori delle pretese di giudizio e delle scale (verticali) dei valori, e che libera una carica differenziale. Questo piano così composto non ha inizio né fine, è sempre nel mezzo e può intersecarsi e concatenarsi con altri piani in una serie senza fine: «un rizoma non comincia e non finisce». Deleuze e Guattari 66 67

Ivi, pp. 64-65. G. Deleuze, F. Guattari, ivi, p. 28. Tutte le cit. successive sono tra p. 29 e p. 48. 137

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esplicitano la dimensione performativa del rizoma quando provano a descriversi nell’atto di scrivere Mille piani: «Chiamiamo piano qualsiasi molteplicità connettibile ad altre per steli sotterranei superficiali, in modo da formare ed estendere un rizoma. Scriviamo questo libro come un rizoma. L’abbiamo composto di piani. Gli abbiamo dato una forma circolare». Non si può parlare di rizoma senza farlo, senza praticarlo, senza sperimentarlo. 5) Blob-filosofia, istruzioni per l’uso Le nozioni d’informe e di rizoma possiedono senz’altro una portata critica e filosofica, ma sono inseparabili dal gesto che le accompagna. Tale dimensione performativa, che si può cogliere avendo sullo sfondo il contesto storico nel quale si sono manifestate, le consegna a un destino che è direttamente connesso con il loro valore d’uso. Più che come concetti della storia della filosofia, l’informe e il rizoma sono fatti per continuare a essere usati. Sono strategie o esercizi pratici che inducono ad adottare certi orientamenti, a fare certi gesti, ad assumere certe posture. Per questo motivo, tuttavia, il loro valore d’uso non potrà che essere, ogni volta, attualizzato. In altri termini, la loro operatività dovrà essere messa alla prova dei nuovi contesti storici in cui si esercita: che cosa può significare, oggi, riattivare l’informe e il rizoma? Come si presenterà il gioco che permettono di giocare? Allo stesso modo, se l’informe e il rizoma s’inscrivono in quella tendenza del pensiero contemporaneo che è il superamento del semplice platonismo rovesciato, potremo chiederci: che cosa significa, oggi, il tentativo di produrre un pensiero (del) differenziale? Come proseguire in questa direzione, consapevoli che il paesaggio è profondamente cambiato? La sfida della blob-filosofia è racchiusa in queste domande. Il paesaggio in cui si muove l’uomo contemporaneo, forgiando il suo ‘stile di vita’, è un sistema nel quale la dimensione biomedica, quella economica e quella mediatica rinviano l’una all’altra senza soluzione di continuità. In particolare, è facile constatare come, da quando accendiamo lo smartphone per controllare il meteo o per consultare un quotidiano online, a quando spegniamo il computer dopo aver risposto a una richiesta di amicizia o dato l’ultima occhiata alla posta, passando attraverso lo zapping televisivo quotidiano, la nostra vita sia attraversata e moltiplicata da un flusso ininterrotto di parole, immagini e suoni provenienti dall’universo mediatico. Viviamo in un enorme minestrone, nel quale la realtà non si distingue più dal suo spettacolo, e dove lo spettacolo fa tutt’uno con quello che potremmo definire il marketing globale: ‘tutto’ si vende, ovunque, e ovunque si vende lo ‘stesso’. Tale situazione modifica necessariamente il nostro modo di percepire le cose, di pensare e di agire. In tal senso, il reality show – lo ‘spettacolo della realtà’ – è molto più di un semplice format televisivo, definendo piuttosto le coordinate generali del nostro essere al mondo. Consideriamo, per esempio, le foto pubblicate sui social network: la realtà della nostra vita quotidiana si manifesta attraverso la sua lieve trasposizione o sublimazione mediatica (il logo di instagram o retrica, talvolta accompagnato dalla data, il luogo e il meteo del momento in cui la foto è stata scattata), mentre lo spettacolo si riduce alla presentazione della realtà stessa, la più banale o triviale che si possa immaginare (il volto sorridente dei nostri figli, una torta o un piatto di spaghetti, dei piedi allungati su una spiaggia). La realtà nutre lo spettacolo, e lo spettacolo fa esistere la realtà, ammantandola di una sottile, quasi impercettibile patina mediatica, in una sorta di eterno e inaggirabile effetto loop. L’ibrido in cui nuotiamo come pesci, è un mare perfettamente rotondo. Cercansi vie d’uscita. L’ibridazione di realtà e finzione (spettacolo) rischia di dissolvere le opposizioni che, tradizionalmente, hanno permesso all’uomo occidentale di orientarsi: vero e falso, bene e male, brutto e bello, giusto e ingiusto, arte e non arte ecc. Le frontiere sono diventate permeabili, sfumate. Tutto tende ad amalgamarsi, a confondersi. Perciò, anche da questo punto di vista, è legittimo parlare di ‘mutazione antropologica’. Com’è possibile esprimere un’opinione, quando la rivelazione di una bufala è fagocitata dalla sua riproduzione virale, 138

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che finisce per farla apparire ‘più vera’ di quella reale? Come si fa ad acquisire un senso morale, e a comportarsi di conseguenza, quando con lo stesso gesto – un semplice click sulla tastiera – è possibile lanciare il video di un simpatico gattino e quello pieno di orrore di un uomo sgozzato in diretta? Come produrre un’opera d’arte, quando sembra ottenere un consenso infinitamente maggiore la passeggiata in mutande dell’artista, filmata dai passanti con il cellulare e diffusa su YouTube? È questa la lezione, tanto amara quanto istruttiva, suggerita dal film Birdman (A.G. Iñárritu, 2014): storia di un attore divenuto popolare grazie al personaggio cinematografico di un supereroe, e che, stanco di quella celebrità a buon mercato, cerca di farsi riconoscere come un grande uomo di teatro (di ristabilire la ‘differenza’ della ‘vera’ arte), allestendo uno spettacolo a Broadway. E che si ritrova fatalmente risucchiato dalla macchina del reality. Inoltre, grazie alla dotazione tecnologica personale, che ci proietta già in una dimensione di ‘realtà aumentata’, ciascuno di noi è l’artefice – libero, consenziente e ‘desiderante’ – del processo industriale di produzione della vita come reality. In questo minestrone, che confonde alla base e senza soluzione di continuità la realtà e il suo spettacolo, siamo tutti, contemporaneamente, attori e spettatori. Il reality è un’industria totale, nella quale ciascuno di noi è, al tempo stesso, produttore e consumatore. Sembra, quindi, che il reality sia esso stesso un ibrido indecidibile, effetto di quella potente linea di fuga rispetto all’alternativa tra realtà e finzione che è apparsa ed è diventata, in qualche misura, egemone, negli ultimi decenni, a cavallo tra vecchi dispositivi di trasposizione mediatica della vita quotidiana e nuove tecnologie informatiche e digitali 68 . In altri termini, sembra che il reality abbia finito per portare a termine la dissoluzione della metafisica, con tutta l’organizzazione gerarchica che pregiudicava il senso e inibiva la produzione di ‘possibile’. In effetti, nuotando in questo spazio interstiziale, che però è diventato un oceano senza limiti, facciamo tutti i giorni l’esperienza di come la possibilità stessa della ‘differenza’, tradizionalmente garantita dal sistema delle opposizioni duali, sia entrata in crisi. Tutto il problema consiste nel considerare se questa nuova condizione d’indiscernibilità vada nella direzione di quella produzione di ‘differenziale’ che abbiamo cercato di analizzare. Insomma, la metafisica si è dissolta, e viviamo forse in un universo che è diventato esso stesso informe o rizomatico, ma questo vuol dire forse che possiamo sentirci finalmente liberi, emancipati? Che possiamo cogliere immediatamente le chance critico-cognitive ed etico-politiche che questo ‘blob’ sembra offrici, come un frutto caduto dall’albero? Oppure l’operatività informe o rizomatica si trova dinanzi a una nuova sfida, per certi versi, più ardua e complessa? Basti pensare ai piedi fotografati con il cellulare e pubblicati sui social network: per valutare la portata del cambiamento, e della sfida cui siamo chiamati, sarà sufficiente accostare a queste foto patinate, quelle ruvide e intransigenti degli alluci di Boiffard, e provare poi a considerare come funzionino nei rispettivi contesti, che effetti producano su di noi, sulla nostra esperienza della realtà. Oggi abbiamo a che fare con un tragico (massicciamente) banalizzato, che rinvia circolarmente a un triviale (leggermente) sublimato. Dov’è finita la tragica seduzione del piede, che ci faceva ridere perché, nella sua ignobile realtà, si esprimeva in fondo la caduta terrestre, cioè la morte? Dov’è finita e come ritrovare, in generale, la ‘forza di realtà’ delle immagini? Difficile, oggi, ‘sgranare gli occhi’ dinanzi al tragico, quando nello stesso frullatore (per es., banalmente, sulla nostra bacheca di facebook) entrano tutti i giorni, in un flusso torrenziale e continuo, le foto di un bambino migrante annegato e il video di un simpatico cagnetto che gioca a nascondino, le immagini di terrore e guerra e quelle del pranzo di Natale. E puntualmente,

Per un abbozzo genealogico della messa in spettacolo vita quotidiana, cfr. P. Di Vittorio, Come pesci nell’acqua, cit. 139 68

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costantemente, da questo frullatore vengono fuori solo pappe uniformi, omogeneizzate, come quelle che si danno da mangiare ai bambini. Il reality è una nuova condizione informe o rizomatica dell’essere al mondo, che rende possibile una serie indefinita di livellamenti degerarchizzanti e di montaggi aleatori. Solo che le giustapposizioni e le intersezioni (i collage) di questi ‘mille piani’ eterogenei, invece di dare luogo a qualcosa come il bizzarro museo di “Documents”, che suscitava domande e mobilitava lo spirito critico, tende a produrre assuefazione, inibizione e, in definitiva, (più o meno tacito o implicito) consenso. L’eterogeneo – l’informe, il rizoma, il blob – è oggi omogeneizzato, non più attraverso figure come quelle del Duce o del Führer, le quali, a causa della loro ‘grandezza’, ‘eccezionalità’ o ‘unicità’, conservavano comunque una certa ‘tensione’ (immaginaria) verso la dimensione trascendente del sublime (la mistica del capo)69; ma piuttosto attraverso la sua trasposizione, banale e massiccia (industriale), nella dimensione del marketing e dello spettacolo. In altri termini, il reale assurge a modello (ideale) solo attraverso la sottile patina di commerciabilità e di spettacolarità che lo ammanta, e che lo fa esistere come tale, cioè che gli assicura il suo status ontologico. È quello che potremmo definire il carisma della realtà, anche, o soprattutto, della realtà più comune o triviale. La metafisica sopravvive, dunque, nella sua forma estrema, quando la sublimazione tende asintoticamente verso il suo grado zero. La trasposizione della realtà si riduce ormai alla sottile patina commercial-spettacolare che ammanta e rende luccicante la realtà stessa: come combattere l’idealismo, come abbattere il prefisso ‘sur’ (che Bataille voleva falciare dalle parole ‘surréalisme’ e ‘surhomme’), se si trova già schiacciato per terra? Se è incollato come una pellicola (quasi) trasparente alla realtà più ‘bassa’? Tutte le rivendicazioni dell’informe o del rizoma, potremmo dire mutuando la formula di Bataille, sono continuamente travestite da rivendicazioni del reality, in quanto linea di fuga omogeneizzante che produce ibridi consensuali. Viene così a determinarsi una vasta e diffusa zona grigia, un oceano d’indiscernibilità che – lungi dallo sprigionare quel differenziale sovversivo in grado di rimettere in discussione la realtà aprendola ad altre possibilità di senso e di esistenza – si pone come la sorgente e la riserva di un immenso capitale di riproduzione consensuale della realtà stessa. In altri termini, l’informe o il rizoma sono diventati ‘reali’ (come un tempo si parlava di ‘socialismo reale’). Il paesaggio nel quale ci muoviamo è un blob mediatico-esistenziale, e la blob-filosofia dovrà tenerne conto, pena ricadere in un atteggiamento naturalistico o naïf. Si tratterà, allora, di considerare come sia possibile riattivare l’informe o il rizoma, nel contesto del reality come condizione storica immanente dell’informe o del rizoma stessi. Se l’ibridazione perfetta tra la realtà e il suo spettacolo fa emergere una poderosa linea di fuga che, scuotendo dalle fondamenta il sistema delle opposizioni gerarchiche, tende a dissolvere tutte le differenze che tale sistema garantiva, sarà possibile insomma immaginare una linea di fuga ‘ulteriore’? Qualcosa che, senza riterritorializzarsi nel sistema metafisico, sfugga all’indistinta omogeneità che il reality tende a produrre? Una nuova biforcazione, quindi, che tagliando la linea di fuga ‘maggiore’ del reality, faccia emergere una linea di fuga ‘minore’, come produzione di differenziale critico-cognitivo ed etico-politico? In tal senso, la blob-filosofia non sarebbe altro che il divenire-minore del reality: la produzione di ibridi minori che provano a sospendere la potenza dell’ibrido maggiore, interrogandola in modo radicale. Infatti, rispetto alla perfetta fusione della realtà e del suo spettacolo, e a tutto quello che ne consegue in termini di dissoluzione delle differenze, l’alternativa sembra assumere, oggi, di nuovo l’aspetto di un’opposizione tra ‘apocalittici e integrati’: da un lato, c’è chi pone l’esigenza di restaurare la verticalità del Cfr. U. Eco, Fenomenologia di Mike Bongiorno, cit. Sul fondamentale passaggio dal superman all’everyman come modello sociale, cfr. anche P. Di Vittorio, Umberto Eco: Analitica della banalità e popfascismo, in P. Di Vittorio et al., L’uniforme e l’anima, cit. 69

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canone e tutte le gerarchie di valore, considerate come l’unica medicina capace di salvare il mondo dal caos e dallo smarrimento; dall’altro, c’è chi pensa invece che siamo sulla buona strada, e che, per salvarci, non ci resta che abbandonarci ai flussi anarchici e gioiosi che cancellano le frontiere e abbattono le gerarchie. Chi pensa di rimettersi la corona, per riconquistare il potere perduto; chi pensa invece che basti abbattere re e regni per far sparire le corone (il potere) dalla faccia della terra: l’alternativa che chiude l’orizzonte del possibile si presenta anche in questa forma, ed è da qui, probabilmente, che si può cominciare a immaginare, e a sentire l’urgenza, di una nuova linea di fuga. Come biforcare concretamente l’ibrido maggiore del reality? Come far delirare quest’immane tritatutto? Durante l’esilio, cominciato con la fuga da Berlino dopo l’incendio del Reichstag e proseguito nel periodo bellico, Bertolt Brecht sentì un’esigenza di questo tipo: come ritrovare la ‘verità’ della guerra, stando immersi nel flusso torrenziale delle immagini attraverso cui i media la presentano (quotidiani, cinegiornali ecc.)? Come ‘sgranare gli occhi’ dinanzi alla guerra, quando la sua ‘tragica realtà’ è sepolta sotto un continuum di frammenti luminosi che non cessano di accumularsi, formando un ammasso indistinto che impedisce di pensarla, di raccontarla? Che, in fondo, permette solo di ‘subirla’? È così che, nel punto di convergenza fra due interessi – quello per le immagini e quello per la poesia epigrammatica – Brecht inventa una linea di fuga: il genere ibrido dei fotoepigrammi. Comincia a selezionare e a collezionare immagini, ritagliandole dai giornali – città rase al suolo, soldati dinanzi al cadavere del nemico, foto di Hitler, Göring e Goebbels a teatro ecc. –, per poi accoppiarle con testi poetici che, non solo si aggiungono alle immagini, ma spesso raddoppiano le didascalie originarie, che si sovraimprimono, per così dire, alla scrittura giornalistica. Attraverso questo ‘supplemento di realtà’, prodotto attraverso un particolare montaggio poetico-politico (operazione che può essere, dunque, inclusa nel mosaico della ‘tradizione’ blob-filosofica, e che sembra anticipare, in qualche modo, La Rabbia di Pasolini)70, Brecht prova a ridare alle immagini della guerra, le stesse che circolano senza soluzione di continuità nei media, la loro ‘forza’. La stessa forza costantemente inibita dal trattamento mediatico, dal passaggio nel grande frullatore di realtà e di immagini della realtà. La raccolta di epigrammi fotografici uscirà, nel 1955, con il titolo L’abc della guerra. Anche volendo considerare alcuni giudizi storico-politici di Brecht datati, è innegabile la straordinaria ‘attualità’ della sua operazione. Anzi, tenendo conto che precede l’avvento della tv e di internet (del ‘dispositivo reality’), assume un valore addirittura profetico. L’«immagine della guerra» non è forse diventata per noi una «poltiglia veloce e luminosa»71, che si connette con tutto, che si confonde con tutto, che si equivale con tutto, senza riuscire a scuoterci e a mobilitarci in qualche modo? Più in generale, potremmo chiederci se l’‘abc della realtà’ non rappresenti il compito cui siamo chiamati, ogni giorno e in ogni momento della nostra vita. Non dovremmo forse, nell’epoca del reality, impegnarci in un nuovo e continuo processo di ‘alfabetizzazione’? Apprendere e coltivare l’arte di smontare e rimontare senza sosta la poltiglia mediatico-esistenziale nella quale siamo immersi? La stessa poltiglia che invece, ogni giorno e in ogni momento, noi stessi produciamo e consumiamo: operai di una gigantesca industria del consenso, di cui siamo ormai diventati anche i proprietari, giacché i mezzi di produzione li teniamo banalmente a casa o ce li portiamo in tasca, nella borsa? Per questo, la blob-filosofia è Cfr. Didi-Huberman, Sentir le grisou, cit. L’analisi, che prende le mosse da Benjamin, è centrata sulla Rabbia di Pasolini. Nell’ambito del progetto Remix the Cinema, L. Acito e A. Casati, del collettivo Action30, hanno realizzato con il Polo Museale Regionale della Basilicata e con la collaborazione di A. Manna e G. Palumbo, Il Vangelo secondo Pasolini tra memoria e futuro: un remix nel quale Il vangelo secondo Matteo s’intreccia e si mescola con La rabbia (http://www.remixthecinema.com). Il tema del ‘sentire il grisù’ (la catastrofe che arriva) è stato affrontato nel saggio grafico di A. Manna e G. Palumbo, Benjamin Plissé, Le Baroque, “Cahiers européens de l’imaginaire”, 7/2015. 71 M. Serra, Introduzione, in B. Brecht, L’abicí della guerra, Einaudi, trad. di R. Fertonani, Torino, 2002, p. V. 141 70

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abitata da una preoccupazione radicalmente ‘pedagogica’ (e quindi, in qualche modo, ‘didattica’): non perché si tratti d’insegnare qualcosa, ma perché, qualsiasi cosa s’intenda comunicare, trasmettere, condividere, lo si potrà fare solo a partire da un abc della realtà, ossia da una pratica di smontaggio e rimontaggio (poetico-pensante-politico) dei flussi di reality. La realtà esiste e la verità pure, ed entrambe esistono (come sempre) ‘per eccesso’ (per supplemento). Tutto il problema è rendersi conto che la realtà esiste (in senso ontologico) come reality; che per assurgere a uno statuto di verità, essa deve superare la soglia che le permette di essere inondata dai bagliori industriali del marketing e dello spettacolo. L’estrema sopravvivenza della metafisica nella luce ‘maggiore’ del reality, pone immediatamente il problema – critico-cognitivo, estetico, etico-politico – della sopravvivenza delle luci ‘minori’, ossia di quello che Didi-Hubermann, sulla scorta di Pasolini, chiama le lucciole. Le lucciole non sono minacciate dal buio, che permette anzi di vederle pulsare, vibrare, danzare, ma dagli eccessi di luce. Esse scompaiono quando si accende un “feroce riflettore” che, spazzando via la notte, inghiotte le loro interpunzioni luminose. La vita quotidiana è immersa nella luce abbacinante del reality, e questo apre il campo a una ‘politica della sopravvivenza’ 72 . L’estenuante sopravvivenza dei bagliori metafisici, quelli di una realtà che s’idealizza tendendo verso il grado zero della sua sublimazione, è tagliata dalla sopravvivenza di quelle lucciole di realtà che sospendono e rimettono in discussione la potenza di luce del reality, biforcandola in una miriade di tracce, di tratti luminosi irriducibili, resistenti, ribelli. Come la letteratura minore per Deleuze e Guattari, le luci minori sono, infatti, caratterizzate da «un forte coefficiente di deterritorializzazione», «tutto in esse è politico», «tutto assume un valore collettivo», e tutto parla delle «condizioni rivoluzionarie» immanenti alla loro stessa dimensione minore. La coppia maggiore/minore può assolvere la stessa funzione che la coppia alto/basso assolveva nel discorso di Bataille: si tratta, infatti, di un dualismo radicale, irriducibile, nel senso che non potrà mai essere risolto in un monismo (dalla metafisica tradizionale o dalla sintesi dialettica); un dualismo che potrà, quindi, solo continuare a divaricarsi, a polarizzarsi in modo lacerante, producendo, però, una linea di fuga in grado di far fuggire tutto il sistema delle opposizioni duali; il minore è, infatti, ciò che libera una carica differenziale, qualificandosi unicamente a partire dalla sua capacità di tagliare (di resistere, di sfidare) il maggiore, impedendo che si richiuda su se stesso come una totalità piena, compiuta, pacificata. Un tentativo di biforcare il reality si può trovare nel saggio-spettacolo di Action30, Constellation 61. Entre histoire et magie: montaggio di flussi documentaristici (immagini d’archivio), teatrali e multimediali (video, musica e disegno live), nel quale, attraverso un gioco analogico-genealogico tra passato e presente, vengono convocate le lucciole ‘infernali’ della storia come forza del possibile (la storia ‘locale’ della trasformazione della psichiatria nel XX secolo: la Lettre aux médecins chefs des asiles de fous di Artaud, il retroterra della guerra e della resistenza al nazifascismo, Tosquelles, l’ospedale di SaintAlban, Fanon, Basaglia). Attraverso una linea di fuga tra la trasmissione accademica del sapere e lo spettacolo come semplice entertainment, si produce un ibrido poetico-politicopensante, e una ‘costellazione’ storica minore prova a ‘sopravvivere’, in diretta e per un pubblico di non addetti ai lavori, liberando quel differenziale capace di rimettere in discussione il presente e aprire l’orizzonte del possibile 73. Potremmo allora chiederci: il G. Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, trad. di C. Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino, 2010. p. 33. 73 Coproduzione Italia-Belgio: Action30, L’Autre “lieu”, Bruxelles Laïque, Théâtre National de Bruxelles. Testi e ricerca documentaria: P. Di Vittorio; interpretazione: S. Maillard e P. Renaux; video e direzione tecnica: L. Acito; musica e sampler: A. Casati; disegni: Giuseppe Palumbo: disegno live: P. Todisco “Squaz”; traduzione 142 72

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‘minore’ (della realtà, della storia) si manifesta solo attraverso produzioni culturali ‘minori’? In altri termini, il mainstream rischia sempre di inghiottire, nei suoi feroci riflettori, le lucciole di realtà e di storia? Domande scomode, per tutti, ma che forse è inevitabile e giusto porsi. È chiaro, comunque, che esiste una dimensione performativa del minore: non si può parlare del minore senza entrare in un divenire-minore. Ed è solo lasciandosi contaminare dal minore, che il minore appare, che il minore accade: On the spot. In conclusione, si può dire che oggi la condizione generale di apparizione della luce sia l’ibridazione: quello che abbiamo definito la linea di fuga maggiore del reality. Come fare, concretamente, per biforcare questa perfetta fusione di realtà e di marketing-spettacolo della realtà? Come sospendere il ‘carisma della realtà’, interrogandolo come tale? Ossia, come far apparire le luci minori che tagliano la luce maggiore? Come produrre gli ibridi minori in grado di giocarsi la partita con gli ibridi consensuali, aprendo la realtà ad altre possibilità di senso e di esistenza? La risposta a queste domande sarà inevitabilmente performativa, ossia affidata a sperimentazioni molteplici, singolari e concrete, che sfuggiranno, quindi, sempre alla pretesa di racchiuderle in una qualsiasi sintesi teorica. La blob-filosofia, in quanto riattivazione e attualizzazione dell’operatore informe o rizoma nell’epoca del reality, esiste soprattutto per il suo valore d’uso: è una strategia o un esercizio pratico che consente di assumere certe posture e di fare certi gesti. Gli usi blobfilosofici sono molteplici, singolari e concreti, e sono anche frammentari, diffusi e dispersi (come la sua ‘tradizione’), ossia non soggetti a nessuna paternità accademica, a nessuna sorta di copyright. Partendo dalle pratiche molteplici del collettivo Action30 (editoriali, performative, spettacolari, didattiche), e dalla riflessione su tali pratiche, la blob-filosofia può essere descritta come una sorta di frullatore delirante. Un frullatore che ‘funziona al contrario’. L’efficacia di un prodotto culturale ibrido dipende oggi dalla capacità d’investire sul reality come immane tritatutto, riproducendo tale funzione in un processo di accumulazione capitalistica del suo potere omogeneizzante. In altri termini, la capacità di produrre consenso sarà direttamente proporzionale alla capacità di creare un continuum, una con-fusione tendente a distillare l’omogeno dall’eterogeno, a ottenere una pappa per bambini (l’effetto reality) dal minestrone informe o rizomatico di partenza – o presunto tale, essendo la realtà ‘presa’ sin dall’inizio nel processo industriale della sua trasposizione commercial-spettacolare (nel suo divenire-reality). Come fare in modo, allora, che la potenza del reality, piuttosto che essere assecondata e utilizzata senza farsi troppe domande, sia sospesa e interrogata come tale? E fatta deviare? Per quanto abbiamo detto, non si tratta di rinunciare alla molteplicità dei flussi, dei piani, dei materiali, dei linguaggi ecc., né alle loro connessioni nomadi e aleatorie. Non si tratta di coltivare qualsiasi forma di nostalgia per le autorità riconosciute, per i confini stabiliti, per le forme istituzionalizzate. Non si tratta, insomma, di negare volontaristicamente la linea di fuga del reality, l’ibridazione che fa apparire la realtà nella sua luce, impegnandosi a restaurare i territori canonici e le frontiere, a cominciare dal confine che separa la realtà dai suoi infiniti specchi mediatici. Si tratterà, invece, di rigiocare la linea di fuga, provando a creare degli ibridi minori che, tagliando la luce consensuale del reality, producano degli shock poetico-pensanti-politici, tali da stimolare domande, analisi, riflessioni, creazioni, pratiche, forme di mobilitazione. In particolare, rispondendo all’esigenza di un ‘ritorno alla realtà’, la blob-filosofia non propone un fuorviante ritorno alla ‘vera’ realtà, contro tutte le forme di ‘finzione’; prova invece a polarizzare la realtà e la finzione (lo spettacolo), spingendoli verso i loro limiti estremi, in un movimento centrifugo lacerante; solo in questo campo magnetico potranno, infatti, sorgere le linee di fuga che, grazie alla loro carica differenziale, permetteranno francese: V. Della Giustina. Lo spettacolo è stato rappresentato a Bruxelles, Liegi e Marsiglia (trailer su action30media). 143

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d’interrogarsi radicalmente sul rapporto tra realtà e finzione. I ‘blob’ della blob-filosofia non sono né realtà né finzione (spettacolo), ma un terzo termine ibrido che consente di porsi sempre il problema della condizione attuale della realtà (della verità) nell’epoca del reality; d’interrogarsi sulla condizione attuale del nostro essere al mondo, stando immersi nell’oceano circolare, indistinto, omogeneizzante del reality. In tal senso, questi prodotti culturali saranno sempre degli abc della realtà. Se, dunque, l’efficacia consensuale dei prodotti culturali dipende dalla loro capacità di ottenere il maggior grado d’indistinzione e di omogeneità, frullando gli elementi o i piani in modo da ridurre al massimo la possibilità di distinguerli fra loro, la blob-filosofia investirà invece sulla forza dell’eterogeneo, ossia reinvestirà il potenziale di eterogeneità proprio dell’informe o del rizoma74. Dove c’è una distesa piatta e liscia, farà apparire un piano ruvido, scomposto, irto di buche e dislivelli; dove c’è un passaggio morbido e continuo, farà apparire gli attriti, gli sbalzi di tensione e gli shock provocati dai contatti fra gli elementi; dove c’è un flusso uniforme e omogeneo, farà apparire i tagli, le cesure, le pieghe e le cuciture dell’assemblaggio. I punti di connessione del collage, le zone di sovrapposizione e d’intersezione dei diversi ingredienti del processo d’ibridazione dovranno vedersi, toccarsi, sentirsi. Se, insomma, il reality è un mix che tende a far scomparire le tracce del suo assemblaggio, la blob-filosofia cercherà invece di riscoprirle, riattivarle e conservarle. Perché solo esaltando l’eterogeneità del collage, cioè mostrando il lavoro della colla e investendo su di esso, le diverse componenti, accostate e miscelate, saranno in grado di sprigionare quel differenziale elettrico in grado di dare una scossa alla nostra capacità, al nostro desiderio di pensare, creare, agire. Per questo la blob-filosofia è un frullatore delirante, o meglio, è quel particolare (dis)funzionamento del frullatore che lo fa delirare, costringendolo a funzionare al contrario: a ottenere dall’omogeneizzato – la pappa per bambini – dei minestroni aspri, ruvidi, grossolani, dissonanti. Per riattivare e attualizzare il valore d’uso dell’informe o del rizoma, la blob-filosofia opera, dunque, una sorta di contro-alchimia o di contro-lavaggio del cervello: passaggio dall’oro puro del reality, ai metalli vili degli intrichi informi e rizomatici; secessione dalla partecipazione ingenua alla macchina del consenso, attraverso i cortocircuiti elettrici che la sabotano, la mettono in stallo, la fanno uscire dai binari, la fanno fuggire altrove. La vita ai tempi del reality resta un bazar mediatico-esistenziale. Invece di coltivare le utopie alternative del ritorno al passato o del tuffo nell’avvenire, la blob-filosofia cerca di costruire occasioni, situazioni nelle quali il bazar diventi elettrico. Far proliferare i montaggi eterogenei, per dare una scossa al presente.

«La messa in correlazione di ordini di realtà estremamente eterogenei: questo è il montaggio» (M. Rebecchi, Cosa significa ‘conoscere attraverso il montaggio’. Intervista a G. Didi-Huberman, Giornaledifilosofia.net, Novembre 2010). 144 74

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